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ISRAELE COLPISCE LA SIRIA: PRIMO ATTO DEL “FINALE DI PARTITA”?

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Parlando al vertice dei capi della difesa a Monaco di Baviera, il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak ha infine confermato ciò che le agenzie di stampa avevano rivelato con clamore nei giorni precedenti: l’aviazione israeliana aveva lanciato un’operazione militare contro il legittimo governo della Siria. Dando luogo a speculazioni su un intervento militare su vasta scala da intraprendere molto presto. Barak ha riconosciuto il fatto, nel suo solito modo ambiguo, spargendo i segni per diverse interpretazioni…, “Non posso aggiungere nulla a quello che avete letto sui giornali di ciò che è successo in questi giorni in Siria”, ha detto Barak alla riunione degli alti diplomatici e funzionari della difesa di tutto il mondo. Poi ha proseguito: “Io continuo a dire francamente ciò che abbiamo detto – e questa è la prova che quando diciamo qualcosa, è vera – che non crediamo debba essere consentito trasportare sistemi d’arma avanzati in Libano”. (1) Questo tipo di affermazione è un buon esempio per illustrare quale tipo di operazioni venga lanciato contro Damasco. Oltre agli attacchi militari immediati, anche i metodi della guerra d’informazione vengono utilizzati intensamente, evidenziando i fatti con una grande quantità di ambiguità, insinuazioni torbide e anche supposizioni arbitrarie. La missione è demoralizzare il nemico, spezzare la sua forza di volontà a resistere e privare la Siria di un qualsiasi sostegno internazionale, di cui potrebbe aver goduto finora.

Secondo le prime notizie, negli attacchi aerei dell’aviazione israeliana effettuati la notte del 30 gennaio, l’obiettivo era un impianto chimico della difesa situato nelle vicinanze di Damasco. L’interpretazione è stata rapidamente ripresa dall’opposizione siriana. Spiegando così facilmente perché il nemico storico sia dalla sua parte. Sostenendone ancora tale versione dei fatti. Al resto del mondo è stata raccontata una storia diversa, quattro gruppi aerei, ognuno composto da tre velivoli, hanno sorvolato a bassa quota il monte Hermon e colpito un centro logistico congiunto di Siria, Hezbollah e Iran dove venivano conservate delle “armi ad alta tecnologia”, tra cui moderni missili superficie-aria. Presumibilmente un convoglio di camion sulla strada per il confine con il Libano è stato danneggiato, ma ben presto questa versione scomparve senza essere confermata.

Damasco ha detto che Israele ha attaccato un centro di ricerca della difesa. L’edificio è stato distrutto e due membri del personale sono morti, cinque altri feriti. Il 31 gennaio i governi di Siria e Iran hanno fatto dichiarazioni affermando che si riservavano il diritto di vendicarsi. Finora la Siria non ha risposto, probabilmente non vuole coinvolgere nuovi attori nello scontro. L’ambasciatore siriano in Libano, Ali Abdul-Karim Ali, ha minacciato ritorsioni all’attacco aereo israeliano dicendo che Damasco “ha la possibilità e la capacità di effettuare una rappresaglia a sorpresa”. Non ha precisato di cosa si trattasse. Nel frattempo le attività militari in prossimità del confine israeliano con la Siria e il Libano si sono intensificate, andando oltre la portata di azioni limitate. Forse è il primo atto del previsto “finale di partita”. A Londra si ricordano che il giorno prima dell’attacco israeliano, il Maggior-Generale Amir Eshel aveva avvertito che la Siria sta cadendo a pezzi e nessuno sa che cosa accadrà il giorno dopo: “La guerra non può scoppiare domani”, aveva detto, “ma noi siamo pronti a qualsiasi evenienza”.

All’inizio del 3 febbraio, i media libanesi hanno riportato che l’aviazione israeliana ha aumentato le proprie attività in diverse parti del sud del Libano. Volando sopra le città di Nabatia, al-Hiam e altre aree urbane, conducendo missioni di addestramento al combattimento a bassa quota. Né le forze armate libanesi, né Hezbollah hanno risposto. (2) Il ministro degli Esteri libanese Adnan Mansour ha chiesto la condanna internazionale d’Israele. Ha detto che il raid aereo della scorsa settimana in Siria “è un’aggressione contro il Libano”. Ha inoltre aggiunto, “Israele merita risposte dure e un boicottaggio duro sul piano economico, politico e diplomatico”. Parlando prima di recarsi a Cairo per partecipare a una conferenza dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, Mansour ha detto, “i jet israeliani continuano a invadere lo spazio aereo del Libano ogni giorno. Dobbiamo resistere agli attacchi israeliani, ma non solo con gli appelli, le dichiarazioni e la condanna”.

E’ noto che le forze armate israeliane sono in stato di allerta al combattimento dal 25 gennaio. Tre batterie della difesa missilistica Iron Dome sono stati dispiegati nel nord d’Israele. Secondo il canale TV al-Manar (Hezbollah), un’unità israeliana ha smantellato il filo spinato vicino al villaggio di Yarun. Il gruppo consisteva in venti soldati e alcuni veicoli blindati. Non hanno attraversato realmente la frontiera, ma vi si sono avvicinati. In Israele molti hanno iniziato a parlare della necessità urgente di creare una zona cuscinetto profonda 16 km tra Israele e la Siria, e di spostare due divisioni e un battaglione sulle alture del Golan. Secondo gli esperti, nel caso di un grande intervento contro la Siria, il Libano e Hezbollah sarebbero i principali obiettivi d’Israele. Nessun dubbio che Hezbollah lo sappia bene e stia intraprendendo le misure preparatorie. Le forze armate libanesi sono in stato di massima allerta. Presumibilmente i militari non si confronteranno con gli israeliani (non l’hanno fatto durante l’ultimo conflitto sul loro territorio), ma non ostacoleranno Hezbollah.

Nel caso di un conflitto, i 60.000 razzi che Hezbollah ha contrabbandato in Libano (tre volte in più rispetto al 2006), sarebbero un vero rompicapo per Israele. Le armi provenienti dalla Siria, nel caso collassasse, è una questione di particolare interesse, in particolare per i SA-15 e SA-17 di fabbricazione russa, in grado di colpire bersagli a bassa quota. Yiftah Shafir del Centro Jaffee per gli studi strategici dell’Università di Tel Aviv, ha detto a Ynet, “Nel 2006 abbiamo visto che Hezbollah è un esercito come gli altri, con punti forti e deboli. Non ha carri armati, per esempio, e non è certo che vorrà avere dei carri armati siriani. Suppongo che vuole ancora essere rifornito dalla Siria di razzi e missili antiaerei. Abbattere un aereo israeliano con il sistema missilistico antiaereo SA-17 sarebbe una vittoria per la propaganda di Hezbollah, ma questo sistema è molto difficile da usare. Presumo che preferiscano i piccoli sistemi antiaerei, come il SA-8. Questi missili possono essere caricati su un camion e sono abbastanza facili da usare”. Israele teme che alcune di queste armi finiscano non solo nelle mani di Hezbollah, ma nelle mani di elementi legati alla Jihad globale di al-Qaida. Come in tempo di guerra, il tintinnare di sciabole va di pari passo con l’aggressione mediatica, comprese quella orchestrata ai vertici. Ad esempio, i media israeliani hanno diffuso dappertutto notizie secondo cui il governo ha ottenuto il via libera per l’attacco contro la Siria da Washington e da Mosca. Debkafile, sito open-source sull’intelligence militare israeliana, ha riferito che l’operazione è stata attuata con il via libero del presidente Obama, dopo che la Casa Bianca, il 22 gennaio, era stata informata del piano dal comandante dell’Aman (l’intelligence militare israeliana), Maggior-Generale Aviv Kochavi. Il sito ha anche riferito che un altro emissario israeliano, il consigliere della sicurezza nazionale Yakov Amidror aveva visitato Mosca, nello stesso momento, per avvertire i leader russi dell’imminente attacco. Mentre i funzionari russi hanno espresso obiezioni nei confronti dell’attacco israeliano alla Siria, apparentemente avrebbero omesso di avvertire il Presidente Assad di quello che sarebbe successo, che è stato colto di sorpresa. Dopo il raid, il presidente Vladimir Putin ha comunicato al leader siriano di non aggravare la situazione militare con Israele. Secondo altre fonti, compresa Debka, gli israeliani hanno raccontato a Mosca la solita storia che era loro intenzione impedire che armi chimiche finissero nelle mani di Hezbollah, senza fornire dettagli.  E’ chiaro che confondere i fatti e le informazioni abbia il solo scopo di legittimare le azioni israeliane, ottenendo una presunta approvazione dalle grandi potenze. Nel caso della Russia, l’obiettivo è minare la sua credibilità nel mondo arabo, anche presso Damasco. Questo abuso della riservatezza (è difficile credere che i funzionari di Stato israeliani non abbiano nulla a che fare con ciò che scrive Debka) non è passata inosservata a Mosca. Non è un caso che il raid aereo sia stato condannato da Mosca, e senza mezzi termini, “la Russia dice di essere estremamente preoccupata per le notizie di un attacco aereo israeliano in Siria, nei pressi di Damasco, e una tale azione sarebbe un’indebita interferenza militare. Se questa informazione è confermata, allora si tratta di un attacco non provocato contro obiettivi sul territorio di un Paese sovrano, che viola palesemente la Carta delle Nazioni Unite e che non è accettabile, non importano i motivi addotti per giustificarlo”, ha detto il ministero degli Esteri russo in una dichiarazione del 31 gennaio. La risposta della Turchia è stata alquanto particolare. Il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu ha criticato il raid israeliano in Siria, mettendo pesantemente in discussione l’inazione di Damasco verso l’aggressione. “Perché [Bashar] al-Assad non ha neanche gettato un sasso quando i jet israeliani sorvolavano il suo palazzo e si facevano beffe della dignità del suo Paese?” ha detto Davutoglu ai giornalisti durante la sua visita bilaterale nella capitale serba Belgrado, ha riferito il quotidiano Hurriyet. “Perché l’esercito siriano, che ha attaccato il suo stesso inerme popolo per 22 mesi dal cielo, con gli aviogetti, e a terra con i carri armati e il fuoco dell’artiglieria, non risponde all’operazione d’Israele? Perché non è possibile per al-Assad, che ha dato ordine di sparare missili SCUD su Aleppo, fare qualcosa contro Israele?” ha chiesto Davutoglu. Ha detto di non conoscere le circostanze precise del raid, ma ha aggiunto che la Turchia non sarebbe rimasta senza rispondere ad un attacco israeliano contro un Paese musulmano. (3) Ecco perché gli israeliani hanno un motivo per credere che una guerra tra Israele e la Siria sarebbe la migliore soluzione per i militari turchi. La Turchia se ne sarebbe rimasta in disparte, avendo ancora la possibilità di giocare il ruolo del “pacificatore e del liberatore dal nemico secolare”.

Il fatto che Netanyahu possa gettare il paese nella mischia sta diventando una questione sempre più preoccupante per gli israeliani. Secondo il quotidiano di destra Maariv, alti funzionari del ministero degli Esteri israeliano dicono che non ci sono stati cambiamenti strategici in Siria di recente, e non vi è alcun motivo di esser presi dal panico o di fare dichiarazioni ad alta voce. C’é uno status quo e la probabilità che armi di distruzione di massa finiscano nelle mani dei terroristi rimane sempre la stessa. Maariv scrive che Netanyahu istiga la tensione cercando di formare il più ampio governo di coalizione nazionale possibile. La cosa più semplice è invitare le parti a essere responsabili e a formare il governo che Netanyahu vuole, sotto il condizionamento della paura e delle minacce alla sicurezza. (4)

Molti in Israele dicono che tali azioni non soddisfano gli interessi dello Stato di Israele. Gli analisti locali scrivono che Israele non è interessato alla caduta di Assad, ma volente o nolente l’indebolisce mostrando al mondo che la difesa aerea siriana è vulnerabile. In questo modo si potrebbe accelerare un intervento straniero in Siria e facendo finire nelle mani sbagliate delle armi non convenzionali, divenendo un vero e proprio incubo prima del previsto. (5)

 

 

(1) http://cursorinfo.co.il/news/novosti/2013/02/03/barak-prokommentiroval-bombardirovku-v-sirii/

(2) http://www.zman.com/news/2013/02/03/144392.html

(3) http://cursorinfo.co.il/news/novosti/2013/02/02/turki-zapodozrili-tayniy-sgovor-asada-s-izrailem/

(4) http://cursorinfo.co.il/news/novosti/2013/01/29/v-mide-rezko-raskritikovali-netaniyagu/

(5) http://mignews.ru/news/analitic/world/030213_113802_20074.html

 

Da  www.strategic-culture.org.

http://www.strategic-culture.org/pview/2013/02/06/israel-strikes-syria-first-act-of-endgame.html


Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com


MALVINE: DA CRISTOFORO COLOMBO A JUAN PERÓN

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Cristoforo Colombo ha dato alla Castilla lo stesso obiettivo che, dal 1415 perseguiva il Portogallo: arrivare alle Indie, ma navigando verso l’ovest. L’idea di arrivare in Asia navigando verso l’Occidente non era nuova. Già ai suoi tempi, Seneca, aveva affermato che era possibile navigare dalla Spagna fino alle Indie in pochi giorni. Il risultato imprevisto dello sforzo della Spagna per raggiungere le Indie, si chiama America. Riflettendo sulla scoperta e conquista dell’America, Abelardo Ramos afferma che, (quando) “…il 12 ottobre del 1492, il ligure Cristoforo Colombo svela all’Europa l’esistenza di un Orbis Novo…non è stata solo l’eclissi della tradizione tolemaica e la fine della geografia medievale. C’è stato qualcos’altro. Quel giorno è nata l’America Latina e con essa sarebbe stato generato un nuovo gande popolo, fondato sulla fusione delle cultura antiche.”

Per Jorge Abelardo Ramos, il 12 ottobre, è il giorno della nascita dell’America Latina e questo è un fatto irreversibile- secondo Ramos- indipendentemente dal fatto che questa data venga detta “…scoperta dell’America, o Doppia Scoperta o Incontro di due Mondi, o genocidio, in base ai gusti, e soprattutto, in base agli interessi, non sempre chiari…”

Da quella data, inoltre, il desiderio dell’Inghilterra di togliere alla Spagna le nuove terre scoperte e colonizzate. È durante il regno di Filippo II di Spagna che, la regina dell’Inghilterra Isabella I lancia contra l’America spagnola un esercito di pirati e bucanieri che iniziano contro la Spagna una guerra blanda. Così l’America spagnola sarà attaccata da Francis Drake nel 1579, e da John Davis, nel 1592. L’obiettivo strategico inglese è chiaro dal principio: strappare alla Spagna pezzi della sua sovranità in America. Le numerose isole del continente americano saranno le prime vittime della cupidigia britannica. Nel sud del continente americano l’Inghilterra rivolge il suo sguardo alle isole che controllano strategicamente il passaggio tra i due oceani- le nostre Malvine- e organizza, nel 1748, una spedizione con il proposito inequivocabile di appropriarsene ma, solo molti anni dopo, riuscirà a mettere le mani su di esse. Bisogna sottolineare che la cupidigia britannica è aumentata in concomitanza all’indebolimento del potere spagnolo e che, nel 1806 e nel 1807, l’Inghilterra invade la città di Buenos Aires con il chiaro proposito di impadronirsi di tutto il cono sud del continente americano. Il popolo armato ha sconfitto in due occasioni l’esercito britannico che, nella seconda invasione contava niente meno che 10.000 soldati. Tuttavia, sconfitta militarmente, l’Inghilterra non si darà per vinta. Cambierà solo tattica per raggiungere il suo obiettivo di appropriarsi delle terre dell’Argento. A tale scopo, creata la rivolta indipendentista, comprerà favori, organizzerà logge segrete che difendano i suoi punti di vista ma, soprattutto, cercherà di convincere i dirigenti politici del Río de la Plata che non devono mettere alcuna barriera protezionista che impedisca o ostacoli l’arrivo dei prodotti industriali britannici, al porto di Buenos Aires c’è quindi una divisione internazionale del lavoro secondo la quale l’Inghilterra deve essere la fabbrica del mondo e le Province Unite del Río de la Plata, la sua fattoria. Imprimendo a questa ideologia di preservazione della propria egemonia le apparenze di un principio scientifico universale di economia, è riuscita a convincere della sua provenienza la maggior parte dell’elite di Buenos Aires, affiliata al Partito Unitario. Poco a poco le Province Unite del Río de la Plata, diventano una semi-colonia britannica. Tuttavia l’irruzione politica di Juan Manuel de Rosas che, nel 1835, stabilisce la legge delle dogane, sfidando, proprio come gli Stati Uniti del Nord America e quindi anche per questo, gli pseudo principi scientifici del libero commercio, fa recuperare al popolo argentino la sua sovranità economica e politica. La risposta britannica all’arrivo al potere di Rosas è stata, per prima cosa, l’occupazione delle Malvine e dopo, l’intervento militare diretto, che ha portato avanti insieme alla Francia. L’obiettivo non dichiarato dell’intervento anglo-francese era la destabilizzazione del governo di Rosas, con il fine di provocare la sua caduta. Sconfitta nuovamente dal popolo armato, l’Inghilterra dovrà aspettare fino al 1852 per imporre di nuovo nel Río de la Plata la politica del libero commercio. Dopo di Caseros, l’Argentina torna ad essere una semi-colonia inglese. Abbattuto Rocas, l’Inghilterra inizia a pensare che tutta la Patagonia poteva diventare formalmente una colonia britannica. L’Inghilterra sa che né il popolo di Mitre né quello di Los Sarmientos opporranno eccessiva resistenza. Tuttavia, con l’arrivo di Roca alla Presidenza, l’Argentina sembra recuperare timidamente la sua preoccupazione per i territori australi. Roca ricomincia, allora, la protesta diplomatica per la sovranità delle nostre Malvine. Tuttavia, è lo stesso Roca che, abbandonando completamente il tentativo di industrializzazione dell’Argentina, permette che questa diventi la fattoria dell’Inghilterra.

Il generale Roca è il presidente cerniera tra il secolo XIX e il secolo XX. Tuttavia, non ha saputo liberarsi della subordinazione ideologica che la Gran Bretagna esercitava sulla stragrande maggioranza della classe politica argentina. Roca ha vinto militarmente a Mitre ma non è riuscito a vincere ideologicamente il mitrismo che non era altro che l’incarnazione creola dei principi di libero scambio che l’Inghilterra aveva esportato verso la periferia come dottrina di dominazione. L’industrializzazione per Roca non è stato l’orientamento della sua politica economica. Non si è proposto, come John MacDonald si era proposto per il Canada in quello stesso momento storico- di fare dell’Argentina una piccola potenza industriale. Roca non si è proposto di raggiungere l’indipendenza economica, come John MacDonald di era proposto per il Canada, si è accontentato di raggiungere una prosperità economica strutturalmente molto debole e un vertiginoso progresso economico che, con mani e piedi legati alla Gran Bretagna, conteneva in sé il germe del suo stesso esaurimento. Di sicuro, con Roca, è arrivata al governo l’elite politica delle province interne, i cui interessi erano diversi da quelle portuarie, cioè dalla classe politica di Buenos Aires nata dal contrabbando che, dopo il maggio del 1810, si era proposta di fare delle province, una colonia di Buenos Aires, e di Buenos Aires, una colonia dell’Inghilterra. Ma, quando l’elite delle province è arrivata a Buenos Aires è stata cooptata dal potere di Buenos Aires. Fatto che ha permesso che gli uomini dell’interno restassero al governo e quelli di Buenos Aires al potere. “Quello che non hanno potuto le armi lo ha fatto al permanenza” ironizza Arturo Jaurechte.

Nel 1904 la vecchia classe politica di Buenos Aires è riuscita ad espellere dal governo l’apparentemente molesta, sebbene ormai inoffensiva presenza provinciale. Il 12 ottobre di quell’anno Julio Argentino Roca ha lasciato il potere a Manuel Quintana. Dopo Caseros, l’Argentina vive una pseudo-democrazia, è in realtà una repubblica oligarchica i cui rappresentanti sono meri amministratori dell’impero britannico. Tale realtà spiega che, nel 1908, quando l’Inghilterra dichiara come dipendenza coloniale le nostre isole dell’Atlantico sud e parte della nostra Patagonia, il presidente “argentino”, Figueroa Alcorta, non fece alcun reclamo né alcuna protesta. Nel 1914 il presidente Roque Sáenz Peña sanziona, per evitare una nuova guerra civile, la legge che consacra il voto segreto e obbligatorio. Due anni dopo il popolo argentino elegge liberamente, per la prima volta, il presidente della Repubblica. Con Hipólito Irigoyen e il radicalismo, il popolo ritorna al potere dal quale era stato sloggiato dopo la battaglia di Caseros. Tuttavia, Irigoyen non riesce a capire che finché l’Argentina continua ad essere un paese rurale, continuerà ad essere una semi-colonia. Solo l’irruzione nella vita politica argentina di Juan Domingo Perón, identificato dai suoi nemici politici come un secondo Rosas,fa sì che l’Argentina si proponga di riprendere il cammino dell’industrializzazione. Il 9 luglio del 1949, a San Miguel de Tucumán, il presidente della Repubblica, il generale Perón, nella storica casa di Tucumán nei cui saloni era stata giurata l’indipendenza politica della Spagna, procede con la dichiarazione d’indipendenza economica dell’Argentina.

“Continuiamo il mandato della nostra storia.- dichiara Perón- da Mendoza, San Martín ha terminato la dichiarazione d’indipendenza, ha convocato i suoi stessi deputati e li ha mandati a Tucumán. E noi, che dobbiamo seguire la linea infrangibile del senso e del sentimento sanmartiniano, arriviamo fino a Tucumán per andare nella stessa casa, commemorare lo stesso clima, impegnarci con lo stesso giuramento e deciderci a morire, se è necessario, per ottenere l’indipendenza economica”. Perché è necessaria questa indipendenza?- si chiede Perón, per rispondere dopo- Perché: “Disgraziatamente, mentre lottavamo tra il 1810 e il 1828 per conquistare la nostra indipendenza politica, perdevamo la nostra indipendenza economica, essendo colonizzati da altre nazioni che per più di cento anni hanno tratto benefici da questa situazione”.

Il generale Perón svela a Tucumán una verità largamente nascosta dalla storia scritta dai vincitori di Caseros: il fatto che l’Argentina è passata dalla dipendenza ufficiale dalla Spagna alla dipendenza ufficiosa dalla Gran Bretagna. La dolorosa verità, la verità nascosta, è che abbiamo cambiato il collare ma non abbiamo smesso di essere cani. Siamo passati dal collare visibile spagnolo al collare invisibile inglese.Abbiamo avuto bandiera, inno e esercito ma, l’Inghilterra ci ha incatenato ai suoi piedi con il prestito Baring Brothers e la sottile colonizzazione culturale. Dopo l’indipendenza siamo diventati una colonia ufficiosa dell’impero britannico. Il 9 luglio del 1949, a Tucumán, il generale Perón ha intrapreso il cammino della nostra seconda emancipazione. L’indipendenza dell’impero inglese era stata avviata. È in questa cornice di recupero di sovranità politica che, per la prima volta, l’Argentina, porta il suo reclamo per le Malvine ai Fori Internazionali. Processo che viene coronato, nel 1965, con la Risoluzione delle Nazioni Unite che riconosce la situazione coloniale delle Malvine, e obbliga la Gran Bretagna, per la prima volta, a sedersi al tavolo delle negoziazioni.

 

 

 

Marcelo Gullo è Dottore in Scienze Politiche all’Università del Salvador, Laureato in Scienze Politiche all’Università Nazionale del Rosario, laureato in Studi Internazionali alla Scuola Diplomatica di Madrid, ha ottenuto il Diploma di studi Superiori (master) in Relazioni Internazionali, specializzazione in Storia e Politica Internazionale, all’Institut Universitaire de Hautes Etudes Internationales, di Ginevra. Discepolo del politologo brasiliano Helio Jaguaribe e del sociologo e teologo uruguaiano Alberto Methol Ferré, ha pubblicato numerosi articoli e libri, tra cui Argentina Brasil: La gran oportunidad (prologo di Helio Jaguaribe e epilogo di Alberto Methol Ferré) e La insubordinación fundante: Breve historia de la construcción del poder de las naciones (Prologo di Helio Jaguaribe, edizione italiana La costruzione del potere. Storia delle nazioni dalla prima globalizzazione all’imperialsimo statunitense, Vallecchi, Firenze 2010) in materia di Relazioni Internazionali della Federación Latinoamericana de Trabajadores de la Educación y la Cultura (FLATEC) e professore della UNLa.

 

(Traduzione di Daniela Mannino)

RADIO ITALIA IRIB E GLI STRANI CASI DI NOTIZIE MAI DIFFUSE DAGLI ALTRI MEDIA

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Nel giro di pochi giorni, agli inizi di Febbraio, sono accaduti due casi emblematici che bisognerebbe esaminare con attenzione.

 

 

Caso numero uno: la risposta della Siria ad Israele

Da un sito siriano e dal canale 10 della tv israeliana (e poi in realtà dalle tv di Siria ed Israele ed altre fonti mediorientali) risulta che martedì 5 Febbraio caccia dell’aviazione siriana hanno sorvolato le città di Haifa e Tel Aviv diffondendo volantini invece che bombardare come aveva fatto la settimana prima Israele nei confronti della Siria. Il testo dei volantini recitava: ” “Noi possiamo colpire quando vogliamo, ma decideremo noi dove e quando; tanti saluti, gli avvoltoi siriani”.

Per ulteriori informazioni sull’evento, le implicazioni ed il significato militare ed i documenti della notizia consultare i link sottostanti:

http://italian.irib.ir/notizie/mondo/item/120768

http://italian.irib.ir/analisi/commenti/item/120779

http://italian.irib.ir/notizie/mondo/item/120834

E’ degno di nota (aggiornamento della giornata di Venerdi’ 8 Febbraio) che abbiamo riportato anche le immagini del sorvolo diffuse dalla stessa tv israeliana. (GUARDA IL VIDEO AL LINK SOTTOSTANTE)

http://italian.irib.ir/notizie/mondo/item/120867

Molti utenti del sito ci hanno inviato email e messaggi anche attraverso Facebook facendo presente che in effetti la notizia non è stata ripresa da nessun media occidentale.

Molti amici hanno scritto: “Ma come mai l’Ansa non ne parla?”

A riferirla oltre alla sezione italiana di IRIB, anche la sezione francese dello stesso gruppo d’informazione, oltre naturalmente alle fonti originali.

 

 

Caso numero due: il video decrittato del drone Usa RQ-170

Giovedì 7 Febbraio l’Iran diffonde 38 secondi di video che avrebbero dovuto sconvolgere il mondo. Il video è il filmato decrittato ripreso dal drone Usa RQ-170, dalla tecnologia assolutamente segreta, che l’Iran ha prodigiosamente fatto atterrare mesi fa’. Ecco il link della notizia con tanto di video.

http://italian.irib.ir/notizie/mondo/item/120833

Allora, anche in questo caso, anche se ne parlano ampiamente i media Usa (vedi CNN, NBCnews, Foreign Policy ecc…), in Italia non ne parla quasi nessuno. La grande stampa ha letteralmente “ignorato” la notizia. Una notizia che smentisce per l’ennesima volta gli americani che avevano dichiarato, dopo la cattura del drone, che era impossibile che gli iraniani riuscissero ad estrarre da questo i dati. In altre parole la stampa italiana non ha voluto che si sapesse che gli iraniani si sono mostrati “superiori” tecnologicamente anche in questo versante.

Facendo una veloce ricerca su google è possibile vedere che ne parlano solo tre siti italiani, mediamente conosciuti.

Tmnews, Giornalettismo e America24, e nessuno di questi dedica più di 8 righe al fatto. Tutti poi esprimono forti dubbi sull’autenticità del video mentre gli americani stessi stanno riconoscendo che gli iraniani ci sono riusciti.

 

 

Conclusione

Ora si capisce perchè l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno oscurato sul satellite Radio Italia IRIB, Radio French IRIB, Press TV e gli altri media iraniani in Europa e Nord America.

Così per loro, per non far sapere la verità ai propri cittadini, sarà sufficiente non riferire certi fatti.

E così molti italiani, francesi, tedeschi ecc… si chiederanno che se le nostre notizie sono vere perchè non ne parla assolutamente l’Ansa, France24, Der Spiegel ecc…

Insomma, pare che ci sia un piano sistematico di censura della realtà in Medioriente.

Noi abbiamo solo voluto avvisare…A decidere se ciò è grave o meno saranno i diretti interessati: i popoli dell’Europa e del Nord America!

 

http://italian.irib.ir/analisi/commenti/item/120860

TEHERAN PASSATO PRESENTE

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Biblioteca nazionale centrale di Roma – in collaborazione con Istituto Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran – Roma.


12 febbraio – 2 marzo, 2013 – Mostra: TEHERAN passato presente

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INTERVISTA A MARCO WONG, PRESIDENTE DI ASSOCINA

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Intervista a cura di Andrea Fais

 

 

Da alcuni anni Lei ricopre il ruolo di presidente onorario di AssoCina, un’associazione formata da alcuni italo-cinesi di seconda generazione, ossia cinesi nati e/o cresciuti in Italia. È un’associazione che, come riportate nel Vostro spazio multimediale, nacque spontaneamente sulla rete nel 2005 ma che, nel frattempo, ha assunto i tratti di una vera e propria organizzazione di intermediazione culturale e scientifica attraverso momenti di condivisione ed incontro che valorizzino le differenze come ricchezza culturale. Quali sono le Vostre attività nel dettaglio e quali difficoltà ambientali avete sin’ora riscontrato?

Le attività dipendono molto spesso dalle opportunità che si presentano nei vari territori. Per esempio ultimamente stiamo portando avanti una iniziativa a Milano che ha come obbiettivo la maggior integrazione della comunità cinese, a Roma abbiamo collaborato col Museo Pigorini per una mostra, dal titolo [S]oggetti migranti, sul territorio nazionale abbiamo avuto delle iniziative per l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Quindi abbiamo spaziato dal sociale al culturale e all’economico. Le difficoltà sono sia interne che esterne. Quelle interne sono date dai limiti del volontariato puro, per cui non abbiamo persone che lavorano a tempo pieno per AssoCina ma tante di buona volontà che ci dedicano il loro tempo libero. In una situazione del genere diventa difficile fare una pianificazione sulle disponibilità. I fattori esterni invece dipendono spesso da condizioni ambientali locali e dalla apertura e disponibilità delle istituzioni con cui abbiamo a che fare.

 

 

La storia della Sua famiglia costituisce un lodevole esempio di integrazione sia nei termini della capacità di rispettare il Paese ospitante sia nell’abilità di trasformare un apparente punto di debolezza, come la condizione di “straniero”, in un punto di forza, favorendo addirittura la cooperazione industriale ed infrastrutturale tra le due realtà. Laureatosi in Ingegneria Elettronica a Firenze e specializzatosi in Telecomunicazioni al Politecnico di Milano, il Suo impegno nel settore dell’industria telefonica Le ha consentito, fra le altre cose, di contribuire attivamente alla fase di modernizzazione che la Repubblica Popolare Cinese ha intrapreso a partire dal 1979. Oggi, per i giovani cinesi cresciuti in Italia, è più facile o più difficile seguire il Suo esempio? Il processo di globalizzazione economica rappresenta un’opportunità o un ostacolo in questo senso?

Le condizioni sono sicuramente cambiate nel corso degli anni, ai miei tempi le opportunità erano minori ma erano anche molto meno le persone professionalmente adeguate a ricoprire certi ruoli, per cui alcune opportunità andavano anche un po’ costruite. Adesso il mondo è cambiato e per una seconda generazione sbocchi professionali non sono limitati alle aziende italiane che operano in Cina ma si può contare anche su quelle cinesi che approdano in Italia, per esempio. Inoltre adesso esiste una varietà sempre crescente di settori, non solo ingegneria e produzione ma anche servizi e finanza. Psicologicamente adesso è più “normale” prendere in considerazione l’idea di andare in Cina, ma la maggior concorrenza implica che spesso le opportunità sono meno sfidanti di quelle che ho avuto io.

 

 

I cinesi di seconda generazione costituiscono una realtà solida in Italia, tuttavia il pregio di voler mantenere un forte legame con la terra di origine dei propri padri viene spesso letto dagli italiani e dagli europei come un difetto. In una società occidentale apparentemente “avanzata” ma non di rado inconsapevolmente xenofoba, purtroppo un fattore identitario così importante diventa foriero di dubbi e sospetti che mettono pregiudizialmente in discussione l’integrità morale e l’onestà di tanti lavoratori e studenti cinesi completamente estranei alle attività illecite che gli vengono genericamente attribuite. In questa difficile lotta contro i pregiudizi, la Vostra Associazione è favorita o piuttosto ostacolata dalle istituzioni e dai mezzi di informazione del nostro Paese?

Spesso molti dicono “integrazione” ma in realtà quello che vorrebbero è la “assimilazione”. Quello che cerchiamo di far capire è che una seconda generazione è un vantaggio per la società quando mantenga il suo ruolo di ponte tra due culture e rimanga sia italiano che cinese. Penso che le seconde generazioni siano un fenomeno non ancora ben compreso dalle istituzioni e dai media, quindi le reazioni vanno dalla diffidenza alla curiosità e il rapporto è spesso da costruire sin dalle fondamenta.

 

 

Oggi la Cina rappresenta senz’altro il faro delle nuove economie emergenti che nel linguaggio politico internazionale vengono definite con la sigla BRICS. La rapida crescita economica e la capacità di modernizzazione nei quattro settori indicati dal presidente Deng Xiaoping nel 1980 hanno consentito alla nazione orientale di affermarsi nel ruolo di seconda potenza economica e di terza potenza militare. Considerando anche la crisi che ha attanagliato le economie occidentali e in particolare l’Italia, è presumibile ipotizzare che molti cinesi di seconda generazione possano ben presto manifestare l’intenzione di emigrare, da cittadini italiani, per andare a vivere in Cina?

Questo in realtà sta già succedendo, sono molte le persone di mia conoscenza che hanno intrapreso questo cammino. Giovani che in Italia non avrebbero le stesse opportunità di realizzazione professionali, anche mossi dal desiderio di scoprire meglio le proprie radici. La crisi economica poi spinge molti immigrati cinesi di prima generazione a considerare il ritorno in Cina o l’emigrazione in altri paesi che offrono migliori opportunità di crescita rispetto all’Italia.

 

 

Il presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbaev, da anni promuove la ricostruzione in chiave moderna di quella Via della Seta che fu, nel passato più remoto, la chiave di volta nel processo di integrazione culturale e commerciale del continente eurasiatico. Il progetto di costruzione della grande arteria autostradale “Western Europe – Western China”, per il quale il Paese centrasiatico ha già realizzato 2.700 km di strada in pochi anni nel suo territorio, potrebbe rivoluzionare gli assetti internazionali e porre le basi per un nuovo sistema multipolare, garante di uno sviluppo internazionale condiviso e non più ostaggio dell’esclusivismo di pochissime potenze privilegiate. Secondo Lei, quanto manca ancora nella società europea per abbattere i pregiudizi e comprendere che il XXI sarà un secolo di profonda trasformazione mondiale?

Una delle caratteristiche della società europea è un atteggiamento assai conservatore soprattutto se paragonato alle realtà mondiali più dinamiche, più che al costruire e al fare si punta l’accento al conservare e mantenere, atteggiamento che riflette anche un giusto orgoglio per conquiste sociali molto significative. Questo però non permette di capire a fondo la velocità del cambiamento che sta avvenendo in altre aree del mondo. Come sempre succede ci saranno attori che saranno in grado di percepire il vento che cambia prima degli altri. Per esempio, le aziende che operano in mercati non protetti e che già sanno che il baricentro mondiale si è spostato, i giovani che viaggiano, che parlano più lingue e magari non solo quelle europee e che percepiscono stimoli interessanti che provengono da lontano. Saranno loro la spinta all’adeguamento verso il cambiamento che sta avvenendo altrove.

 

 

 

 

*Marco Wong, nato a Bologna nel 1963, è ingegnere elettronico, specializzato in telecomunicazioni. Ha lavorato come tecnico e dirigente per Italtel, Pirelli, TIM, China Unicom e Huawei Technologies Italia. Dal 2010 è direttore editoriale del mensile bilingue “It’s China” e dagli inizi del 2011 ha cominciato la propria attività imprenditoriale nel settore degli alimentari etnici. Da diversi anni è Presidente Onorario di AssoCina.

L’EURASIATISMO KAZACO

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Il Kazakistan tende ad autodefinirsi come un luogo in cui l’Oriente incontra l’Occidente, l’Europa si imbatte nell’Asia e dove gli scambi tra popoli sono da sempre prassi comune. Un Paese eurasiatico per spirito, geografia e cultura, a cavallo tra le aree culturali russa, islamica ed orientale, e la stessa Astana è stata definita dal presidente kazaco Nazarbaev come una sintesi di tradizionalismo asiatico e pragmatismo europeo[1]. Questa è l’essenza dell’eurasiatismo kazaco, che per il Paese delle steppe è allo stesso tempo un mezzo per costruire un’identità nazionale solida e comprensiva degli innumerevoli gruppi etnici che lo costituiscono, definire un proprio ruolo geopolitico nello spazio postsovietico e stabilire rapporti con la Russia nell’ottica di un superamento della dicotomia centro-periferia dell’epoca sovietica.

L’eurasiatismo kazaco, se da un lato può considerarsi il frutto dell’adattamento dell’originale russo alla realtà del Paese asiatico, non di rado rivela peculiarità del tutto originali. Si tratta di un costrutto ideologico, i cui pilastri sono l’attivismo e la produzione saggistica di Nazarbaev, che ha contribuito a determinare la linea politica del Paese in questioni quali la politica estera, la gestione dei rapporti interetnici ed interreligiosi e la delicata questione linguistica. Il risultato è una forma di nazionalismo civico[2], la cui retorica va distinta tanto da quella del nazionalismo kazaco vero e proprio (i cosiddetti nazional-patrioti, fautori di uno Stato kazaco etnico nel quale, ad esempio, la lingua russa sia privata dello status di lingua ufficiale), quanto da quella dell’eurasiatismo russo “imperiale”, nella quale un ruolo preponderante viene svolto dal tema del recupero russo dello status di grande potenza. Ma è proprio da quest’ultimo, nonché dalle politiche di Putin volte al recupero di un’area d’influenza russa nel cosiddetto Estero Vicino (i Paesi dell’ex URSS con l’eccezione delle Repubbliche Baltiche), che l’eurasiatismo kazaco trae un’irrinunciabile linfa vitale. Allo stesso tempo, lo status di potenza regionale nell’Asia Centrale di cui gode oggi il Kazakistan e l’attivismo di Nazarbaev nell’integrazione economica dell’Estero Vicino sono due assi ai quali Putin difficilmente potrebbe rinunciare.

L’opera di revisionismo storico compiuta dagli eurasiatisti russi va senza dubbio considerata uno dei fattori che hanno aperto la strada all’eurasiatismo kazaco (oltre che nel favorire la comprensione tra i due popoli). La storiografia tradizionale tendeva a ricostruire la storia russa usando la triangolazione Rus’di Kiev – Principato di Moscovia – Impero Russo con capitale San Pietroburgo, mentre riguardo al periodo dell’Orda d’Oro, della quale i Kazaki sono discendenti diretti, non era infrequente leggere affermazioni, su avviso di chi scrive, antistoriche, come quella secondo cui “se non ci fosse stata la dominazione mongola, la Russia, forte delle sue origini e nutrita dalla tradizione bizantina, sarebbe diventata un faro di civiltà per l’Europa e il mondo intero”[3]. Per gli eurasiatisti, al contrario, fu proprio l’Orda d’Oro, attraverso i processi paralleli di russificazione dei popoli turanici[4] e di turanizzazione della Russia, a consegnare in eredità alla Grande Madre quell’universalismo di civiltà che le avrebbe consentito di diventare il grande impero eurasiatico nel quale si è trasformata[5]. Lev Gumilëv, il padre del neoeurasiatismo, dedicò poi numerosi studi ai popoli turchi[6]. Non c’è da sorprendersi se questi abbia tuttora una forte popolarità in Kazakistan, dove le sue opere (come in molti altri Paesi dell’ex URSS) sono ampiamente studiate. La stessa Università di Astana, la maggiore del Paese, nella quale è stato fondato un importante Centro Eurasiatista, é stata intitolata a Gumilëv, e i riferimenti a Gumilëv nei discorsi del presidente kazaco Nazarbaev sono tutt’altro che infrequenti[7].

Sul tema del revisionismo storico nell’ambito dei rapporti tra Russia e popoli delle steppe (Mongoli, Tatari ecc.) non si può non menzionare Olžas Sulejmenov, poeta, scrittore e saggista kazaco di lingua russa tuttora in attività e con un passato di attivista politico (è stato leader del movimento Nevada-Semipalatinsk che nel 1991 ha chiesto, ed ottenuto, la chiusura del famigerato poligono nucleare che sorgeva nelle steppe a sud della città). Sulejmenov è ricordato soprattutto per aver scritto Az i Ja, opera nella quale viene fatta un’interpretazione del tutto originale, persino opposta a quella tradizionale, del Canto della Schiera di Igor, il poema nazionale russo. Tradizionalmente, infatti, si vedeva nel componimento un appello all’unità dei Russi contro l’invasore delle steppe (nello specifico si trattava dei Cumani, un popolo nomade di stirpe turca). Rinvenendovi numerose parole turche o comunque di tale origine, Sulejmenov osservò come il poema era al contrario la prova di una simbiosi tra Russi e popoli turchi preesistente all’arrivo dell’Orda d’Oro[8]. Pur trattandosi di una delle interpretazioni più discusse mai avanzate sul Canto (sulla cui autenticità, peraltro, ancor oggi non mancano i dubbi), questa è senza dubbio meritevole di menzione, in quanto rappresenta un esempio di eurasiatismo “dal basso”. Qui, infatti, non troviamo un russo che riconosce l’influsso sulla propria cultura operato dai popoli turchi, bensì un kazaco, e quindi un turco, che rivendica l’influenza della propria cultura sulla Russia. Un eurasiatismo rovesciato che trovò espressione nella proposta dello stesso Sulejmenov, due anni dopo la caduta dell’URSS, di creare “un’unione tra Russia e Kazakistan dove siano superati il ruolo di metropolitana per la Russia e la dipendenza coloniale del Kazakistan”[9]. Proposta che rispecchiava l’ambizione, tipica degli eurasiatisti kazaki, di un rapporto alla pari con la Russia, ma che tuttavia è (al momento) rimasta sulla carta.

Un destino non condiviso dal progetto che Nazarbaev avanzò nel 1994: la creazione di un’Unione Eurasiatica. Si trattò della prima proposta di tal genere fatta da un Capo di Stato di un Paese ex sovietico dopo la fine dell’URSS. Nazarbaev, per la sua Unione Eurasiatica, proponeva qualcosa di non molto dissimile dall’attuale Unione Europea, ma in una prospettiva generale non poco differente: l’obiettivo dichiarato era, infatti, l’integrazione solo economica, e non politica, tra i Paesi partecipanti. Nessuno Stato federale eurasiatico all’orizzonte, quindi. Tra i principali aspetti dell’Unione proposta da Nazarbaev vanno sottolineati l’uso del russo come lingua di lavoro, la rotazione della presidenza, l’impiego di una valuta comune, la creazione organi di governo sovranazionali, procedure semplificate per il cambio di cittadinanza e l’istituzione di una capitale (Nazarbaev propose Kazan’ o Samara). Il Presidente kazaco approfondì la sua idea nel saggio L’Unione Eurasiatica: idee, prassi e prospettive, pubblicato nel 1997.

Anche questa proposta, all’inizio, sembrò destinata a rimanere lettera morta. La natura della CSI era quella di un organo di transizione che consentisse ai Paesi membri di ridurre gradualmente la loro interdipendenza, più che di un percorso verso una meta comune, e i Paesi ex sovietici si dimostrarono all’epoca poco interessati, se non decisamente contrari, a portare avanti un progetto di integrazione che avrebbe dovuto coinvolgere anche la Russia. Persino quest’ultima, titubante su quale strategia politica adottare, mostrò scarso interesse per la proposta. Nel 1995 Russia, Bielorussia e Kazakistan firmarono un accordo per la creazione di un’Unione Doganale. Fu in apparenza di un passo in avanti lungo il cammino voluto da Nazarbaev, ma l’Unione fallì dopo appena qualche mese a causa delle pressioni di alcune lobbies russe, che chiedevano una revisione delle tariffe doganali comuni[10]. Più proficua fu invece la cooperazione militare: già nel 1992 sei Paesi della CSI avevano firmato il Trattato di Taškent per la Sicurezza Collettiva, trasformatosi nel 1999 nell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, meglio noto con l’acronimo inglese CSTO[11]. L’elezione di Putin, ben più interessato del predecessore alla proposta di Nazarbaev, si è rivelata un deciso cambiamento di rotta. Già nel 2000 nacque l’EurAsEC (Comunità Economica Eurasiatica), composta da Russia, Kazakistan, Bielorussia, Kirghizistan e Tagikistan, il cui scopo era l’integrazione economica tra gli Stati membri. Integrazione che, negli ultimi anni, ha subito una decisa accelerazione: se al 2009 risalgono la creazione di un fondo anticrisi all’interno dell’EurAsEC e la firma  dell’accordo per la nascita di un’Unione Doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakistan, entrata in vigore il 1°luglio 2010[12], nel 2012 è entrato in vigore lo Spazio Economico Unico, che consiste principalmente in un mercato unico di beni, servizi, capitale e lavoro tra gli Stati dell’Unione Doganale[13]. Ed ora già si parla di allargamento dell’Unione Doganale (la prossima adesione, prevista per il 2015, sarà quella del Kirghizistan[14]) e persino di una moneta unica, che verosimilmente si chiamerà altyn[15]. Il nome di un’antica moneta russa, ma anche il termine che designa l’oro in alcune lingue turche, tra cui il kazaco; un nome, quindi, in pieno spirito eurasiatico.

L’integrazione eurasiatica è senza dubbio il successo più notevole dell’eurasiatismo kazaco. Aleksandr Dugin, uno dei massimi esponenti del neoeurasiatismo russo, ha scritto un libro su La missione eurasiatica di Nursultan Nazarbaev (trad. it. Edizioni all’insegna del Veltro 2012). Tuttavia non vanno dimenticati i temi della stabilità interetnica e della costruzione dell’identità nazionale in un Paese dove la quota percentuale dell’etnia titolare, pur in progressivo aumento, ancor oggi supera di poco il 60%. Un traguardo, quello della stabilità interetnica e della costruzione di un’identità “kazakistana”, ossia comprensiva di tutti i gruppi etnici del Paese (e, quindi, non solo i Kazaki etnici) che si punta a raggiungere attraverso l’applicazione alla realtà kazaca della dottrina dei “diritti dei popoli” del politologo russo Aleksandr Panarin, importante esponente del neo-eurasiatismo russo. Si tratta di un concetto ben distinto da quello di “diritti individuali” tipico delle società occidentali, nelle quali sono questi ultimi vengono riconosciuti e tutelati, mentre, al contrario, il diritto di vivere secondo i dettami della propria cultura viene spesso relegato ad un ambito strettamente privato[16]. Panarin al contrario teorizza la tolleranza delle diversità etniche, culturali e religiose, coniugandola con un sistema politico di tipo autoritario che non consente alcuna opposizione[17]. Si tratta di un elemento tipico dei grandi Stati multinazionali dell’Eurasia (qualcosa di simile, però, la troviamo anche nel Libro Bianco di Singapore[18]) e che è di fatto alla base delle politiche del Kazakistan verso le proprie minoranze etniche. Il Natale ortodosso, ad esempio, è una festa nazionale assieme al Giorno dei Sacrifici musulmano. Le minoranze etnico-linguistiche del Paese possono contare su numerose scuole in cui si insegna nelle lingue delle minoranze. Esiste inoltre un’Assemblea dei Popoli del Kazakistan, un organo consultivo che si occupa di discutere i problemi derivanti dalle questioni etniche (e nel quale Kazaki e Russi sono sottorappresentati per consentire la presenza di un maggior numero di gruppi etnici)[19], e ogni tre anni, ad Astana, si tiene il Forum Mondiale delle Religioni Tradizionali.

Va sottolineato, però, che il concetto di “diritti dei popoli”, nella sua applicazione alla realtà kazaca, ed il tema della tolleranza interetnica, interlinguistica ed interreligiosa non sono incompatibili con la presenza di un primus inter pares tra i gruppi etnici. E a svolgere questo ruolo è, chiaramente, il popolo kazaco. Di fatto ciò non implica alcuna corsia preferenziale per l’etnia kazaca, ma fa sì che questa divenga destinataria della gratitudine delle minoranze per essere state “caldamente accolte dai locali malgrado le loro sofferenze”, come ha scritto il russo etnico Oleg Dymov, membro dell’Assemblea dei Popoli del Kazakistan, nella sua opera Il calore della terra kazaca[20]. Né riesce del tutto a nascondere il peso inevitabile della retorica e dell’idealizzazione: il Kazakistan, infatti, non è privo di divergenze riguardanti questioni etnico-linguistiche, e particolarmente sentite sono quelle tra i kazaki (etnici) di lingua russa e quelli di lingua kazaca. Eppure l’idea secondo cui il Kazakistan sarebbe, all’interno dello spazio ex-sovietico, un’oasi di concordia interetnica ed interreligiosa non è troppo distante dalla realtà.



[1] http://www.youtube.com/watch?v=Hu-g6SZkvXc&feature=share (video di presentazione di Astana dal titolo di Astana, gorod budušego, ossia Astana, la città del futuro)

[2] Il nazionalismo civico è un tipo di nazionalismo che mette in primo piano gli interessi dello Stato, a differenza del nazionalismo etnico che invece punta a dare la primazia ad un determinato popolo.

[4] I popoli turanici sono i popoli parlanti una lingua uralo-altaica, ossia gli ugrofinnici (finlandesi, estoni, ungheresi ecc.), i turchi, i mongoli, i manciù-tungusi e secondo alcuni anche i coreani e i giapponesi (fonte: Enciclopedia Treccani, voci Panturanismo e Lingue Uralo-Altaiche)

[5] Marlène Laruelle, Russian Eurasianism: an Ideology of Empire, p.42

[6] Ibidem, p.59

[7] Ibidem, p.10

[8] Marlène Laruelle, Russian Eurasianism: an Ideology of Empire, p.174

[9] Bhavna Dave, Kazakhstan: Ethnicity, Language and Power, p.10

[11] http://foreignpolicyblogs.com/collective-security-organization-timeline/

[14] http://tengrinews.kz/markets/ozvuchen-primernyiy-srok-prinyatiya-kyirgyizstana-v-tamojennyiy-soyuz-225374/

[16] Ad esempio, in un sistema di tipo occidentale non è possibile per un musulmano avere più mogli, oppure per una comunità di indù di organizzarsi secondo il tradizionale sistema di caste.

[17] Marlène Laruelle, Russian Eurasianism: an Ideology of Empire, p.97

[18] Samuel P.Huntington, Lo Scontro di Civiltà, p.476

[19] Marlène Laruelle, Russian Eurasianism: an Ideology of Empire, p.182

[20] Ibidem

 

ИСЛАМИЗМ ПРОТИВ ИСЛАМА

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- Профессор Мутти, мы хотели бы поговорить с Вами о феномене политического Ислама и активности, связанной с ним. Для начала, могли бы Вы дать определение ему и охарактеризовать принципы его действия?

- Термин “политический Ислам” был введен в оборот французским ориенталистом Оливером Рой в книге “Провал политического ислама” (L’Echec de l’Islam politique. Le Seuil, Paris 1992). Оливер Рой дает имя “политический Ислам” тому же, что другой французский ориенталист Жиль Кепель называет “Исламизмом” (Le Prophète et Pharaon. Aux sources des mouvements islamistes, Le Seuil, Paris 1984; Jihad : expansion et dйclin de l’islamisme, Gallimard, Paris 2000) и “радикальным Исламом” (The roots of radical Islam, Saqi, London 2005). “Политический Ислам”, “Исламизм”, “радикальный Ислам” это просто “исламский фундаментализм” и “исламский интегрализм” – термины, связанные с модернистскими тенденциями, начатые “исламскими реформаторами” и осужденные в качетсве отклонения представителями традиционного Ислама. Тем не менее, западный политический язык часто широко и неправильно использует эти термины, принимая Исламизм за Ислам и делая выводы, соответствующие схеме “столкновения цивилизаций”.

 
- Как это проявляется в ЕС и на Ближнем Востоке? В чем разница внутри этого движения?

Так называемый «политический ислам» является результатом ваххабитской и салафистской теорий. Ваххабизм берет свое название от Мухаммада ибн Абд аль-Ваххаба, который жил на Аравийском полуострове в 18 столетии и по словам Анри Корбена являлся «отцом салафитского движения на протяжении веков”. Идеологическим наследником салафизма был Джамал ад-Дин аль-Афгани, который в 1883 году основал общество Салафийя и в 1878 году вступил в свободную масонскую ложу в Каире. Его ученик и преемник Мухаммад Абдо, а также “свободный каменщик”, стал египетским муфтием в 1899 году с одобрения британских властей. Основным наследником этих школ мысли является движение Братья-мусульмане, основанные в Египте Хасаном аль-Банна в 1928 году. В настоящее время Братья-мусульмане являются полиморфным движением, представляющим прагматичный, реалистичный и политический вариант целой плеяды, связанной с ваххабитско-салафистской идеологией. Таким образом, прилагательное «салафистский” обычно присваивается максималистским движениям и экстремистским группам, менее склонным к тактическим компромиссам или занимающихся военизированной и террористической деятельностью.

 
- Как может быть связан Исламизм как радикальное движение, практикующее насилием с исламом, государством и современными политическими акторами?

- Нужно помнить, что английский агент Джон Филби был главным советником короля Ибн Сауда, узурпатора опеки над Святыми Местами, который сделал из ваххабитской ереси официальную идеологию Саудовской Аравии. Ваххабитское королевство, исторический союзник англо-американских империалистов, щедро финансирует и поддерживает исламистские группировки. Теперь эти группы нашли другого ваххабитского кассира – катарского эмира. Аль-Тани дал пристанище Аль-Джазире и основал региональную штаб-квартиру США в надежде взять на себя роль лидера в арабском мире, став при этом основным конкурентом Саудовской Аравии в проамериканской коалиции. Таким образом, кто платит музыкантам, выбирает и музыку, которая, в конце концов является американской музыкой.

 
- Возможно ли, что может быть организован альянс между крайними исламистскими группами и государствами? Я имею в виду не только пример Саудовской Аравии, но и участие Госдепартамента США в тайных операциях и модерирование Ислама.

- Сэмюэль Хантингтон пишет, что истинная проблема для Соединенных Штатов это не исламский фундаментализм, а Ислам сам по себе. Тогда, если ислам является стратегическим врагом США, исламский фундаментализм может быть тактическим союзником. Эта теория была применена в Афганистане, на Балканах, в Чечне, Ливии и Сирии. Что касается государственного департамента США, то вы можете прочитать в резюме Абд аль Вахид Паллавичини (A Sufi Master’s Message. Milan 2011, p. 11), что Госдепартамент организовывает курсы для мусульманских лидеров в Институт миграционной политики в Вашингтоне. Цель этих курсов заключается в создании мусульманских лидеров, сделанных в США.

 
- Социальные волнения и мусульманские движения на Ближнем Востоке и в Северной Африке – как Вы их проанализируете? Самир Амин считает, что это старая “длинная рука” капитализма, который сейчас работает в новых условиях базарных сетей для борьбы с левыми идеями справедливости и т.д.

- В мусульманском мире идеи справедливости не являются левыми, они коранические. Поскольку ислам несовместим с капитализмом, либералам нужен “реформированный” ислам, который кто-то назвал “арабской версией кальвинистской этики”. Исполнителями данного проекта являются ваххабитские движения и все те, кто хочет “демократических реформ” в мусульманском мире. Спонсоры этой манипуляции ислама – нефтемонархии и нефтеэмираты Персидского залива, они создают банк развития Ближнего Востока, который будет кредитовать арабские страны для поддержки их перехода к демократии и укрепления их долговой зависимости. Между тем, в Египте братья-мусульмане попросили у Международного валютного фонда кредит в размере 3,2 миллиарда долларов.

 
- Кстати, о традиционном исламе – от суфийских орденов и шиитов, связанных с Ираном, Ираком, Ливаном и т.д. Это противоядие от нового постмодернистского Ислама или же очередная целевая группа для новосозданных сект и Запада?

- На арабском полуострове и в Турции ваххабиты и кемалисты запретили суфийские ордена, в иллюзии, что они могут таким образом искоренить Суфизм. В Ливии, Тунисе и Мали салафиты и другие исламисты уничтожили традиционные места поклонения и исламских библиотек, так же, как это произошло в Мекке и в Медине под ваххабитской оккупацией. Шиитские общины подвергаются преследованиям ваххабитского режима, например, в Бахрейне. Гетеродоксальные группы и правительства атакуют традиционный ислам во всех его формах – как суннитов, так и шиитов, рассматривая их как серьезные препятствия для своей подрывной деятельности.

 
- А как насчет Израиля? Национальная разведка США прогнозирует, что Израиль в ближайшие 30 лет перестанет существовать. Существует ли для него реальная угроза из-за роста Ислама или США будут перестраивать отношения с этим государством в качестве критической точки в важном регионе?

- Новая и амбициозная американская стратегия, которую Обама представил в своем выступлении в Каире, направлена на установление гегемонии США в арабском мире и на Ближнем Востоке с арабского согласия. Ради этого необходимо смешать региональные держав в большой фронт против Ирана, который считается главным врагом в этой зоне, поэтому арабские государства должны сотрудничать с сионистским режимом. Следовательно, они должны заявить о своей поддержке сионистского режима, который в обмен на это должен позволить создать незначительное палестинское образование.

 
- Но кроме всего этого мы видим хороший пример сосуществования государства и религии, таких как Индонезия с идеей движения умеренных. Как Вы думаете, это (идеи фундаментализма с насилием как внешней силы) зависит от региона, этноса, толкования Корана и фетв или социального процветания?

- Согласно исламской доктрине политика является частью религии; государство основано на религии и имеет религиозное назначение, так что, как Имам Хомейни сказал: “управлять средствами для осуществления коранических законов”. Что касается мусульманских общин, проживающих в немусульманских государствах, обязанность мусульманских ученых состоит в том, чтобы найти те решения, которые соответствуют исламским законам, что может способствовать сосуществованию с немусульманами. В Европе, где присутствие большого количества мусульман является недавним осуществившимся фактом, эта работа находится только в самом начале.

 
- В заключение, каков Ваш прогноз на ближайшее будущее – как будет функционировать движение политического Ислама с его сторон аспектами, особенно в ЕС?

- Антиисламский феномен под названием исламизм зависит в значительной степени от ваххабитского режима в союзе с Соединенными Штатами. Поэтому можно ожидать, что «политический ислам» будет использоваться в соответствии с требованиями стратегии США, например, в Алжире, который, очень вероятно, является следующей целью французского субимпериализма, зависимого от США. Что касается Европейского Союза, опыт учит нас, что спецслужбы США и Израиля являются экспертами в области манипуляции экстремистскими группами, поэтому не исключено, что салафистские группы могут быть приведены в действие для того, чтобы шантажировать европейские правительства.

 
Интервьюировал Леонид Савин

L’ISLAMISMO CONTRO L’ISLAM?

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Leonid Savin, direttore di “Geopolitika” (Mosca), ha intervistato Claudio Mutti sul tema trattato nell’ultimo numero di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Diamo qui di seguito la versione in lingua italiana dell’intervista, che è stata pubblicata oggi (12 febbraio 2013) nel sito di “Geopolitika”  (http://www.geopolitica.ru/article/islamizm-protiv-islama#.URp7qfLWncx)

 

 

 

- Signor Claudio Mutti, vorremmo parlare con Lei del fenomeno dell’”islam politico” e delle sue attività. Potrebbe darcene una chiara definizione? 

- Il termine “islam politico” è stato coniato dall’orientalista francese Oliver Roy nel libro L’Échec de l’Islam politique (Le Seuil, Paris 1992). Oliver Roy dà il nome di “islam politico” quello che un altro orientalista francese, Gilles Kepel, chiama “islamismo” (Le Prophète et Pharaon. Aux sources des mouvements islamistes, Le Seuil, Paris 1984, edizione riveduta 1993; Jihad : expansion et déclin de l’islamisme, Gallimard, Paris 2000, edizione riveduta 2003) e “islam radicale” (The roots of radical Islam, Saqi, London 2005). “Islam politico”, “islamismo”, “Islam radicale”, più o meno come “fondamentalismo islamico” e “integralismo islamico” sono definizioni corrispondenti a tendenze moderniste generate dal “riformismo islamico” e condannate come devianti dagli esponenti dell’Islam tradizionale. Tuttavia il linguaggio politico occidentale fa spesso un uso ampio, elastico e scorretto di questi termini, confondendo l’islamismo con l’Islam e traendo conclusioni conformi allo schema dello “scontro di civiltà”.

 

 

- Com’è che l’”islam politico” si è manifestato in Europa e nel Vicino Oriente? Quali sono le differenze all’interno del movimento? 

- Il cosiddetto “islam politico” è il prodotto delle teorie wahhabite e salafite. Il wahhabismo, come è noto, trae la propria denominazione da Muhammad ibn Abd al-Wahhab, che visse nella Penisola Araba nel XVIII secolo e, secondo Henry Corbin, può essere considerato “il padre del movimento salafita attraverso i secoli”. Il capostipite ideologico del salafismo fu comunque Jamal ad-din al-Afghani, che nel 1878 fu ammesso in una loggia massonica di rito scozzese del Cairo e nel 1883 fondò la Salafiyyah; il suo discepolo e successore, Muhammad Abduh, anch’egli massone, nel 1899 diventò Muftì dell’Egitto grazie al beneplacito delle autorità britanniche. Il principale erede di queste scuole di pensiero è il movimento dei FRatelli Musulmani, fondato da Hasan al-Banna nel 1928. Oggi i Fratelli Musulmani sono un movimento polimorfo che rappresenta la variante pragmatica, realistica e politica della galassia nata dall’ideologia wahhabita-salafita. Perciò l’appellativo di “salafita” viene per lo più riservato ai gruppi e movimenti massimalisti, meno disposti a compromessi tattici e magari più inclini a praticare attività paramilitari e terroristiche.

 

 

- In che modo l’islamismo, inteso come tendenza radicale violenta, è riuscito ad inserirsi nel mondo dell’Islam e fra gli attori politici attuali?  

- Occorre ricordare che l’agente britannico John Philby fu il principale consigliere di Ibn Saud, l’usurpatore della custodia dei Luoghi Santi, il quale fece dell’eresia wahhabita l’ideologia ufficiale dell’Arabia Saudita. Il regno wahhabita, storicamente alleato degli imperialisti angloamericani, ha generosamente finanziato e sostenuto i gruppi islamisti. Oggi per questi gruppi hanno trovato un altro cassiere wahhabita, l’Emiro catariota; ospitando Aljazeera e la sede regionale del Quartier Generale statunitense, Al-Tani cerca di assumere un ruolo di guida nel mondo arabo ed è diventato il principale concorrente dell’Arabia Saudita nella coalizione araba filoamericana. Anche in questo caso, chi paga i musicanti decide la musica, che è, in fin dei conti, una musica americana.

 

 

- E’ possibile che si instauri un’alleanza organica tra gruppi islamisti estremisti e Stati Uniti?  Non penso soltanto al caso dell’Arabia Saudita, ma anche al coinvolgiment del Dipartimento di Stato USA in “operazioni coperte”  e di manipolazione dell’Islam. 

- Samuel Huntington scrive che il vero problema per gli Stati Uniti non è rappresentato dal fondamentalismo islamico, ma dall’Islam. Perciò, se l’Islam è il nemico strategico degli Stati Uniti, il fondamentalismo islamico può diventare un alleato tattico. Questa teoria è stata d’altronde applicata in Afghanistan, nei Balcani, in Cecenia, in Libia, in Siria. Per quanto riguarda il Dipartimento di Stato americano, dal curriculum vitae di Abd al-Wahid Pallavicini (A Sufi Master’s Message, Milan 2011, p. 11) è possibile apprendere che esso organizza corsi per guide musulmane presso il Migration Policy Institute di Washington. Lo scopo di tali corsi è ovviamente quello di formare guide musulmane made in USA.

 

 

- Qual è la Sua analisi degli squilibri sociali e dei movimenti musulmani nel Vicino Oriente e nel Nordafrica? Secondo Samir Amin vi sarebbe la longa manus del capitalismo, che vuole combattere le idee di giustizia della sinistra.

- Nel mondo musulmano le idee di giustizia non sono di sinistra, ma sono coraniche. Siccome l’Islam è incompatibile col capitalismo, i liberal-liberisti hanno bisogno di un Islam “riformato”, quello che alcuni definiscono come “versione araba dell’etica calvinista”. Gli esecutori di questo progetto sono i movimenti wahhabiti e tutti coloro che vogliono le “riforme democratiche” nel mondo musulmano. I patrocinatori di questa manipolazione dell’Islam sono le petromarchie e i petroemirati del Golfo Arabo. Queste forze stanno creando una Banca di Sviluppo del Medio Oriente, che dovrebbe concedere prestiti ai Paesi arabi, aiutando la loro transizione alla democrazia e rafforzando le catene del debito. Intanto in Egitto i Fratelli Musulmani hanno chiesto al Fondo Monetario Internazionale un prestito di 3,2 miliardi didollari.

 

 

- L’islam tradizionale – dagli ordini sufici alle comunità sciite in Iran, Iraq, Libano ecc. – può essere un antidoto all’islam postmoderno o può essere solo un bersaglio per l’Occidente e per le sette di recente fondazione?

- Nella Penisola Araba e in Turchia, illudendosi di potere sradicare il sufismo, wahhabiti e kemalisti hanno messo al bando gli ordini iniziatici. In Libia, in Tunisia, in Mali, i salafiti ed altri islamisti hanno distrutto luoghi tradizionali di culto e biblioteche islamiche, più o meno come è avvenuto a Mecca e a Medina sotto il terrore wahhabita. Le comunità sciite sono perseguitate dai regimi wahhabiti, come nel Bahreyn. Gruppi e governi eterodossi attaccano l’Islam tradizionale in tutte le sue forme – sia sunnite sia sciite – considerandolo il maggior ostacolo alla loro azione sovversiva.

 

 

- E per quanto concerne Israele? I servizi d’informazione statunitensi prevedono che lo Stato ebraico sparirà nel giro di una trentina d’anni. Questo per via di una minaccia reale da parte dell’Islam o perché gli USA rivedranno il loro rapporto con questo Stato, che è il punto critico in una regione così importante per loro? 

- La nuova ed ambiziosa strategia americana, che Obama ha inaugurata col suo discorso del Cairo, mira a stabilire l’egemonia atlantica sul mondo arabo e nel Vicino Oriente, col consenso arabo. Per raggiungere questo obiettivo, è necessario coinvolgere le potenze regionali in un ampio fronte contro l’Iran, considerato il nemico principale nella zona; la realizzazione di tale fronte comporta la collaborazione degli Stati arabi col regime sionista. I primi devono perciò garantire la loro complicità col regime sionista, il quale, in cambio, deve accettare la nascita di una insignificante entità palestinese.

 

 

- Vediamo che ci sonoesempi di coesistenza tra Stato e religione, come in Indonesia, con l’idea del movimento dei moderati… Lei pensa che il fondamentalismo violento dipenda da ragioni di carattere etnico e geografico, da particolari interpretazioni del Corano, dal grado di prosperità economica?

- Secondo la dottrina islamica, la politica è parte della religione; lo Stato si fonda sull’Islam ed ha uno scopo religioso, sicché, come diceva l’Imam Khomeyni, “governare significa mandare in vigore le norme coraniche”. Quanto alle comunità musulmane che vivono in Stati non islamici, è compito delle guide musulmane trovare quelle soluzioni che, nel rispetto delle leggi islamiche, agevolino la convivenza dei musulmani coi non musulmani. In Europa, dove la presenza di un numero elevato di musulmani è un fatto recente, questo lavoro è soltanto ai suoi inizi.

 

 

- Che cosasi può prevedere per il futuro prossimo? In quale direzione si muoverà, specialmente in Europa, l’ “islam politico”? 

- Il fenomeno antislamico chiamato islamismo dipende in larga misura dai regimi wahhabiti alleati con gli Stati Uniti d’America. Perciò possiamo attenderci che l’ “islam politico” venga utilizzato secondo le esigenze della strategia statunitense; per esempio in Algeria, che molto probabilmente sarà il prossimo obiettivo del subimperialismo francese d’obbedienza americana. Quanto all’Unione Europea, l’esperienza ci insegna che i servizi segreti statunitensi e sionisti sono esperti nella manipolazione dei gruppuscoli estremisti, sicché non è improbabile che gruppi salafiti vengano attivati a scopo di ricatto e di minaccia nei confronti di qualche governo europeo.

 

 


LA NUOVA VIA DELLA SETA

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Tra le uscite più interessanti della O barra O Edizioni, va senz’altro segnalato il contributo pubblicato da Claudio Landi nel 2011 dal titolo La nuova Via della Seta. Il giornalista, noto al pubblico per la sua attività di corrispondente dal Senato di Radio Radicale, si occupa da molti anni delle cosiddette economie emergenti, soprattutto di Cina ed India.

La carrellata di eventi ed episodi che l’autore fornisce con accorto piglio cronachistico, scandisce le tappe di un viaggio lungo le principali località geografiche di quella gigantesca rete di rotte terrestri celebrata col nome di “Via della Seta”. Attraverso opportune comparazioni storiche tra passato e presente, il libro riesce, sinteticamente e con un linguaggio universalmente accessibile, a fornire al lettore alcune linee interpretative fondamentali per comprendere lo straordinario fenomeno di spostamento dell’asse geopolitico e geoeconomico mondiale verso l’Asia, ed in particolar modo verso la Cina. L’analisi è attenta e densa di particolari interessanti che permettono di comprendere come il governo della potenza asiatica abbia da tempo dato il via alla costruzione delle fondamenta di un nuovo ordine internazionale caratterizzato da una nuova multipolarità del potere economico e politico globale e da una evidente trasformazione degli assetti strategici. La capacità della Repubblica Popolare Cinese di orientare la sua politica estera lungo diverse direttrici parallele (con il mondo islamico attraverso il ruolo-ponte culturale e commerciale degli Hui, con la Russia attraverso le rotte del gas sino-siberiane e con l’Europa attraverso l’incremento dell’interscambio commerciale sino-tedesco), viene dunque considerata determinante nel quadro di una strategia globale che sta chiaramente cercando di riportare il fattore terrestre, dominante in epoca precoloniale, al centro delle dinamiche economiche e militari del pianeta, al duplice scopo di scongiurare sia i rischi legati alla proiezione navale – terreno sul quale gli Stati Uniti detengono un primato per ora irraggiungibile – sia i pericoli derivanti dall’instabilità di uno snodo marittimo come lo Stretto di Malacca.

Merito indubitabile dell’autore è anche quello di aver dedicato ampio spazio alle vicende politiche della complessa regione centrasiatica, dove Paesi spesso ignorati come il Kazakistan, l’Uzbekistan e il Turkmenistan giocano un ruolo saliente in relazione alla ridefinizione in atto nell’alveo dei rapporti di forza tra le principali potenze, all’interno della cosiddetta massa eurasiatica. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, dunque, centri importanti come Almaty, Ashgabat, Samarcanda, Tashkent, Kashgar e Yiwu tornano a rivestire ruoli determinanti nei meccanismi delle pipeline del gas e del petrolio, dell’industria pesante in generale, del commercio manifatturiero e artigianale ma anche dei più innovativi settori legati alla finanza e all’alta tecnologia.

Sebbene in alcuni tratti risenta di un’eccessiva semplificazione sul piano di un’analisi economica che bolla frettolosamente i BRICS come attori emergenti di rinnovati orientamenti capitalistici, evitando così una più approfondita disamina sulla natura politico-ideologica della Cina e sul suo sistema sociale, il libro è nel complesso un utilissimo strumento per comprendere i grandiosi processi in atto, stimolando il lettore a porsi domande di portata epocale proprio in una fase storica in cui, almeno in Europa, il dibattito relativo alla politica estera sembra subire un oscuramento mediatico sempre più opprimente.

 

 

Claudio Landi

LA NUOVA VIA DELLA SETA

O barra O Edizioni, Milano 2011

Pagg. 137

 

 

L’ECCEZIONE UNGHERESE

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In una recente intervista rilasciata alla radio pubblica nazionale, Mihály Varga, nominato dal governo ungherese capo negoziatore con le istituzioni internazionali, ha dichiarato che l’Ungheria e il Fondo Monetario Internazionale (FMI) concordano sulle misure per stabilizzare l’economia ungherese, ma differiscono su quelle da usare per rilanciare la crescita (1).

Questi commenti giungono oggi dopo un periodo turbolento,  durante il quale l’Ungheria è stata esposta alla speculazione della finanza mondiale. Nel primo decennio del 2000 l’Ungheria poteva vantare una solida e costante crescita economica, almeno fino ai primi sentori della crisi economica del 2008.  In quell’anno il Partito Socialista Ungherese era al governo e doveva gestire sia la crisi economica, sia le violente critiche dell’opinione pubblica in seguito a una dichiarazione del primo ministro Ferenc Gyurcsány. Nel 2006, subito dopo aver vinto le elezioni politiche, il primo ministro socialista aveva dichiarato a un’assemblea del suo partito che egli aveva mentito in pubblico “mattina, sera e notte”(2) sulla salute delle finanze pubbliche per assicurarsi la rielezione in quell’anno.

 

 

Le elezioni del 2010 sanciscono la vittoria della coalizione di centro-destra

Di conseguenza, nel 2010, in occasione della successiva tornata elettorale il partito di centro destra, Alleanza dei giovani democratici (Fidesz), non ebbe molte difficoltà a riportare una schiacciante vittoria elettorale contro i socialisti (3). Alleati con il Partito Popolare Cristiano Democratico – KDNP, raggiunsero il controllo di due terzi dei seggi in parlamento, la soglia necessaria per apportare modifiche alla carta costituzionale senza dover scendere a patti con le opposizioni. I socialisti arrivarono secondi in parlamento, davanti al Movimento per un’Ungheria migliore – Jobbik, partito nazionalista di estrema destra che recentemente ha suscitato molte critiche, anche a livello internazionale, per le sue proposte politiche sulle minoranze, in particolare quella rom.

Le elezioni del 2010 riportarono al centro della scena politica l’attuale primo ministro ungherese, Viktor Orbán. Quest’ultimo fu uno dei fondatori del partito Fidesz, che in origine era nato come partito di protesta contro il regime comunista, e si fece conoscere al pubblico in occasione di un suo discorso il 16 giugno 1989 nella Piazza degli Eroi a Budapest, nel quale domandò libere elezioni e il ritiro delle truppe sovietiche dal suolo ungherese. Iniziò da quel momento una scalata ai vertici del partito che lo portarono prima alla presidenza di Fidesz e successivamente a governare il paese tra il 1998 ed il 2002. Oggi è al suo secondo mandato come primo ministro e guida l’Ungheria in vista delle elezioni della prossima primavera, nel 2014. I suoi oppositori si sono resi conto ormai che nessun partito singolarmente ha la forza di contrastare Fidesz, sebbene recenti sondaggi diano il partito in calo nelle preferenze di voto e si stia organizzando la formazione di un fronte d’opposizione chiamato Együtt2014 (Insieme2014).

 

 

Le riforme attuate dal governo Orbán

La salda maggioranza che sostiene Orbán gli ha permesso di attuare una serie di riforme, anche costituzionali, che hanno attirato le critiche delle istituzioni comunitarie e della stampa internazionale, le quali in più di un’occasione hanno definito populista il primo ministro ungherese.

Sul versante economico, il governo di Orbán ha dovuto affrontare la crisi finanziaria attraverso una serie di misure per risollevare la situazione del Paese, afflitto da un tasso di povertà e disoccupazione crescente. Tra le varie misure adottate, vi sono state la nazionalizzazione dei fondi pensionistici, l’introduzione di nuove tasse dirette sui servizi e l’innalzamento dell’imposta sul valore aggiunto, AFA, al 27%.

Nonostante queste misure, a fine 2011 i titoli di stato ungheresi furono classificati dalle società di rating come “titoli spazzatura”, indebolendo il governo sul versante finanziario e facendo innalzare il costo dell’indebitamento a un livello tale, che Orbán prese in considerazione anche la richiesta d’aiuto al FMI. La leggera ripresa dell’economia dell’eurozona ha permesso agli investitori esteri di trovare nuove opportunità di investimento in Ungheria, un paese i cui titoli, visto il rischio di insolvenza ancora elevato, aveva un alto tasso di rendita. A questa particolare situazione finanziaria sono state affiancate altre politiche monetarie di svalutazione della moneta nazionale, il fiorino, permettendo al governo di controllare la crisi; ad oggi, il tasso di crescita previsto per il 2013 è dell’1% del PIL (4).

Viktor Orbán ha potuto gestire la situazione di crisi senza domandare aiuto al FMI, né tanto meno all’Unione Europea, evitando l’ingerenza di queste istituzioni che, in caso di intervento, avrebbero domandato un passo indietro del governo su alcune politiche messe in pratica negli ultimi anni.

Infatti ciò che ha permesso a Viktor Orbán di conquistare popolarità e l’appoggio della popolazione ungherese è stato il suo ergersi a difensore dell’identità ungherese di fronte alle istituzioni europee. Alcune leggi promosse dal suo partito, in effetti, hanno esposto Orbán agli attacchi di Bruxelles. In particolare, nel periodo della presidenza ungherese al Consiglio dell’Unione Europea, il governo di Budapest ha emanato una legge sulla libertà di stampa che, stando alle accuse, concederebbe “il controllo diretto sui media al partito che governa”.

Inoltre, la coalizione guidata da Orbán ha attuato una vasta riforma costituzionale che rifonda la legge fondamentale dello Stato attorno a un’identità nazionale: il popolo magiaro. Trai punti principali di questa riforma vi è il cambio del nome del Paese, da “Repubblica d’Ungheria” a “Ungheria”, e l’affermazione del cristianesimo come valore costitutivo della nazione ungherese, attraverso anche il riferimento alla Corona di Santo Stefano.

Un’altra riforma che recentemente ha sollevato critiche riguarda i rapporti fra la Banca Centrale ungherese, organo indipendente, e il governo centrale. Viktor Orbán ha fatto in modo di avere un maggiore controllo sul consiglio direttivo della banca; ma questa normativa contrasta col principio di assoluta indipendenza della banca centrale – sia europea, sia dei singoli Stati membri – sancito dall’articolo 130 del Trattato sul funzionamento dell’UE (5). La Commissione europea ha criticato l’Ungheria su questo punto, in quanto l’articolo in questione riguarda le banche di ogni Paese membro, anche quelli non facenti parte dell’area euro.

Sul fronte interno, le opposizioni si sono mosse ed hanno mobilitato decine di migliaia di manifestanti che nei primi mesi del 2012, in occasione del varo della legge sulla libertà di stampa, sono scesi in piazza in più di un’occasione. Nonostante ciò, i partiti di opposizione sono ancora deboli e screditati e non riescono a colmare il distacco nei confronti del partito di maggioranza Fidesz.

 

 

Le reazioni delle istituzioni internazionali

In campo internazionale, questi provvedimenti hanno suscitato le critiche del FMI e attirato le interferenze del Segretario di Stato americano Hillary Clinton. Quest’ultima ha inviato al primo ministro ungherese una lettera nella quale “he reportedly expresses concerns about a perceived crackdown on democratic freedom in the country, more than two decades after Hungary threw out the Communist regime” (6).

Ma le inquietudini maggiori provengono dalle istituzioni europee. Come strumento di pressione sul governo ungherese, avvalendosi anche del fatto che l’Ungheria non è riuscita a ridurre il rapporto del deficit/PIL nel periodo fra il 2004 ed il 2010, il Consiglio Europeo ha deciso di tagliare i fondi di coesione previsti per il Paese nel 2011. Da parte ungherese sono state sollevate critiche per questa decisione, asserendo che la Commissione europea utilizza i fondi comunitari come strumento di pressione sui governi; infatti la Spagna, che beneficia anch’essa dei fondi di coesione, aveva annunciato uno sforamento del 5% del deficit nazionale nell’anno passato, ma non è stata sanzionata allo stesso modo.

Le istituzioni economiche occidentali si sono mostrate, invece, più permissive nel periodo fra il 2002 ed il 2012, quando al potere vi era il partito socialista, che conduceva una politica più in linea con le loro aspettative. La sinistra ungherese, inoltre, aveva già dimostrato la volontà di cooperare e aprirsi all’Occidente nel periodo comunista, durante il quale, per compensare le debolezze del sistema produttivo a economia pianificata, si permetteva ai governi occidentali di finanziare il debito nazionale ungherese. Appare dunque più chiaro il collegamento dell’attuale sinistra postcomunista con i poteri finanziari occidentali che hanno preferito l’MSZP piuttosto che la destra al governo, nonostante la fallimentare politica economica del periodo 2002-2010.

 

 

La posizione dell’Ungheria nell’Unione Europea

È proprio l’opposizione contro le istituzioni europee il cavallo di battaglia di Orbán. Nonostante la situazione economica non sembri migliorare più di tanto, una gran parte della popolazione sostiene il capo del governo in questo scontro. Gli ungheresi hanno visto gli effetti dei piani di salvataggio in Grecia e non vogliono un intervento dell’Unione Europea, che, come contropartita, chiederebbe maggiori tagli alla spesa pubblica e riduzione degli stipendi.

La condotta precedentemente descritta da parte della Commissione europea e le critiche di Orbán sulla gestione della crisi in Grecia indeboliscono l’opportunità di ricucire lo strappo con l’Ungheria. Le istituzioni di Bruxelles, per contrastare le critiche del governo ungherese, potrebbero fare leva anche sui risultati positivi ottenuti dai fondi perequativi dal 1998 al 2005 nella regione all’interno di quello che è uno dei maggiori obiettivi dell’Unione, dalla caduta del regime comunista: integrare nel sistema democratico anche le ex repubbliche sovietiche.

Finora non vi è nessun rischio che l’Ungheria scelga la strada dell’uscita dall’Unione Europea. Viktor Orbán ha cercato di stringere rapporti migliori con le repubbliche centroasiatiche, anche in vista dell’ottenimento di maggiori finanziamenti e forniture energetiche a costi più vantaggiosi. Un esempio fra tutti è il caso della Cina, che ha in Ungheria un ottimo interlocutore commerciale: il Paese danubiano, infatti, costituisce la principale piattaforma logistica per la distribuzione dei prodotti cinesi in Europa.

Prevedibilmente, lo sforzo del primo ministro ungherese di intensificare gli scambi con le economie asiatiche non avrà come conseguenza quello di allontanare ulteriormente il Paese dall’Europa. Oggi infatti l’economia ungherese è saldamente integrata con quella europea, e oltre il 75% delle esportazioni avviene con Stati dell’Unione come la Germania, che hanno sviluppato nel Paese una parte rilevante del loro apparato produttivo industriale.

 

 

 

*Andrea Rosso è laureando in Scienze Politiche – Studi Internazionali ed Europei presso l’Università degli Studi di Padova

 

 

(1)http://www.politics.hu/20130131/imf-agrees-on-hungarys-stabilization-methods-differs-on-growth-varga-says/

(2)http://www.foreignpolicy.com/articles/2012/01/17/budapest_winter?page=0,3

(3)http://www.reuters.com/article/2010/04/12/us-hungary-election-idUSTRE63A1GE20100412

(4)http://www.lavoce.hu/529/2012/06/13/crescita-dalla-seconda-meta-del-2012/

(5)http://eurlex.europa.eu/LexUriSérv/LexUriSérv.do?uri=OJ:C:2010:083:0047:0200:it:PDF

(6)http://www.voanews.com/content/us-eu-express-concern-about-hungarys-crackdown-on-democracy-136390198/170983.html

GEOPOLITICA DELLO SPORT

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Una proposta sconcertante assunta dal CIO (Comitato Internazionale Olimpico): escludere dai Giochi Olimpici la disciplina sportiva della lotta a partire dall’edizione del 2020. La proposta verrà presumibilmente approvata a settembre dallo stesso CIO,  nel corso della sessione di Buenos Aires in cui verrà anche scelta la sede dei Giochi.

Come siano concepibili le Olimpiadi senza la loro disciplina sportiva più antica e tradizionale – un simbolo stesso dell’autentico spirito olimpico, e della continuità fra Giochi moderni e antichi – non è dato sapere. Ma “la lotta ha dovuto ‘lottare’ soprattutto con le esigenze dell’affarismo dello spettacolo: non è ritenuta all’altezza della vetrina tv, non è popolare allo stesso modo ovunque; scarso il richiamopubblicitario”(1). Sarà dunque retrocessa – nelle intenzioni del CIO – a possibile sport addizionale, alla pari di altre sette discipline agonistiche che formano questa speciale categoria: fra di esse il baseball – per il quale si pronostica da più parti una rapida promozione – lo squash e il wakeboard (uno sport nautico).

E’ da notare che la federazione internazionale della lotta aveva richiesto al CIO un’estensione delle sue gare olimpiche, divenute mezzo di sopravvivenza di uno sport che è ancora molto praticato ma che non gode certo di finanziamenti internazionali o di coperture mediatiche.

Se da una parte si riafferma – una volta di più – la visione mercantile che già determinò lo scippo delle Olimpiadi del 1996 ad Atene (a favore della città-simbolo della Coca Cola), non sono trascurabili neppure le conseguenze geopolitiche della scelta, destinata a marginalizzare anche dal punto di vista sportivo Paesi come l’Iran, la Turchia, la Mongolia e il Kazakistan, in cui la lotta è sport nazionale al centro dell’attività agonistica e della pratica giovanile.

 

 

1. http://www.lastampa.it/2013/02/12/sport/dal-la-lotta-fuori-dalle-olimpiadi-5IJsioMVvqfbrhY0KPv98N/pagina.html

ISLAMISM VERSUS ISLAM ?

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Claudio Mutti interviewed by Leonid Savin (“Geopolitika”)

 

- Mr. Mutti we would like to discuss with you about phenomena of political islam and activity around it. Can you to make clear definition of it and how it works?

- The term “political Islam” has been coined by the French orientalist Oliver Roy in his book L’Echec de l’Islam politique (Le Seuil, Paris 1992). Oliver Roy names “political Islam” what another French orientalist, Gilles Kepel, calles “Islamism” (Le Prophиte et Pharaon. Aux sources des mouvements islamistes, Le Seuil, Paris 1984, revised edition 1993; Jihad : expansion et déclin de l’islamisme, Gallimard, Paris 2000, revised edition 2003) and “radical Islam” (The roots of radical Islam, Saqi, London 2005). “Political Islam”, “Islamism”, “radical islam”, just as “Islamic fundamentalism” and “Islamic integralism”, are terms corresponding to modernist trends originated by the “Islamic reformers” and condemned as deviances by the representatives of traditional Islam. Nevertheless the western political language often makes a broad and incorrect use of these terms, mistaking Islamism for Islam and drawing conclusions conforming to the pattern of “clash of civilizations”.

 

 

- How it manifested in E.U. and Near East? What is difference inside this movement?

- The so called “political Islam” is the result of Wahhabist and Salafist theories. Wahhabism draws its name from Muhammad ibn Abd al-Wahhab, who lived in the Arabic Peninsula in the XVIII century and, according to Henry Corbin, was “the father of Salafist movement through the centuries”. The ideologic ancestor of Salafism was Jamal ad-din al-Afghani, who in 1883 founded the Salafiyyah society and in 1878 entered a free-masonic lodge in Cairo; his disciple and successor, Muhammad Abduh, also a free-mason, became the Egyptian Mufti in 1899 with the approval of British authorities. The main heir of these schools of thought is the movement of Muslim Brothers, founded in Egypt by Hasan al-Banna in 1928. Nowadays the Muslim Brothers are a polymorphic movement representing the pragmatic, realistic, political variant of the whole galaxy originated by Wahhabist-Salafist ideology. Therefore, the appellation of “Salafist” is usually given to maximalist movements and extremist groups, less disposed to the tactical compromises or practising paramilitary and terrorist activities.

 

 

- Islamism as radical view dealing with violence: how it incorporated with Islam, State and contemporary political actors?

- Remember that the English agent John Philby was the chief counsellor of King Ibn Saud, the usurper of the custody of the Holy Places, who made of the Wahhabist heresy the official ideology of Saudi Arabia. The Wahhabist kingdom, historical ally of Anglo-American imperialists, has generously financed and supported the Islamist groups. Now these groups have found another Wahhabist cashier, the Qatari Emir; housing Aljazeera and the regional seat of US Central Headquarters, Al-Thani is trying to adopt a role of leader in the Arab world and has become the main competitor of Saudi Arabia in the pro-American coalition. This way, who pays for the musicians, decides the music, which is after all an American music.

 

 

- Is it possible that may be organized alliance between extreme islamist groups and States? I mean no only example of Saudi Arabia, but also involvement of U.S. State Dept. in covert operations and moderation of Islam.

- Samuel Huntington writes that the true problem for United States is not the Islamic fundamentalism, but Islam in itself. Then, if Islam is the strategic enemy of US, the Islamic fundamentalism can be a tactical ally. This theory has been applied in Afghanistan, Balkans, Tchetchnia, Libya, Syria. As to the U.S. State Department, you can read in the CV of Abd al Wahid Pallavicini (A Sufi Master’s Message, Milan 2011, p. 11) that it organizes courses for Muslim leaders at the Migration Policy Institute, in Washington. The purpose of these courses is to create Muslim leaders made in USA.

 

 

- Social unrest and muslim movements on Near East and Northern Africa – what is you analysis for it? Samir Amin thinks that it is old “Lunga Manus” of Capitalism that now works in new conditions of bazar-nets to combat leftist ideas of justice and so on.

- In the Muslim world the ideas of justice are not leftist, they are qur’anic. Since Islam is inconsistent with capitalism, the liberalists need a “reformed” Islam, which somebody has called an “Arabic version of calvinistic ethics”. The executors of this project are the Wahhabist movements and all those who want “democratic reforms” in the Muslim world. The sponsors of this manipulation of Islam are the petromonarchies and the petroemirates in the Arabic Gulf; they are creating a Bank of Development of Middle East, which will loan to the Arabic countries to support their transition to democracy and will strengthen the chains of their debt. Meanwhile, in Egypt the Muslim Brothers have asked the International Monetary Found a loan of 3,2 billion dollars.

 

 

- By the way how about traditional Islam – from sufi orders to shia community, connected with Iran, Iraq, Lebanon, etc. Is it antidote for new postmodern Islam or also target group for newfounded sects and the West?

- In Arabic Peninsula and in Turkey, under the illusion that they could uproot Sufism, Wahhabists and Kemalists have banned the sufi orders. In Libya, in Tunisia, in Mali, Salafists and other Islamists have destroyed traditional worship places and Islamic libraries, just as it has happened in Mecca and in Medina under the Wahhabist occupation. Shia communities are persecuted by Wahhabist regimes, as in Bahrein. Heterodox groups and governments attack the traditional Islam in all its forms – Sunni and Shia indifferently – considering it as the strongest obstacle to their subversive action.

 

 

- And what about Israel? National Intelligence of U.S. predicts that Israel will not exist in next 30 years. Is there real threat from rise of Islam or U.S. will rearrange relation with this state as critical point in the important region?

- The new and ambitious American strategy, which Obama has inaugurated with his discourse in Cairo, wants to establish the US hegemony on Arab world and Middle East with the Arab consent. For this sake, it is necessary to mix the regional powers up in a large front against Iran, considered the main enemy in that zone; therefore the Arab states have to collaborate with the Zionist regime. The formers must pledge their support to the Zionist regime, which, in exchange, must accept the birth of an insignificant Palestinian entity.

 

 

- Besides that we also see good example of coexisting state and religion – as Indonesia with idea of the movement of moderates… How you think is it (ideas of fundamentalism with violence as external power) depended of region/ethnos, interpretations of Quran and fetwas or social prosperity?

- According to the islamic doctrine, politics is a part of religion; the State is founded on religion and has a religious purpose, so that, as Imam Khomeiny said, “to govern means to implement the qur’anic laws”. As to the Muslim communities living in non-Islamic States, the duty of Muslim scholars is to find those solutions which, while corresponding to the Islamic laws, can facilitate the coexistence with non-Muslim people. In Europe, where the presence of a high number of Muslim people is a recent fact, this work is only at its beginning.

 

 

- What is your prognosis for near future – how movement of political Islam with it’s all sides will be functioning and especially in E.U.?

- The anti-Islamic phenomenon called Islamism is dependent to a great extent from the Wahhabist regimes allied with United States. Therefore we can expect that “political Islam” will be used according to the requirements of US strategy; for example in Algeria, which very probably is the next target of the US-depending French sub-imperialism. Concerning European Union, the experience teaches us that US and Israeli intelligences are expert in the manipulation of extremist groups; therefore it is not unlikely that Salafist groups could be put in action in order to blackmail European governments.

 

 

ITALIA E SERBIA, RAPPORTI SEMPRE PIÙ SALDI

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In occasione della Festa Nazionale e delle Forze Armate della Serbia, il 12 febbraio l’Ambasciata serba di Roma ha tenuto un lussuoso ricevimento presso l’Hotel Intercontinental de la Ville, occasione mondana che è però stata utile per mettere a punto i legami con l’Italia.

Numerosi gli imprenditori e gli esponenti del Governo italiano presenti, che hanno ribadito la necessità di fissare al più presto una data di inizio dei negoziati per l’ingresso della Serbia nell’Unione Europea.

L’ottimismo dell’Italia si basa sulla disponibilità manifestata dal Governo di Belgrado nei confronti dei rappresentanti albanesi di Pristina, con i quali sono stati condotti colloqui ai massimi livelli nei giorni scorsi.

L’Ambasciatrice della Serbia a Roma, Ana Hrustanovic, ha sottolineato come l’Italia non sia soltanto un amico strategico dal punto di vista diplomatico ma anche economico: “Nel 2009 le imprese italiane in Serbia erano solo 200, oggi ve ne sono 600” (1).

L’interesse dell’Italia ad investire in Serbia è stato confermato dai lavori del Business Council italo-serbo che si è tenuto nei giorni scorsi a Belgrado, durante il quale il nostro paese ha manifestato particolare attenzione alle possibilità offerte dal settore ferroviario, in quanto si punta a fare della Serbia un autentico hub di interconnessioni a livello regionale e internazionale grazie alla posizione geografica favorevole del paese verso i mercati di Russia, Turchia e Kazakhstan.

L’Italia è infatti il secondo maggior partner commerciale estero della Serbia, con un ammontare complessivo di investimenti che è stato finora di 2 miliardi di euro.

Ossigeno per l’economia serba, visto che i dati strutturali del paese sono tutt’altro che incoraggianti.

Dopo l’era Milosevic, le facili illusioni sul modello di sviluppo “occidentale” e sui fantasmagorici investimenti statunitensi sono svanite in fretta; oggi il tenore di vita è pari a poco più di 1/3 rispetto alla media dell’Unione Europea (in Slovenia è il 96%), nel 2012 il PIL è sceso del 2%, la disoccupazione ha colpito un quarto della popolazione, il dinaro fluttua copiosamente al punto che l’inflazione si attesta intorno al 13% e si calcola che l’80% della popolazione viva peggio rispetto a cinque anni fa (2).

In questa situazione già molto dura i serbi devono convivere anche con il problema del Kosovo e Metohija, dove gli incidenti (specie nel Nord della regione) continuano quotidianamente, nell’indifferenza della comunità internazionale e delle forze di sicurezza che dovrebbero garantire l’ordine (NATO).

Al danno si aggiunge la beffa, quando si pensa che il medico turco Yusuf Sonmez, uno dei principali imputati nell’inchiesta sul traffico di organi ai danni dei prigionieri serbi in Kosovo, è riuscito a fuggire in Sudafrica eludendo misteriosamente le richieste di estradizione avanzate da Eulex.

Che il 70% dei serbi diffidi dell’Europa e sogni perciò di fuggire all’estero, in Canada o in Australia, è facilmente comprensibile.

 

 

 

1)    Agenzia Ansa, 13 febbraio 2013.

2)    Ettore Bianchi, “Serbia: peggio che con Milosevic”, Italia Oggi, 14/2/2013, p. 15.

 

Stefano Vernole (redattore di "Eurasia")  con Marilina Veca (Presidentessa Associazione di Amicizia italo-serba)

Stefano Vernole (redattore di “Eurasia”) con Marilina Veca (Presidentessa Associazione di Amicizia italo-serba)

 

COSA CERCA L’ITALIA IN MALI

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Un nuovo Sud Sudan

Gli avvenimenti che interessano oggi il Mali, ex Sudan francese fino al 1960, vedono come protagonisti la popolazione locale, il popolo tuareg, i settari islamisti, l’esercito maliano ed il governo di transizione. Obiettivo comune è il controllo del territorio maliano e delle sue cospicue ricchezze. Sin dall’autunno 2012, però, altri attori non appartenenti alla regione del Sahel, ma attenti agli equilibri all’interno della stessa, hanno preso parte a tale gioco di potere.

La Francia di François Hollande ha dato vita, a partire dal gennaio scorso, ad una missione militare di appoggio alle forze governative del Mali, con l’obiettivo di contrastare l’ascesa dei ribelli islamisti, nell’ambito della ormai porosa cornice del diritto internazionale e delle risoluzioni dell’ONU.

Gli interessi del governo di Parigi riguardano da un lato lo sfruttamento delle risorse energetiche e minerarie del Paese, dall’altra il monitoraggio della sicurezza nella regione e la lotta al terrorismo di matrice salafita. Non a caso, la grande maggioranza degli immigrati presenti in Francia è originaria dell’Africa settentrionale ed occidentale.

Se il Mali divenisse una base logistica del settarismo salafita, il numero degli islamisti diretti nel territorio della ex madrepatria potrebbe subire un aumento considerevole (1).

L’implosione del Mali, inoltre, mette in pericolo gli interessi di Parigi in Niger, uno Stato da cui la Francia, rappresentata dalla multinazionale dell’energia Areva, dipende per le sue forniture di uranio.

 

 

L’Italia e l’ENI in Africa

Se si tiene conto degli stretti legami che intercorrono tra le due sponde del Mare Nostrum si può comprendere l’importanza che uno Stato come il Mali può rivestire per l’Italia, ma anche per gli altri Paesi europei. La trasformazione del Paese in un santuario del terrorismo islamista internazionale può minare gli interessi economici maliani ed internazionali, creando allo stesso tempo un vantaggio strategico per alcuni soggetti piuttosto che per altri.

Il Mali è ricco di risorse, come l’oro, il petrolio, il gas, l’uranio, il coltan e il ferro; ma ciò che lo rende importante per attori quali gli Stati Uniti, la Cina ed i Paesi europei è la sua posizione geografica, dati gl’interessi geoeconomici dei suddetti Paesi nei territori limitrofi. Infatti il Mali confina a nord con l’Algeria, a est con il Niger, a sud con il Burkina Faso, la Costa d’Avorio e la Guinea e a ovest con il Senegal e la Mauritania. Il Mali si trova nella regione del Sahel, la quale si estende dall’Oceano Atlantico fino al Corno d’Africa; una fascia che sotto il deserto del Sahara salda le due facce dell’Africa, quella bianca e quella nera, ed è luogo d’incontro delle risorse energetiche degli Stati del Nord con quelle minerarie dei Paesi del Sud (2).

Gli scontri in Mali riguardano l’Italia non tanto in ragione degli interessi economici nazionali in loco, piuttosto per i rapporti italiani con la Libia e l’Algeria, il nostro primo fornitore di gas naturale.

Per l’ENI, ad esempio, l’Africa rappresenta uno dei perni centrali della strategia aziendale, poiché la compagnia è presente in diversi Stati africani, quali l’Algeria, la Libia, la Nigeria, la Tunisia. Per quel che riguarda il Mali, l’azienda, affiancata dalla Sipex, società controllata dall’algerina Sonatrach, ha rinunciato alle concessioni petrolifere nel bacino Taoudenni, nel nord del Paese, in ragione delle limitate potenzialità dell’area (3).

In relazione agli interessi italiani negli Stati della regione, il 4 febbraio l’ENI e la compagnia di Stato algerina Sonatrach hanno annunciato l’inizio della produzione di gas dal campo algerino Menzel Ledjmet Est, MLE, situato a circa 1000 chilometri a sud di Algeri. L’azienda italiana è presente nel Paese sin dal 1981: partecipa in 24 permessi di ricerca e sviluppo già in produzione e in 8 permessi in fase di sviluppo. Nel 2012, ENI è stato il primo produttore di gas in Algeria e con l’avvio della produzione nel campo di MLE e di altri progetti intende consolidare ulteriormente la sua presenza nel Paese (4).

Considerando le vicende che hanno interessato l’Africa ed il Vicino Oriente negli ultimi due anni, è possibile immaginare che nel 2011 l’obiettivo italiano fosse quello di non perdere il gas ed il petrolio libico a vantaggio della Francia, mentre nel 2012 abbiamo dovuto rinunciare al greggio iraniano e siriano a causa delle sanzioni adottate in ambito europeo. Oggi, invece, è la presenza francese in Mali a costituire una sfida per i nostri interessi strategici ed economici nei Paesi che confinano con Bamako.

Dal gas e dal petrolio proveniente dall’Algeria dipende gran parte del nostro fabbisogno energetico, per cui l’attacco terroristico del gennaio scorso nel sito di estrazione del gas di In Amenas ha fatto crollare del 17% il gas algerino in arrivo a Mazara del Vallo, nonostante l’impianto fosse ininfluente per le forniture italiane.

Nel caso di un concreto coinvolgimento italiano nella guerra maliana, l’obiettivo più facile da colpire sarebbe il gasdotto gestito dall’ENI e dalla Sonatrach, Transmed. Si tratta di un’immensa tubatura che parte dal campo di Hassi R’Mel, uno dei più importanti giacimenti di gas al mondo situato a 550 chilometri a sud di Algeri. La condotta si dirige ad est verso il deserto tunisino per poi tuffarsi nel Mediterraneo e giungere in Sicilia (5).

Le altre attività di esplorazione e produzione dell’ENI in Algeria si concentrano nell’area di Bir Rebaa, nel deserto sahariano sud-orientale, e nel sito di Kerzaz, nel Bacino del Timimoun nell’Algeria sud occidentale.

 

 

Corsi e ricorsi storici

Attraverso il Sahel e l’Africa del nord non transitano solo il gas ed il petrolio, ma anche la droga proveniente dall’America Latina, diretta poi in Europa. Il traffico delle sostanze stupefacenti costituisce oggi una cospicua fonte di finanziamento per i gruppi terroristici della regione. La minaccia determinata dalla possibile destabilizzazione dell’area presenta, quindi, diverse sfaccettature e vede in campo attori disparati.

Per quel che concerne l’Italia, la nomina di Romano Prodi come inviato speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per il Sahel denota la centralità del ruolo che il Paese è chiamato a ricoprire. La frontiera maliana può essere considerata la nuova frontiera italiana, se si considera che sulla sponda Sud abbiamo un interscambio di 57 miliardi di euro l’anno e l’Italia è sempre tra i primi tre interlocutori economici dei Paesi che si affacciano sul Maghreb.

Qual è la posizione dei rappresentanti delle istituzioni italiane? L’intervento dell’Italia deve essere inserito all’interno della missione internazionale “multidisciplinare” predisposta dalla risoluzione 2085 del Consiglio di sicurezza dell’ONU e della missione europea EUTM (European Union Training Mission), la quale porterà in Mali fino a 450 uomini, di cui 200 addestratori (6).

La questione maliana ha un’importanza vitale per il nostro Paese, nonostante l’intervento si riveli come l’ennesima missione neocolonialista dell’Occidente. Gli interessi strategici italiani guardano oggi anche verso Bamako, in un Mali che ha subito la disgregazione della Libia e che rischia di trasformarsi, insieme alla Siria, in una nuova Libia.

Potremmo dunque affermare che la scelta geostrategica della “comunità internazionale” cade oggi sul Mali? Quale momento migliore se non l’inizio di una nuova guerra per applicare ancora una volta nel continente africano quello che è l’ormai noto principio del divide et impera? Disgregare uno Stato in tante sfere di influenza, economiche e sociali, quanti sono gli attori coinvolti nel gioco di potere.

In un tale scenario, quale ruolo può avere oggi l’Italia? In un primo momento Roma ha promesso alla Francia il proprio appoggio logistico nell’intervento in Mali attraverso l’invio di due aerei per il trasporto di truppe e attrezzature, un’autocisterna per i rifornimenti in volo ed alcuni addestratori, nella cornice della missione europea per l’addestramento delle truppe del Mali.

In realtà, a causa delle eminenti elezioni politiche, l’Italia rimane oggi fuori dal gioco maliano e solamente nei prossimi mesi sarà possibile analizzare gli effetti del mancato intervento, in quella che la Francia presenta come una “guerra lampo”. Historia se repetit, scriveva Giambattista Vico. La storia è sempre uguale e sempre nuova, e a partire dal primo conflitto mondialeci insegna che la guerra è un’incognita. Nel mondo contemporaneo, troppi sono i fattori e gli attori che entrano in gioco e che fanno sì che una regione semidesertica si trasformi nell’oggetto del desiderio di buona parte della “comunità internazionale”, almeno di quella che conta.

 

 

 
* Marzia Nobile, Laurea Magistrale in “Relazioni internazionali” presso l’Università “La Sapienza” di Roma

 
 


(1)  Di Liddo M., La crisi maliana ed i rischi di destabilizzazione del Sahel, in Osservatorio di politica internazionale, Ce.S.I., 2012, n.65.

(2)  Negri A., La guerra in Mali riguarda anche l’Italia (e i rapporti di Roma con la Libia e l’Algeria), 2013, www.ilsole24ore.com.

(3)  Eni pulls out of Mali on poor prospecting outlook, 15.01.2013, www.reuters.com.

(4)  Eni annuncia l’inizio della produzione di gas dal campo di MLE in Algeria, 4.02.2013, www.eni.com.

(5)  Micalessin G., La guerra nel Mali può chiuderci il gas, 20.01.2013, www.ilgiornale.it; Algeria. Exploration & Production, www.eni.com.

(6)  La crisi nel Mali, Camera dei Deputati, Dossier di documentazione n.399, 22.01.2013, www.documenti.camera.it.

 

 

LA CORSA ALL’ORO DEL NUOVO MILLENNIO

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La terra, da risorsa e fonte di sostentamento, si è trasformata oggigiorno in un investimento sicuro che attrae gli attori più disparati. L’accaparramento dei terreni coltivabili  è al centro di quello che può essere definito l’incontro, o lo scontro, tra la logica globale e la logica locale, dove le multinazionali, gli Stati e le organizzazioni internazionali si trovano ad affrontare le necessità e i diritti delle popolazioni autoctone.

Gli effetti di questo fenomeno vedono oggi protagonisti i Paesi in via di sviluppo, il loro popolo e la loro terra.

 

 

 

Il fenomeno dell’accaparramento dei terreni coltivabili

Nel corso degli ultimi anni ha avuto inizio la corsa all’acquisizione di terra su larga scala nel Sud del mondo. Si tratta dell’accaparramento di terreni fertili nei Paesi in via di sviluppo che vede protagonisti Stati, uomini d’affari, multinazionali e fondi di investimento il cui obiettivo è quello di ottenere ingenti profitti dalla coltivazione di prodotti alimentari, mangimi e biocombustibili e dalla loro successiva esportazione all’estero (1).

Prima del biennio 2007-2008, l’agricoltura viene considerata come un’attività giunta al tramonto, ma in seguito si innesca un processo che può essere paragonato alla corsa alla terra degli indiani d’America da parte dei colonizzatori europei (2).

Quando ha inizio la crisi del mercato azionario, determinata dal crollo dei mutui subprime negli Stati Uniti, gli operatori finanziari decidono di investire nelle materie prime, in particolare quelle alimentari. Sfruttando la deregolamentazione dei mercati dei prodotti di base, gli investitori hanno potuto speculare sul prezzo dei generi alimentari facendo ricorso ai contratti futures, relativi al valore “futuro” dei prodotti summenzionati (3). In base a questo meccanismo, il venditore e l’acquirente concludono un accordo per la consegna di un particolare bene a una scadenza procrastinata nel tempo, scommettendo così sul valore del prodotto al momento della consegna.

Storicamente, il meccanismo dei futures nasce insieme alla Borsa merci di Chicago nel XIX Secolo per dare stabilità al mercato dei prodotti alimentari, ma finisce ben presto per destabilizzarlo.

Per gli investitori, in seguito, il salto dai prodotti di base alla terra che le produce è breve.

I territori dei Paesi del Sud del mondo divengono un nuovo asset da inserire nel proprio portfolio di investimenti ed il fenomeno del land grabbing si espande a livello globale.

L’acquisizione di terra coltivabile su larga scala può essere definita accaparramento di terreni quando manca il consenso libero, preventivo ed informato della popolazione locale e quando non vengono effettuate valutazioni relative agli effetti sociali, economici ed ambientali degli investimenti. Altri indicatori possono essere l’assenza di contratti trasparenti e la mancanza di un’adeguata pianificazione della compravendita, condotta in maniera democratica (4).

Nei Paesi più poveri, gli investitori stranieri comprano ogni quattro giorni un’area di terra più grande della città di Roma e mentre i Paesi del Nord del mondo cercano di assicurarsi riserve alimentari da destinare al proprio mercato nazionale, i contadini vengono espulsi dalla propria terra e da quei campi che rappresentano la loro unica fonte di sostentamento.

Così come accadde alle popolazioni indigene americane, sprovviste di un moderno sistema catastale, anche per il popolo dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina la mancata definizione dei diritti legali di proprietà determina la completa arbitrarietà dei governi locali e la trasformazione delle loro terre in piantagioni industriali di monoculture destinate all’esportazione.

 

 

Gli attori coinvolti

Gli Stati che maggiormente investono nel “nuovo oro”, desiderosi di sfuggire all’oscillazione dei prezzi dei generi alimentari nel mercato mondiale, sono i Paesi arabi, privi di terre fertili, gli Stati Uniti, la Corea del Sud, la Cina e l’India, attraverso la mediazione di agenzie governative e/o aziende private.

La Cina intrattiene ottime relazioni con molti Stati africani e oltre ad acquistare terreni, fornisce anche manodopera e tecnici specializzati in Camerun, Uganda, Zambia e Tanzania.

Tra i destinatari degli investimenti dei Paesi del Golfo Persico, invece, prevalgono Paesi come l’Indonesia, il Pakistan e il Sudan, anche in virtù dell’affinità di carattere religioso tra i suddetti Stati (5).

Quando a partire dal 2008 i prezzi dei generi alimentari sono saliti alle stelle, i Paesi con eccedenze hanno limitato le esportazioni per soddisfare il mercato nazionale, mentre per gli Stati che dipendevano dalle importazioni l’iperinflazione è divenuta una minaccia e la terra la risposta ai loro problemi (6).

Il fenomeno dell’accaparramento di terreni colpisce soprattutto il continente africano ed i Paesi maggiormente interessati sono il Sudan, l’Etiopia, il Mali, il Madagascar e la Liberia. Per quanto riguarda quest’ultimo Stato, circa il 30 per cento del suo territorio è stato ceduto in concessioni negli ultimi 5 anni. La terra, infatti, non viene venduta dai governi locali agli investitori stranieri, ma viene data in affitto per periodi piuttosto lunghi e a basso costo, dai 7 centesimi ai 100 dollari per ettaro all’anno (7).

Accanto agli attori statali, alle multinazionali interessate alla produzione di biocarburanti e alle società finanziarie, anche alcune organizzazioni internazionali assumono un ruolo fondamentale nell’acquisizione delle terre fertili a livello globale.

Henry Saragih, coordinatore generale di “Via Campesina”, un’organizzazione che riunisce movimenti contadini sparsi in tutto il mondo, ritiene l’accaparramento di terreni un modello affaristico promosso da organizzazioni quali la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, la FAO e l’Unione Europea.

Nonostante la predisposizione di alcuni principi guida, come quelli promossi dalla Banca Mondiale per garantire investimenti responsabili nel settore agricolo, secondo Saragih le suddette istituzioni violano i diritti dei contadini (8).

Uno studio di Oxfam, una confederazione di ONG che lotta contro la povertà e le ingiustizie a livello globale, evidenzia come gli investimenti della Banca Mondiale in agricoltura siano triplicati negli ultimi dieci anni, passando da 2,5 miliardi di dollari nel 2002 a 6/8 miliardi di dollari nel 2012.

Dal 2008, 21 ricorsi formali sono stati presentati all’ente internazionale dalle comunità colpite dagli investimenti, con l’obiettivo di denunciare la violazione dei loro diritti sulla terra.

La Banca Mondiale ricopre un ruolo decisivo nelle acquisizioni di terra, dal momento che consiglia i governi dei Paesi in via di sviluppo in relazione alle politiche da adottare, rappresenta una fonte diretta di finanziamento per gli investimenti fondiari ed è un punto di riferimento per gli altri investitori.

Un rapporto dell’Oakland Institute ha evidenziato come il braccio finanziario della Banca Mondiale, costituito dall’International Finance Corporation, IFC, e dal Foreign Investment Advisory Service, FIAS, ricopra un ruolo importante nell’ambito della diffusione degli investimenti nella terra dei Paesi del sud del mondo (9).

L’IFC finanzia il settore privato e fornisce servizi di consulenza agli investitori e ai governi. Secondo tale ente, la mancanza di accesso ai terreni limita gli investimenti e la competizione nei Paesi in via di sviluppo ed il ruolo dell’IFC e della FIAS è proprio quello di facilitare ed accrescere l’apertura del mercato della terra per lo sviluppo del settore privato.

L’International Finance Corporation, in questi anni, ha affiancato diversi governi affinché questi prevedessero condizioni favorevoli agli investitori, offrendo ad esempio sgravi fiscali, ed ha inoltre operato al fianco di numerose agenzie per gli investimenti di diversi Stati.

 

  

La fertile terra africana 

Emblema delle problematiche e delle conseguenze negative derivanti dall’accaparramento di terreni è il caso limite del Madagascar. Nel 2008, il governo locale cede 13 mila km quadrati di terra per la coltivazione del mais e della palma da olio al gruppo coreano Daewoo Logistics. Il contratto prevedeva la cessione gratuita della terra per 99 anni, in cambio di posti di lavoro e della costruzione di infrastrutture (10).

L’affare, svelato dal Financial Times, scatena una sommossa popolare che conduce alle dimissioni del Presidente Marc Ravalomanana e all’annullamento del contratto con la multinazionale sud-coreana.

Per quanto concerne l’Africa occidentale, in Mali, prima della crisi libica del 2011, il più importante operatore nel mercato della terra è rappresentato dalla Lybia Africa Investment Portfolio.

Nel 2007, l’ex Presidente della Repubblica del Mali, Amadou Toumani Touré, offre alla Libia 100.000 ettari di terra maliana per la produzione del riso (11).

Il progetto prende il nome di “Malibya” e la costruzione delle infrastrutture necessarie e di un nuovo canale per l’acqua viene affidata ad aziende cinesi.

Secondo Ibrahima Coulibaly, presidente del CNOP, il sindacato dei contadini del Mali, l’accordo negoziato tra i due Capi di Stato ha rappresentato per la popolazione locale un “fatto compiuto”, nonostante nessun presidente abbia il diritto di svendere la terra del proprio Paese (12).  Interessante notare en passant come poco dopo, causa guerra, lo Stato libico sia scomparso dalle carte geopolitiche in quanto ritenuto dalla coalizione atlantica una minaccia: probabilmente anche un forte concorrente nell’area africana.

Una notizia incoraggiante giunge dalla Tanzania, dal momento che il governo ha deciso di limitare la vendita e l’affitto delle terre a partire dal gennaio 2013. Gli investitori non potranno comprare più di 5 mila ettari per la produzione del riso e più di 10 mila ettari per lo zucchero, utilizzato anche per produrre i biocarburanti.

Grazie anche alla pressione a livello internazionale, che ha visto protagonisti diverse ONG anglosassoni, tra cui l’Oakland Institute, ed il Relatore speciale sul diritto all’alimentazione delle Nazioni Unite, Oliver De Schutter,  la politica agricola di questo Stato africano ha reso giustizia alla collera popolare e al loro diritto alla terra (13).

In merito alle possibili soluzioni per porre fine alle ingiustizie cui sono sottoposti i piccoli contadini di tutto il mondo, Renée Vellvé, co-fondatrice della ONG Grain, ritiene che la sola garanzia del rispetto dei diritti umani e del pagamento di salari adeguati da parte degli attori internazionali non possa porre fine al fenomeno dell’accaparramento di terreni.

Occorre cambiare l’attuale modello di agricoltura e seguire una diversa logica di investimento e produzione agricola, incentrata sulla “sovranità alimentare” popolare. La produzione nel settore agricolo deve essere vicina alla comunità, incentrata su un modello familiare che possa tutelare i diritti delle popolazioni locali e allo stesso tempo possa garantire cospicui profitti.

 

 

* Marzia Nobile, laureata in Relazioni Internazionali presso l’Università “La Sapienza” di Roma

 

(1)   Liberti S., Land Grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo, Roma, 2011.

(2)   Riccardi P., Corsa alla terra, Report, 2011, www.report.rai.it.

(3)   Bisogna fermare la speculazione, Internazionale n. 891, 2011, p. 40.

(4)   Chi ci prende la terra, ci prende la vita. Come fermare la corsa globale alla terra, 2012, www.oxfamitalia.org.

(5)   Lizza G., Geopolitica delle prossime sfide, Novara, 2011, p. 164.

(6)   Rice A., Is There Such a Thing as Agro-Imperialism, 2009, www.nytimes.com.

(7)   Benni N., L’Africa alle prese con il “Land Grabbing”, 2013, www.thepostinternazionale.it.

(8) Principles for Responsible Agricultural Investment (RAI) that Respects Rights, Livelihoods and Resources, www.responsibleagroinvestment.org/rai.

(9) (Mis) Investment in Agricultural. The Role of the International Finance Corporation in Global Land Grabs, 2010, www.oaklandinstitute.org.

(10) Lizza G., op.cit., p. 165.

(11) Fascetto A., Land grabbing in Mali: il progetto Malybia e le conseguenze sui locali, 2012, www.meridianionline.org.

(12) Understanding Land Investment Deals in Africa. Malybia in Mali, 2011, www.oaklandinstitute.org.

(13) Jobert M., Tanzanie: l’accaparement des terres recule,  in Journal de l’Environnement, 2013, www.farmlandgrab.org.


I DOPPI STANDARD E IL PROGRAMMA NUCLEARE DELL’ IRAN

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Nel nome di Dio.
Nel clima pesante  e torbido creato da alcuni mezzi di comunicazione di massa  attraverso la pubblicazione di numerose notizie contradditorie riguardo al programma nucleare iraniano è doveroso fare una riflessione  imparziale e prestare la dovuta attenzione agli aspetti sconosciuti o meno noti della questione questione.

 

 

Il programma nucleare iraniano nel corso del tempo

Il programma nucleare iraniano è cominciato più di mezzo secolo fa, precisamnete negli anni cinquanta sotto la guida e supervisione dello Shah Reza Pahlavi . Nel 1957  l’ Agenzia internazionale dell’ Energia Atomica nacque come organismo  nel quadro della dottrina Eisenhower con il nome di  “ Atoms for peace” ed ad allora rislagono i primi passi concreti iraniani sulla strada del nucleare.Nel 1960  fu fimato il contratto  per un reattore di ricerca  fornito dagli americani per l’ Università di Teheran. “Atomi per la pace” fu un progetto lanciato nel 1953 da D. Eisenhower  in occasione dell’ Assemblea generale delle Nazioni Unite ed era un progetto ambizioso volto a utilizzare la tecnologia nuclerae a fini civili e non bellici.  Così  nel contesto politico di quegli anni, nel 1967, il Re di Persia allineato con gli Stati Uniti d’ America riuscì senza ostacoli a dare l’ avvio alle attività del reattore dell’ Università di Teheran. L’ Iran aderì al Trattato di Non Proliferazione nucleare nel mese di Luglio 1968 e al 1974 risale  l’ accordo sulle salvaguardie tra l’ Iran e l’ AIEA. Lo Shah d’ Iran sempre nel 1974  creò l’ Agenzia per l’ Energia Atomica dell’ Iran  e dichiarò chiaramente i suoi programmi  a lungo termine riguardo al nucleare che andavano molto oltre le potenzialità del paese in quel momento.  La creazione e lo sfruttamento di venti reattori atomici faceva parte di questi programmi che non solo non fu osteggiato dall’ occidente, ma fu oggetto di completo appoggio  da parte di USA , Francia e Germania, che si contendevano l’ esecuzione  dei progetti nucleari iraniani, compresi  l’ arricchimento dell’ uranio e il raggiungimento del ciclo completo del combustibile . Il reattore atomico dell’ Università  di Teheran fu fornito dagli Americani e l’ Iran pagò due milioni di dollari per il combustibile necessario. Nel  contempo la Compagnia tedesca Kraftwerk, successivamnete sostituito da Siemens si impegnò a  produrre il primo reattore  nucleare per la produzione dell’ energia elettrica a Busher simile al modello già costruito in Germania . Il contratto perl a costruzione della centrale di Busher fu firmato nel 1975 e prevedeva il suo completamento nel 1981 per costo di un miliardo di marchi tedeschi. Nello stesso periodo il consorzio europeo  nucleare Eurodif ricevette dall’ Iran centinaia di milioni  di dollari come garanzia per la fornitura di combustibile nucleare  e l ‘ Iran  acquisì inoltre il 10 % delle sue quote al fine di  risolvere alcune problematiche di tipo finanziario. In base ad alcuni documenti l’ Iran partecipò anche al progetto “ laser 2 “ e questi sono solo alcuni esempi della competizione tra i paesi occidentali per conquistarsi un ruolo nei vantaggiosi  progetti  nucleari dello Shah.  Secondi Jeffrey Camp , analista dell’ Istituto Nixon ed in base ad  alcuni documenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite datati 1975 e 1976, l’ Iran sin dall’ inizio aveva espresso ripetutamente il proprio interesse nei confronti della  realizzazione di una tecnologia interna per la produzione del combustibile nucleare, interesse che non solo non fu osteggiato ma in ragione dell’ alleanza  dell’ Iran con il regime Pahlavi, fu sostenuto . Akbar Etemad , il primo Presidente dell’ Agenzia per l’ Energia Atomica iraniana , in una intervista al Figaro  rifeì testuali parole attribuite allo Shah  “….. se le condizioni di sicurezza dell’ Iran subiranno dei cambiamenti oppure se un’altro paese della regione dovesse dotarsi di un ‘arma nucleare, saremmo costretti  a considerare l’ acquisizione di armi nucleari una priorità…” . Gli americani nonostante considerassero gli obiettivi imperiali  iraniani a lungo termine , hanno collaborato con lui per realizzare i propri interessi  e lavorare ai danni della pace e della stabilità della regione.

Nel 1979 la Rivoluzione islamica irruppe improvvisamente sulla scena mondiale e la sua vittoria colse di sorpresa gli Stati Uniti d’ America. Il nuovo governo iraniano , nato dalla rivoluzione islamica, ha ritenuto alcuni aspetti del programma nucleare iniziato sotto il regime dello Scià, incompatibili con le fondamenta religiose  ed ideologiche  della Rivoluzione. Parte di queste incompatibilità traeva origine dagli insegnamenti dell’ Imam Khomeini ( s.d.l.p.) improntati al rifiuto della partecipazione a progetti  guerra fondai nella regione e della sottomissione  alle potenze  in oriente e occidente,  promuovendo invece idee di indipendenza  e salvaguardia  della vita dell’ Uomo ;  più di una volta pronunciò parole di biasimo nei confronti dei  governi americano e russo  per la produzione, la proliferazione e l’ utilizzo delle armi di distruzione di massa . Passarono anni prima che il governo dell’ Iran decidesse di riprendere  parte del programma nucleare  iniziato prima della rivoluzione  e ciò esclusivamente per produrre energia elettrica  e raggiungere  l’ autonomia  nella produzione  di farmaci nel nome del progresso scientifico del Paese.  A quel punto la R. Islamica dell’ Iran chiese ai paesi occidentali , ex partner del regime dello Scià, di onorare i loro impegni contrattuali in considerazione dei lauti  anticipi ricevuti negli anni passati. Purtroppo  gli fu riservato  un atteggiamento completamente diverso da parte dell’ Occidente  rispetto a quello che aveva caratterizzato il periodo precedente  la rivoluzione.

Nonostante il reattore dell’ Università di Teheran fosse adibito alla produzione di radioisotopi necessari alle cure di centinaia di migliaia di malati di tumore e nonostante venisse pagato in anticipo, pressioni americane resero impossibile la sua fornitura  all’ Iran. Tutti i tentativi iraniani , attraverso gli organismi internazionali , in particolare l’ AIEA e il suo Direttore risultarono inutili. Riguardo alla società “Eurodit” , nonostante la presenza iraniana nel suo quadro  azionario  e in violazione del verdetto del tribunale di Losanne , nulla fu mai consegnato all’ Iran  della ingente produzione di “ Yellow cake “ . Una società francese rispettò il proprio impegno  a costruire una centrale nucleare  a Darkwein, vicino ad Ahwaz e interruppe  a metà i lavori già iniziati. Fereidoun Sahabi, il primo  Direttore dell’ Agenzia iraniana per l’ Energia Atomica , dopo la vittoria della rivoluzione, ricordava che le trattative con la controparte  tedesca  per portare a termne il restante  lavoro della Centrale di Busher , completata al 65% , dopo un anno e mezzo  erano ad un punto morto , semplicemente perchè negli operatori tedeschi mancava completamete la volontà  di collaborare con l’ Iran.  Questi sono solo alcuni esempio del deplorevole atteggiamento  dell’ occidente  e dei doppi standard applicati allo stesso paese, prima e dopo la rivoluzione  islamica. Purtroppo  i negoziati  tra l’ Iran e la stessa AIEA per poter comprare  il combustibile  necessario  alle centrali iraniane  e durati sette anni, non hannno portato ai risultati sperati dall’ Iran , che in fine si è visto costretto  a intraprendere la strada della produzione interna del combustabile nucleare. L’ Iran sotto il regime dello Scià era un paese con la metà della popolazione  attuale, con riserve di petrolio  e di gas più ricche e meno vitali  rispetto ad oggi  e in un mondo  dove le questioni  ambientali  riguardo all’ inquinamento  da combustibili fossili  non avevano l’ importanza  di oggi; ciononostante le scelte ambiziose  del regime dei pahlavi riguardo al nucleare, non vennero mai contestate dall’ occidente, che anzi, le sostenne e incoraggiò per evidenti motivi economici e politici.

 

 

Sguardo ai principi e fondamenti del programma nucleare iraniano

 

Principi giuridici

La mancanza di collaborazione da parte dei paesi occidentali controparti dell’ Iran nel programma nucleare  sembrava e sembra  una vendetta per la vittoria della rivoluzione islamica, il rovesciamento dello Sha e l’ avvento della Repubblica islamica in Iran. Questo atteggiamento ostile ha costretto l’ Iran a provvedere  ai suoi fabbisogni  attingendo alle proprie risorse e capacità , in un quadro di legalità e legittimità. Da un punto di vista giuridico l’ Iran è stato tra i primi firmatari  nel luglio del 1968 del Trattato di Non Proliferazione Nucleare, da sempre e costantemente fedele ai suoi principi ha continuato le proprie collaborazioni con l’ Agenzia Internazionale dell’ Energia Atomica e il suo Statuto nonchè  sugli accordi sulle salvaguardie. Il Trattato di Non Proliferazione nella premessa e negli articoli 1-6 mette bene in luce gli obblighi, i diritti e gli impegni dei paesi aventi l’ arma nucleare( ovvero  i paesi dotati id arma nucleare prima del 1-1-1967) e per i paesi  sprovvisiti di questo tipo di tecnologia.  Gli art. 3 e 4 in particolare evidenziano  la possibilità per tutti i paesi membri  di potersi avvalere della tecnologia nucleare pacifica, considerandolo un diritto inalienabile per tutti i  paesi non soggetto a nessuna discriminazione. L ‘ Iran ha cercato di far valere questo diritto in base alle sue già esistenti  capacità scientifche e tecniche . Il TNP segue le  tre direttive principali della Non Proliferazione, dell’ Uso pacifico dell’ energia nucleare senza discriminazioni e del completo disarmo , esse  purtroppo  però non sono concretamente  realizzate ad esempio i Paesi dotati di arma nucleare non  si sono mossi nella direzione del disarmo ( art, 1 e 6 ) , essi sono stati reticenti a fornire ai paesi in via di sviluppo  tecnologia nucleare ai fini pacifici ( art. 4 e 5 )  e nonostante l’ art.4  hanno posto diversi ostacoli sulla via dell’ Iran per il raggiungimento dell’ energia nucleare civile.

 

Principi ideologici, religiosi ed etici

Alla luce del fatto che la Repubblica  iraniana è una Repubblica islamica e considerato che  le le leggi e i regolamenti vigenti devono essere conformi alla Carta costituzionale e ai  precetti religiosi  della Sharia , il fondatore  Imam Khomeini aveva più volte pubblicamente condannato  la produzione, l’ uso  e lo stoccaggio delle armi di distruzione di massa e la Guida della Rivoluzione islamica Ayatollah Khomenei considera la produzione e lo stoccaggio di questi armamenti  preludio al crimine e minaccia alla pace mondiale e proprio per questo motivo ha emesso una fatwa dichiarando “Haram” questo genere di armamenti  “ .. secondo noi  oltre all’ arma nucleare  anche altri tipi di armi di distruzione di massa come le armi chimiche e biologiche sono serie minacce contro l’ umanità. Consideriamo l’ uso di questi armamenti  Haram  e lo sforzo per rendere immune il genere umano da questo grande flagello  un compito  che coinvolge tutti noi” (Ayatollah Khomenei nella conferenza sul disarmo – Teheran -  17-4-2010). Queste posizioni hanno già tracciato un quadro giuridico molto preciso per le attività nucleari iraniane al quale la R.I.dell’ Iran si sente impegnata.

Inoltre il potere di Fatwa e la sua influenza nella cultura religiosa e ideologica degli iraniani è talmente forte che nell’ ipotesi improbabile che le convenzioni internazionali e le leggi interne iraniane dovessero consentire l’ utilizzo delle armi di distruzione di massa o se l’ Iran si trovasse in una difficile situazione storica  con particolari necessità di difesa o sicurezza, non potrebbe mai per precisemotivazioni ideologiche , religiose ed etiche , produrre e utilizzare questo tipo di armamenti. Ne è un esempio la mancata risposta iraniana in rappresaglia all’ utilizzo di armi chimiche da parte di Saddam Hussein durante la guerra da questi  imposta all’ Iran e durata ben  otto anni .

 

Principi tecnici

Da un punto di vista tecnico nonostante gli ostacoli creati dall’ Occidente  alla fornitura  della tecnologia nuclerare all’ Iran sono stati continui gli sforzi del paese per  provvedere in modo autonomo allo sviluppo di  una propria tecnologia nucleare civile al fine di completare il ciclo del combustibile e fornire così il combustibile necessario alle proprie centrali nucleari di ricerca e di produzione di energia elettrica. I risultati di questo costante impegno iraniano, anche  a detta di esperti  stranieri , sono stati brillanti. La volontà iraniana  di sviluppare questa tecnologia  si colloca nel quadro naturale della volontà del paese  di progredire  in ogni ambito tecnico e scientifico così proclama la  Costituzione iraniana  e tutti i programmi  a lungo termini del paese. L’ Iran ha raggiunto  risultati sorprendenti negli ultimi anni  anche in ambiti tecnologici e scientifici quali le nanotecnologie, la clonazione biologica, le cellule staminali, la  conquista dello spazio, il lancio di satelliti di ricerca e lo sviluppo  di industrie strategiche.  Secondo molti esperti alcune tra le conquiste iraniane  sono  di per sè più importanti della tecnologia nucleare, ma alcuni paesi occidentali con precisi  intenti politici cercano di fuorviare l’ opinione pubblica mondiale, ingigantendo i risultati conseguiti dall’Iran nel campo nucleare, quando in realtà questa tecnologia  civile e pacifica, costituisce soltanto una parte del complesso quadro del progresso scientifico del Paese.In base al TNP e allo Statuto dell’ AIEA  i paesi membri del Trattato avrebbero dovuto cogliere positivamente i progressi scientifici dell’ Iran, ma purtroppo e contrariamente a quanto avvenuto prima della Rivoluzione islamica l’ atteggiamento degli Stati Uniti e i loro alleati nei confronti di questi progressi è stato tanto irrazionale quanto ostile. Gli USA hanno cercato  di portare avanti  i loro precisi intenti politici finalizzati a creare ostacoli  allo sviluppo  pacifico  della tecnologia nucleare iraniana nel quadro dell’ AIEA attraverso un uso strumentale  di organismi internazionali  e l’ esercizio di indebite pressioni  sull’ Agenzia senza nessuna considerazione per la natura tecnica  e specialistica di detta istituzione. Le azioni  e pressioni  crescenti degli americani negli ultimi anni hanno determinato  molte vicissitudini al programma.L’ ostracismo americano ha nuociuto anche al Movimento per lo svilupopo pacifico del nucleare e in compenso  la difesa  ragionevole  dell’ NPT dell’ Iran  e il rispetto del mio Paese per i regolamenti  dell’ Agenzia  a proposito della necessità di una equa  applicazione del Trattato ha creato un  terreno fertile  a favore della non proliferazione e del disarmo  trasformando nel contempo l’ Iran in un simbolo della difesa dei diritti dimenticati dei paesi in via di sviluppo membri del Trattato  di non Proliferazione el’ espressione delle loro posizioni.

 

 

Deferimento della questione nucleare al Consiglio di Sicurezza : errore storico e giuridico

Nonostante la legittimità e razionalità dell’ approccio iraniano nei confronti dell’ Agenzia  e la sua positiva interazione con essa, le crescenti pressioni esercitate  su questo organismo intergovernativo e le  bagarre politiche hanno determinato lil deferimento della questione nucleare iraniana, senza alcuna giustificazione logica e giuridica al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in data 4 febbraio 2006. L’ AIEA rimane l’ unico organismo  inter governativo responsabile e  preposto alle verifiche per giungere  alla sicurezza della non deviazione delle attività nucleari dei paesi membri dell’ NPT.Pertanto finchè la deviazione iraniana nelle sue attività nucleari  non sarà accertata e dichiarata da questo organismo internazionale,  il caso esula formalmente dalle competenze del Consiglio di Sicurezza.  Come in seguito esposto all’ epoca  una simile deviazione non è stata mai accertata  e quanto  nel merito  venne asserito rimase sostanzialmente  una supposizione , spesso avvolta da ambiguità. Le relazioni redatte dall’ Agenzia infatti, attestavano la mancanza di deviazione,  e quindi l’ invio  del caso al Consiglio di Sicurezza fu un errore storico e giuridico , ai cui fautori non solo spetta l’ ammissione , ma anche il dovere di riparare. Questo evento non solo ha aperto una nuova, amara stagione nell’ applicazione dei dopppi standard  nei confronti del programma nucleare iraniano  , ma ha anche seriamente danneggiato il prestigio dell’ AIEA conosciuta fino ad allora come un organismo  non politico, tecnico e di sorveglianza imparziale. Questi indesiderati  risultati purtroppo sono in grado di ledere anche in futuro i diritti di altri paesi.

L’ invio della questione nucleare iraniana da parte del Board of Governors dell’ AIEA al Consiglio di Sicurezza è inammissibile per cinque ragioni giuridiche.

  1. In base al comma C dell’ Art. 12 dello Statuto dell’ Agenzia la mancata conformità delle  attività nucleari dei paesi ai criteri dell’ Agenzia deve necessariamente essere riportata dagli ispettori  al Direttore Generale dell’ AIEA, da questi al Board of Governors ed infine  al Consiglio di Sicurezza. Nel caso iraniano questo iter non è stato rispettato. Il Direttore Generale dell’Aiea nella sua relazione non ha mai usato le parole “ non – compliance” ma piuttosto “failure”. Questa  espressione sovente è stata usata anche per i casi riguardanti altri paesi membri dell’Aiea, che dopo la correzione del loro operato, sono rientrati in seno all’Agenzia in base al Comprehensive Safeguard Agreement.
  2. In base allo statuto dell’ AIEA e del Comprehensive Safeguard Agreement il deferimento di un caso al Consiglio di Sicurezza è possibile asclusivamente  nel caso della provata deviazione del paese in questione. Tutte le relazioni  dell’ attuale  Direttore  dell’ Agenzia e del suo predecessore  non contengono cenni riguardo ad una presunta deviazione iraniana.
  3. Il comma C dell’ Art. 12 dello Statuto dell’ Agenzia  la base per le risoluzioni del Consiglio dei Governatori  riguardo alla  deviazione dei paesi membri dell’ Agenzia ricevitotri del materiale nucleare e del suo uso improprio, mentre l’ Iran non ha mai ricevuto questo tipo di materiali.
  4. In base al Comprehensive Safeguard Agreement la questione nucleare dei paesi viene deferita al Consiglio di Sicurezza sei paesi membri non permettono l’ accesso agli ispettori dell’ Agenzia sul proprio territorio per l’ esercizio delle loro attività di verifica e in tutte le relazioni  del Direttore Generale AIEA  riportano il fatto che  gli accessi e le verifiche  sono avvenute con facilità  e collaborazione da parte del’ Iran.
  5. I comunicati emessi  da EU3  dal 2003 al 2006 riconoscono esplicitamente il diritto iraniano ad avvalersi della tecnologia nucleare civile e pacifica  e considerano  la volontaria  sospensione  dell’ arricchimento dell’ uranio come una voluntary and confidence building measure  e non legally binding ( Tehran declaration 21-10-2003).

 

Questi  punti sono stati  successivamente e  nuovamente iterati nell’ Accordo tra la EU3 e l’ Iran il 15-11-2004  a Parigi. Tuttavia gli stessi paesi hanno proposto nel 2006, a causa delle pesanti pressioni politiche , il deferimento della questione nucleare iraniana al Consiglio di Sicurezza,  sostenendo un atteggiamento discriminatorio e violando i principi giuridici  esistenti in merito a una questione che rientrava e rientra nelle competenze tecniche e giuridiche dell’ AIEA. Tutto ciò avveniva mentre il sito di Natanz osservava la volontaria sospensione delle sue attività.

Nonostante queste azioni ostili da parte degli Stati Uniti d’ America e i suoi alleati occidentali  volte a distrarre la questione iraniana dal suo naturale corso  e l’ approvazione delle risoluzioni  1737( 2006), 1747( 2007), 1703( 2008) e 1929(2010) ed altre emesse dall’ Unione Europea , la R. I. dell’ Iran non ha mai smesso di  mostrare buona  e autentica volontà  nella collaborazione con l’ AIEA da una  parte e  nel prosdeguire  i negoziati con il gruppo 5 +1 dall’ altra , che sino ad oggi si sono svolti più volte in vari Paesi .

 

 

Cenni storici e giuridici di particolare rilievo  in merito al programma nucleare

Tralasciando in questa sede talune precisazioni tecniche , è tuttavia opportuno ribadire  che

  • l’ insistenza dell’ Iran sul proprio diritto legittimo è stato interpretato da alcuni mezzi occidentali  come “ l’ insistenza dell’ Iran  nel perseguire l’ obiettivo del raggiungimento dell’ arma nucleare”.  In realtà l’ atteggiamento iraniano è assolutamente  in favore della difesa dei diritti dei paesi membri del NPT e dell’ AIEA , sanciti dallo Statuto dell’ Agenzia e riconosciuti nel Trattato in quanto importanti risultati sulla via della Non Proliferazione e del Disarmo nucleare. La R. I. dell’ Iran  in base al principio  del “ Diritto allo sviluppo” ha il dovere di salvaguardare le proprie conquiste scientifiche e tecnologiche , acquisite con elevati costi umani e  materiali. Pertanto il riconoscimento  del diritto iraniano  a dotarsi di tecnologia nucleare pacifica non significa fare concessioni  di sorta,  ma semplicemente  confermare  il contenuto del TNP    e dello Statuto  dell’ AIEA.
  • Nonostante gli ostacoli posti da alcuni paesi occidentali, l’ Iran non ha mai abbandonato il tavolo negoziale , dando prova  della propria buona volontà, di cui sono eloquenti esempi i  lunghi negoziati del 2003-2005 tra Iran , Gran Bretagna, Francia e Germania  e successivamente e fino a questo momento i ripetuti round negoziali con i 5+1 a Baghdad. Istambul e Mosca nonchè i continui colloqui e contatti con i rappresentanti  dell’ AIEA a Teheran ea Vienna.  Iran  e qualche altro Paese, durante questi negoziati hanno proposto diversi pacchetti   di misure  che purtroppo le pressioni politiche esterne hanno reso inneficaci. La Confidence building è una strada a doppio senso e le parti dovrebbero adoperarsi reciprocamente per collaborare evitando di incorrere a indebite pressioni.
  • Fino a questo momento 5000 man-days  ispezioni  sono state eseguite dagli addetti dell’ Agenzia presso i siti nucleari iraniani , queste attività ispettive sono tuttora in corso e sono state oggetto di decine  di relazioni dell’ Agenzia. Numerose telecamere istallate dall’ AIEA nei siti nucleari  iraniani monitorano  non stop le attività nucleari del Paese e vi sono stati casi di ispezioni senza preavviso ad alcune istallazioni. E’ bene ricordare che questo tipo di monitoraggio  costituisce  una  forma ispettiva senza precedenti adoperata dall’ Agenzia. In nessuna di queste ispezioni  è stato trovato  uranio arricchito per  obiettivi militari o sono state riscontrate attività deviate.  ( Per dettagli si rimanda alle varie relazioni del Consiglio dei Governatori dell’ AIEA) .
  • Uno dei punti più seri  e ambigui delle risoluzioni approvate contro  l’ Iran è la mancata  notifica delle attività nucleari antecedenti al 2003. Fino a quel momento  nessun tipo di materiale nucleare  era entrato nel sito nucleare di Natanz e nel reattore di ricerca  dell’ acqua pesante di Araq ( IR40); poichè l’ Iran sino  a quella data  non aveva  siglato il Modified Code 3.1 del  subsidiary arrangement  of NPT comprehensive safeguards , non aveva  alcun obbligo   di notificare all’ Agenzia  le proprie attività nè  tantomeno  il sito  Uranium Conversion facility e le proprie miniere di uranio.
  • Il ripetuto sostegno espresso dal Movimento dei Non Allineati  al Programma nucleare iraniano ,  l’ approvazione delle Risoluzioni  al riguardo , le  visite ai siti  iraniani nel gennaio 2011 da parte dei rappresentanti del Movimento dei Non Allienati, della Lega Araba, del Gruppo 77, di alcuni rappresentanti di gruppi politici  e Paesi a Vienna, cosi come l’ invio di numerosi inviti ad altri Paesi nonchè dell’ Alto Rappresentante dell’ Unione Europea ad effettuare ulteriori visite ed ispezioni, sono testimonianze della  buona volontà  iraniana  e della sua disponibilità.
  • Le vaste sanzioni unilaterali e multilaterali  degli USA e dell’ UE , la mancata collaborazione dell’ Occidente nella fornitra del combustibile per il reattore di ricerca  di Teheran  e il loro ostracismo per far fallire gli sforzi iraniani per procurarsi il combustibile necessario acquistandolo dai paesi produttori ha costretto il paese a provvedere al proprio fabbisogno attraverso l’ arricchimento dell’ Uranio al 20 % , un esempio  di tale fabbisogno è costituito dall’ assoluta irrinunciabile necessità di produrre farmaci  per i 850.000 malati di tumore  e malattie rare del Paese . Nel contempo la R. I. dell’ Iran per corrispondere  ai bisogni  scientifici ,  di ricerca ed energetici del Paese , ha potuto  raggiungere  risultati brillanti come la messa in opera della centrale di Busher nonostante le difficoltà trascinatesi per oltre 30 anni, la produzione di radio farmaci, la produzione di yellow cake e la raggiunta capacità di affrontare i cyber attacchi contro i propri siti nucleari come il recente attacco  del virus Stuxnet . La R. I. dell’ Iran ha dichiarato che le proposte contenute nella dichiarazione di Teheran  a proposito dello scambio di combustibile, rimangono tuttora valide e potrebbero costituire un argomento  di discussione e  confronto  per future collaborazioni , ma non più una necessità urgente per il paese.
  • Il diritto iraniano ad avvalersi di tecnologia nucleare con scopi pacifici  gode del sostegno  di tutti i gruppi parlamentari e politici  del Paese e raccoglie il  consenso unanime della  società  in ogni sua espressione.
  • L’ inserimento delle liste dei nominativi degli scienziati nucleari iraniani nelle varie risoluzioni ha permesso ai terroristi di pianificare e portare a compimento  numerosi attacchi e attentati  contro fisici e scienziati iraniani, tra cui i Prof.ri Mostafa Ahmadi Roushan , Majid Shahryari, Masoud Alimohammadi, Darioush Alinejad e Reza Qashqaei . In base ai documenti  esistenti e alle  confessioni  di quanti  coinvolti in questi crimini è emersa la partecipazione certa del Mossad e del MI6 britannico  e del MKO ( il movimento terroristico dei Mojaheddin e khalq). Queste azioni terroristiche non solo non  sono state condannate apertamente in occidente, ma sorprendentemente gli USA e l’ Unione Euopea , in un azione concordata, hanno depennato l’MKO , responsabile di azioni terroristiche contro gli stessi americani, dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche internazionali. Questa decisione  è un incentivo per ulteriori e  future azioni terroristiche a livello internazionale . Ancora più sorprendente è la mancata presenza degli studiosi  iraniani nelle recenti conferenze internazionali in materia nucleare ( ad es. La 19esima conferenza dell’ ingegneria nucleare in Giappone nel 2011).
  • Lo svolgimento delle conferenze mondiali sul disarmo a Teheran  negli anni 2010 e 2012 a cui hanno partecipato esperti nucleari  e autorità politiche di vari paesi del mondo è un ‘ulteriore prova della trasparenza iraniana in materia di ricerca nucleare.
  • Le sanzioni del Consiglio di Sicurezza  e le restrizioni aggiuntive americane e europee imposte alle società e agli istituti di credito iraniani a causa della ferma posizione dell’ Iran in tema nucleare nonostante l’ asserzione occidentale “ libero commercio e diritti dell’ Uomo” , hanno creato pressioni notevoli  non tanto sul Governo  iraniano quanto  sui ceti più vulnerabili della società,  in palese contrasto con le convenzioni relative al libero commercio e al diritto allo sviluppo e dell’ Uomo ( ne sono alcuni esempi , come già trattato  nel n. 167 della Rivista Affari Esteri , i problemi creati dal divieto delle transazioni bancarie e del divieto del commercio per imprenditori e studenti  e alle difficoltà sorte per il divieto d vendita del carburante agli aereomobili iraniani). Queste risoluzioni sono in contrasto con lo Statuto dell’ AIEA.
  • Il Direttore generale dell’ AIEA nel comunicato del 15- nov. 2004 a seguito di ispezioni  nei siti di Parchin e Lavisan- Shian nonchè delle analisi dei campioni raccolti,  ha dichiarato in maniera inequivocabile che il Programma nucleare iraniano non è militare ( Paragrafo 102 della Relazione del Direttore generale 83/2004 / gov, Relazione 87/2005 / gov. Del 18-11-2005, Relazione 15 / 2006 / gov del 27-2-2006).
  • Nel 2007 l’ AIEA e l’ Iran nel quadro di un Workplan hanno raggiunto l’ accordo di risolvere  tutte le ambiguità rimanenti ( remaining ambiguishes )  e le questioni non risolte ( outstanding issues)  del  programma nucleare  secondo determinate modalità.  A seguito di questa collaborazione e ulteriore scambio di informazioni le ambiguità sono state chiarite  ( 6 questioni  ) da parte iraniana e l’ Agenzia ha dichiarato nel documento  711/INFCIRC che non è rimasta alcuna ambiguità da chiarire. In base al paragrafo 3 dello stesso documento e in considerazione dei  progressi raggiunti nella collaborzione tra le parti, l’ Agenzia avrebbe dovuto consegnare all’ Iran  i documenti relativi ai presunti studi ( alledge studies ) , tuttavia ciò non è avvenuto  e il Direttore generale dell’ AIEA nella relazione consegnata al Consiglio dei Governatori critica chiaramente alcuni Paesi che avevano consegnato le prove  relative ai presunti studi all’ Agenzia  e che non avevano permesso  che le prove  fossero consegnate all’ Iran. L’ Aiea non ha mai confermato la veridicità di questi studi . La R. I. dell’ Iran in base a quanto previsto dal work plan ha prodotto una relazione di 117 pagine contenenti le sue considerazioni e valutazioni  e lo ha consegnato all’ Agenzia , ma nonostante gli sforzi iraniani  il work plan non si concluse ma vi si  aggiunsero altre nuove asserzioni riguardanti  la possibile dimensione militare del programma nucleare iraniano. Nello stesso tempo l’ AIEA nel pagrafo 4 del proprio documento aveva chiarito  che non vi era nessuna questione irrisolta o ambigua relativa alle passate attività nucleari iraniane.
  • Il 21 ottobre 2003 l’ Iran per provare la propria buona volontà e sincerità nel corso dei negoziati  con  la Troika europea ha proposto la volontaria sospensione dell’ arricchimento dell’ uranio e lo scambio dell’ uranio arricchito con le barre del combustibile, nonchè la stipula di un accordo  con l’ EU3. Inoltre l’ Iran dal 2004 ha aderito volontariamente al Protocollo aggiuntivo, nonchè al “ Modified code 3.1 of the subsidiary arrangement of NPT comprehensive safeguards” considerato il più alto impegno internazionale nei programmi nucleari  e il massimo grado di trasparenza riguardo al programma nucleare iraniano. Cionostante  dopo due anni e mezzo dall’ applicazione volontaria del protocollo aggiuntivo, nel 2006 fu approvata una dura risoluzione  contro l’ Iran nel Consiglio di Sicurezza e seguita da altre ancor più severe. Nonostante l’ atteggiamento positivo di Teheran le controparti occidentali chiedevano il  definitivo arresto del programma nucleare  pacifico dell’ Iran , imponendo al governo iraniano richieste oltre i  patti internazionali e gli accordi precedentemente raggiunti ( ad es. la chiusura di tutti i centri di ricerca e universitari coinvolti nelle attività nucleari). Questo approccio  è stato ritenuto ostile dalla Assemblea  Consultiva islamica  che  di conseguenza ha sospeso l’ applicazione volontaria del protocollo aggiuntivo impegnando il governo a proseguire l’ arricchimento sotto il controllo del’ AIEA.  Le collaborazioni iraniane con l’ Agenzia  vanno al di là dell’ adesione al Protocollo aggiuntivo, ad esempio la concessione di effettuare la visita al R&D delle centrifughe,  che per nessun paese è  obbligatoria. Una questione importante riguardo al Protocollo aggiuntivo è che da un punto di vista giuridico non è considerata obbligatoria la sua applicazione e infatti l’ Iran vi ha aderito in modo volontario. La stessa considerazione vale per il “Modified code 3.1 of the subsidiary arrangement of NPT comprehensive safeguards”  che è  una raccomandazione del Consiglio dei Governatori e non una parte giuridicamente  impegnativa del Trattato di Non Proliferazione.
  • L’ Iran ritiene che la produzione  e l’ utilizzo delle armi nucleari sia un errore strategico e non trovi alcuna giustificazione  di sicurezza o strategica e possa rendere il paese particolarmente vulnerabile nel quadro regionale. Numerosi esperti nucleari sono dell’ idea che se l’ Iran avesse inteso acquisire  armi nucleari, avrebbe dovuto utilizzare composizioni tecniche diverse e più utili dal punto di vista della tecnologia dell’ arricchimento. L’ Iran nel suo programma scientifico nucleare  ha bisogno di vaste collaborazioni con i paesi sviluppati in questo settore e la tendenza alla produzione di armi nucleari farebbe perdere al paese una chance importante in questo senso.
  •  Le proposte iraniane o quelle di paesi terzi come il progetto  turco-brasiliano per lo scambio di combustibile oppure la costituzione  di un consorzio multilaterale per l’ arricchimento, si sono sempre scontrate con lo scettismo , la mancata collaborazione e l’ostracismo delle controparti occidentali . Ad es. l’ Iran nel febbraio 2010 e nel settembre 2011, per voce dello stesso Presidente della Repubblica.,  ha proposto di fermare la produzione di uranio arricchito al 20 % in cambio di barre di combustibile. La stessa proposta  fu avanzata ancora una volta dal Dr. Jalili, Capo negoziatore nucleare iraniano alla Sig.ra Catherine Ashton, Alto Rappresentante dell’ Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza, in cambio di adeguate misure adottate dai 5+1, ma ancora una volta l’ Europa ha risposto alla buona determinazione iraniana   con nuove sanzioni.

 

 

L’ imposizione dei doppi standard nel disarmo regionale e internazionale

Oltre a quanto sinora esposto, l’ America e i suoi alleati anche per ciò che riguarda la questione del disarmo  e il raggiungimento di pace e stabilità regionali e internazionali adottano un approccio ambivalente. Dopo le esperienze tragiche  delle due guerre mondiali  e l’ utilizzo della bomba atomica su Hiroshiwa e Nagasaki , nonchè  gli esperimenti nucleari degli anni 90 condotti da alcuni Paesi, l’ utilizzo di armi di distruzione di massa  di qualsiasi genere e la corsa al riarmo  è considerata una seria preoccupazione  e una grave minaccia mondiale. Dopo vent’ anni dalla fine della Guerra Fredda  esistono nel mondo almeno 23 mila testate nucleari  con una forza esplosiva 150 mila volte maggiore  rispetto alle bombe americane lanciate sulle città giapponesi. Di queste testate nucleari  migliaia sono collocate nel territorio americano e in Unione Europea  e  questi armamenti ,  tuttora attivi , destano prooccupazione.  Tutto ciò mentre   il disarmo completo  dovrebbe essere considerato una obiettivo prioritario per l’ Umanità.Gli articoli 11 e 26 dello Statuto delle nazioni Unite pongono l’ accento sulle responsabilità e la giurisdizione dell’ Assemblea Generale e del consiglio di Sicurezzaper quello che riguarda la questione del disarmo. Sempre a questo proposito alcune risoluzioni dell’ Assemblea Generale come la n.  1378 e n. 2734 considerano il completo disarmo come obiettivo ultimo della società internazionale  e numerose conferenze  e convenzioni internazionali  lo  dichiarano apertamente ; tra esse il  NPT  del  1968, la Denuclearizzazione delle profondità marine del 1971, il Divieto degli esperimenti nucleari nella stratosfera  del 1963, Il Divieto dell’ utilizzo di armi chimiche del 1996, il divieto competo di esperimenti nuclerai dl 1996 ( New York) e il Controlo delle armi batteriologiche del 1993.

Gli Stati Uniti e alcuni Paesi detentori di armi nucleari anche in questi casi hanno adottato un doppio standard . Nel caso del Trattato di Non Proliferazione vi sono 3  obiettivi  fondamentali  ovvero il Disarmo, la non proliferazione e l’ acquisizione di tecnologie pacifiche e civili. Le potenze nucleari in pratica non hanno perseguito in modo equilibrato questi obiettivi e contravenendo agli articoli 3 e 4 del Trattato  resistono allo sviluppo delle tecnologie nucleari nei paesi in via di sviluppo. Questo atteggiamento  discriminatorio  dei paesi detentori di armi nucleari nei primi anni dopo la firma del TNP suscitò forti proteste da parte dei paesi non nucleari, tant’è che nella prima conferenza del Trattato nel 1975 vi furono formali proteste al riguardo.  La creazione di zone libere da armi nucleari in alcuni punti critici del mondo e la stipula di alcuni patti regionali e bilaterali  sono da considerarsi tra le iniziative atte al controllo e al disarmo  a livello regionale. Alcune risoluzioni dell’ Assemblea Generale dell’ ONU raccomandano fermamente  la creazione di zone libere  da armi nucleari in medio Oriente, Africa, Asia del Sud , Oceano Indiano e  nel Sud Pacifico. A questo proposito su  incoraggiamento delle Nazioni Unite e grazie alle partecipazioni regionali le zone libere da armi nucleari sono state create nel 1967 nell’ ambito del Trattato Tlateolco per  paesi dell’ America Latina e i Caraibi, nel 1985 nell’ ambito del Tratttao Rarotonga nei 13 paesi del Sud Pacifico, nel 1995 nell’ ambito del Trattato di Bangkok per 10 Paesi del Sud Est asiatico e nel 1996 nel quadro del Trattato Pelindaba per 45 paesi africani. Tuttavia purtoppo l’ ambiguità americana   e l’ approccio  discriminatorio con il Medio Oriente non ha permesso alla Comunità internazionale fino ad oggi di realizzare  l’ obiettivo del disarmo in forma completa . Gli Stati Uniti d’ America si sono spinti  al punto  di ostacolare palesemente  lo svolgimento delle conferenze internazionali  sul disarmo  e il divieto di armi nucleari in Medio Oriente  ( dichiarazioni di Victoria Noland, Portavoce del Dipartimento di Stato USA in merito alla Conferenza di Elsinki ) in aperto  contrasto con il TNP. Suscita altrettanta perplessità l’ atteggiamento americano nei trattati bilaterali  relativi al disarmo come la mancata collaborazione  nei Trattati Start 2 e Salt 2 – Strategic Arms’ Limitation Talks. Purtroppo gli USA e l’ Occidente in generale  hanno favorito  e mai impedito la diffusione , sia orizzontale che verticale , di questo tipo di armamenti , mentre è evidente che la loro  produzione, stoccaggio e sviluppo costituisce una minaccia seria e un crimine di guerra , premessa per un illecito internazionale.

 

 

Medio Oriente : esempio evidente di imposizione dei doppi standard

In base alle numerose risoluzioni del Consiglio di Sicurezza tra cui la 487 del 1981, la 687 del 1991, nonchè decine di risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu e considerando le realtà della regione, rendono  la creazione del Medio Oriente priva delle armi nucleari come una seria e inderogabile necessità. Queste realtà sono da mettere in relazione con il regime sionista  e la sua mancanza  di rispetto nei confronti degli impegni internazionali e dei principi umanitari. Il TNP conta 189 membri e sono pochi i paesi che non ne fanno parte. Il regime sionista nella regione medioorientale è l’ unico governo che non ha aderito al Trattato  nè rispetta gli obblighi dell’ AIEA, nè ha mai smentito  di essere in possesso di armi nucleari. In base ad una relazione  redatta da esperti ONU del 1982 questo regime dal 1969 ad oggi non ha permesso nessuna ispezione esterna al  sito di Mona; secondo la rivista britannica  Jane’s Defence, Israele è il sesto paese detentore di armi nucleari con un numero tra 100 e 300 testate nucleari, quasi come la Gran Bretagna,  e numerose piattaforme di lancio per missili  a lunga gittata. Mordechai Vanunu esperto nucleare israeliano aveva reso noto tutto ciò e le autorità del regime sionista non smentirono mai le sue dichiarazioni.

Il vasto uso del regime sionista  di armi proibite nei conflitti  nella Striscia di Gaza  contro una popolazione civile e i suoi atteggiamenti disumani e violenti in altri episodi conflittuali degli ultimi anni che hanno suscitato ripetute condanne nella comunità internazionale,  hanno trasformato  le minacce israeliane contro alcuni paesi della regione tra cui l’ Iran , e il rischio di un conflitto nucleare , da potenziali a concretamente  esistenti. La R. I. dell’ Iran dal 1974 ad oggi  in tutti i forum e organismi internazionali  ha incessantemente proposto la creazione di un Medio Oriente privo di ari nucleari. L’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite dal 1994 al 2012  attraverso diverse risoluzioni  ha chiesto ad Israele di aderire al TNP  e di rispettarne lo Statuto e i princip. La stessa  AIEA dal 1987 al 1991, nel 2009  e nel 2011 ha ripetutamente chiesto ad Israele  di aderire al Trattato ed il Segretario Amanu in una lettera inviata ai membri dell’ Agenzia , ha chiesto  ai paesi membri di  incoraggiare  Israele in questo senso.

Come si può notare , un Medio Oriente  denuclearizzato, Il disarmo di Israele e la sua adesione al TNP sono richieste serie  della Società internazionale. Cionostante gli USA e i suoi alleatinon solo vengono meno al proprio dovere a questo proposito ma addirittura  si oppongono a queste richieste  , come testimonia l’ opposizione allo svolgimento della Conference di Elsinki nel dicembre del 2012.  Gli Stati Uniti inoltre , contravvenendo ai regolamenti  internazionali e ignorando le complessità  di  una regione cosi critica, nonostante l’ embargo internazionale  di armamenti,  rende disponibile  ogni anno al regime israeliano milioni di dollari in aiuti militari  e tecnologia nucleare.Il governo americano , nonostante la crisi economica , ha continuato a offrire aiuti militari per oltre 3 miliardi di dollari annui al regime sionista ( Discorso Obama all’ Aipac 4-3-12) . Anche nell’ ambito della NATO sono stati forniti  notevoli aiuti militari e materiali nucleari  ad Israele. Questi sono esempi evidenti della violazione del TNP , che negli articoli 1 e 3 vieta ai paesi militarmente nucleari di trasferire la tecnologia nucleare militare o armi nucleari  verso  altri Paesi.

Questo atteggiamento contradditorio  degli USA e dei loro alleati  suscita grande  perplessità nell’ opinione pubblica mondiale che ormai lo considera un tentativo di ostacolare , creando ambiguità, la realizzazione  dei naturali diritti per i Paesi in via di sviluppo ( Ayatollah Khamenei, la Guida della R. I. dell’ Iran , 1° Conferenza sul Disarmo e la Non Proliferazione , Teheran, 17-4-10).

 

 

Proposte                                     

Infine va ricordato che la garanzia della pace e della sicurezza internazionali richiede lo sforzo condiviso  della Comunità Internazionale, scevro dall’ imposizione di doppi standard. La R. I. dell’ Iran ha suggerito varie soluzioni in tema di disarmo , volte ad evitare  l’ indebolimento del TNP, come auspicato dalla Comunità internazionale.  Tra le proposte iraniane possiamo annoverare

  • la definizione di una tabella di marcia  che scadenzi  il disarmo totale  e che preveda le opportune verifiche;
  • l’ istituzione di una commissione d’ inchiesta  in seno all’ AIEA per determinare  quali Paesi forniscono  armi   e tecnologie nucleari  al regime sionista  o ad altri paesi non membri dell’ Agenzia;
  • l’ astensione dei Paesi membri  del TNP dalla collaborazione  con i paesi non membri  al fine di incoraggiare questi ultimi ad aderire al Trattato;
  • evitare il ricorso a minacce e pressioni  nel corso dei negoziati;
  • considerare il Trattato  nella sua integrità evitando un approccio parziale e selettivo;
  • introdurre correzioni  efficaci  nei punti di debolezza del Trattato  , come ad es. l’ inserimento  di precisi vincoli  per i Paesi militarmente nucleari o la salvaguardia  del diritto  di avvalersi  della tecnologia nucleare civile;
  • salvaguardare l’ indipendenza  e il prestigio dell’ Agenzia , adottando  meccanismi tali da impedire  ai paesi  nucleari o ad organismi politici  di  condizionarne le decisioni;
  • accettare la  comune responsabilità e concretizzarla in azioni pratiche
  • eliminare le armi nucleari  dalla dottrina di difesa  dei paesi militarmente nucleari  e rimuovere  questo tipo di armamenti  dai paesi non nucleari;
  • concedere garanzie  ai Paesi non nucleari fino al raggiungimento del completo disarmo, attraverso negoziati   che portino alla sigla  di un Accordo internazionale vincolante , dotato di un efficace meccanismo di verifica.
  • Perseguire gli accordi  siglati nella dichiarazione finale della Conferenza AIEA del 2000 sul Diritto irrinunciabile di tutti i Paesi per l’ utilizzo pacifico di questa energia;
  • Cambiare il  meccanismo del bilancio nelle collaborazioni tecniche dell’ Agenzia  per l’uso pacifico della tecnologia nucleare da un contributo volontario ad uno obbligatorio con la definizione del contributo dovuto per ciascun paese;
  • mpiegare ogni sforzo  al  fine di  estendere il TNP a tutti  paesi del mondo;
  • Imporre una sorveglianza costante e vincolante dell’ Agenzia  nei confronti dei siti  nucleari del regime sionista;
  • Apportare alcune modifiche strutturali  nell’ AIEA e nel suo Statuto ( cambiare il numero dei membri , il numero dei seggi del Consiglio dei Governatori o il meccanismo di elezione  del Direttore Generale ) per rendere accessibile un maggior numero di paesi nei meccanismi decisionali;
  • Abbandono  dell’ imposizione di doppi standard che in questo momento penalizzano un paese membro  come l’ Iran , che fatica  nel l’ ottenere il riconoscimento  dei diritti sanciti dal Trattato e premia paesi che non solo non sono membri del TNP, ma che si sono resi colpevoli di crimini gravissimi.

 

 

Conclusioni

I doppi standard  americani applicati anche da alcuni paesi dotati di armamenti nucleari nei confronti del programma nucleare iraniano sono stati intrapresi   in vari ambiti: temporale, geografico e concettuale, infatti sono stati adottati  approcci diversi verso il programma nucleare iraniano rispetto al periodo precedente e successivo alla Rivoluzione islamica, atteggiamenti discriminatori nei confronti  del programma nucleare di paesi  diversi della stessa regione geografica, laddove gli americani invece di facilitare l’ acquisizione di tecnologia civile da parte dell’ Iran, paese membro del Trattato, hanno fornito facilitazioni  a paesi non membri;  infine un doppio standard  è stato applicato anche nella applicazione   del Trattato di Non Proliferazione: alcuni aspetti sono stati evidenziati  e valorizzati mentre altri quasi del tutto ignorati, e questo in base alle convenienze del momento e ad interessi di parte.

La chiave fondamentale per la soluzione  della questione nucleare iraniana quindi  appare essere  l’ intraprendere nuove iniziative  all’ insegna della collaborazione e condivisione , che  si sostituiscano alle pressioni, minacce e doppi standard che finora hanno caratterizzato la storia di questa  vicenda. Sarebbe auspicabile infine e soprattutto che il disarmo nella regione medio orientale e totale  nel mondo,  venga considerato  tra le priorità assolute della comunità internazionale .

 

 

S.E. Seyed Mohammad Ali Hosseini, Ambasciatore della Repubblica Islamica d’Iran in Italia.

LA SCACCHIERA DEL GRANDE GIOCO. LE CONTINUITÀ GEOPOLITICHE CHE CARATTERIZZANO L’ASIA CENTRALE

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La scomparsa dell’URSS nel 1991 ha costituito uno dei più importanti mutamenti geopolitici dell’ultimo secolo a livello mondiale. L’implosione dell’Unione Sovietica e il consecutivo ritirarsi del mantello del suo “impero” hanno scoperto una serie di aree geografiche che sono tornate a rivestire l’importanza strategica che già detenevano prima di cadere definitivamente sotto il controllo di Pietrogrado e di Mosca.

In bilico tra instabilità, dipendenza dalla Federazione Russa e ricerca di interlocutori strategici extraregionali, i Paesi nati in queste aree sono oggi teatro del confronto tra l’unica superpotenza mondiale e le emergenti potenze regionali che, nel promuovere un’evoluzione in senso multipolare del contesto internazionale, contendono agli Stati Uniti l’egemonia in Eurasia.

L’Asia Centrale è di certo la regione più estesa tra quelle interessate da questo fenomeno e, insieme alla Regione Caucasica, quella in cui è più evidente. L’intera area è oggetto della competizione tra Federazione Russa, Stati Uniti, Cina ed Unione Europea, competizione nella quale i governi locali assumono un ruolo progressivamente più attivo per mezzo di politiche multivettoriali. Questo contesto è spesso stato messo in relazione con il confronto, noto come Grande Gioco, che oppose, durante tutto il XIX secolo, l’Impero Russo all’Impero Britannico nel tentativo di espandere la propria influenza sull’area prima e a discapito del diretto concorrente.

L’importanza della regione è stata efficacemente sottolineata già all’inizio del XX secolo dal geografo inglese Halford Mackinder. Egli sosteneva che questa regione costituisse la chiave per il dominio del mondo intero. La tesi di Mackinder si basava sulla contrapposizione tra terra e mare, il controllo dell’Asia Centrale avrebbe garantito la supremazia alla potenza continentale (nell’Ottocento l’Impero Russo) contro la potenza navale (l’Impero Britannico in passato e oggi gli Stati Uniti). Mackinder potrebbe aver sovrastimato l’essenzialità dell’area, volendo con la sua teoria spingere il governo di Londra ad investire maggiormente sul potenziamento dell’esercito in vista di una possibile alleanza tra l’Impero Tedesco e quello Russo.

Nonostante questo, l’Asia Centrale ha caratteristiche geografiche dalla chiara e significativa connotazione strategica che, sebbene abbiano subito alcuni mutamenti a livello formale, mantengono tutta la loro sostanziale rilevanza. Queste caratteristiche permanenti sono la posizione, la morfologia e le risorse naturali.

L’Asia Centrale è incastonata nel cuore del continente eurasiatico e ciò ne fa, ieri come oggi, un ponte naturale tra le regioni politiche che lo compongono. Nell’Ottocento si trattava di una vasta terra di nessuno, sconosciuta e remota, sede di bellicose popolazioni e fragili strutture di governo; essa divideva i territori asiatici dell’Impero Russo, dall’India Britannica, dalla Persia e dall’Impero Cinese. Oggi, a seguito della caduta dei grandi imperi coloniali, del processo di decolonizzazione e di disgregazione del blocco sovietico, l’Asia Centrale si trova a costituire una cerniera fra la Federazione Russa, i Paesi del Medio Oriente, quelli del Subcontinente Indiano e la Cina.

L’elemento di centralità si lega profondamente con l’aspetto morfologico del territorio. La Steppa domina la quasi totalità dell’area tanto che ciò ha permesso a questa regione di essere da sempre attraversata sia da rotte commerciali che da direttrici d’attacco. Le ferrovie ed i condotti per il trasporto di petrolio e gas hanno sostituito le carovane della Via della Seta, così come l’assertività della politica estera russa, la politica di approvvigionamento energetico cinese e la presenza delle basi militari statunitensi, hanno sostituito l’espansionismo russo alla ricerca di sbocchi sui mari caldi, la proiezione dell’Impero Cinese ad Est e l’influenza britannica proveniente da Sud.

Le risorse naturali sono un terzo fattore permanente che conferma alcuni elementi di continuità tra il Grande Gioco e la situazione odierna dell’Asia Centrale. La regione è da sempre ricca di risorse naturali: piantagioni di cotone, miniere d’oro, argento, rame, zinco, piombo, minerali di ferro e carbone. Nella seconda metà del XIX secolo l’Impero Russo e quello Britannico erano determinati ad impossessarsene. Nel nuovo Grande Gioco, invece, sono gli idrocarburi a far gola ai “giocatori”. L’area nel suo complesso possiede risorse petrolifere stimate intorno ai 33,4 miliardi di barili1. Ancora più rilevanti sono i giacimenti di gas naturale, le cui riserve ammonterebbero a 28,1 trilioni di metri cubi2. Questi dati fanno però riferimento alle sole fonti accertate, resta da capire quanto sia rilevante il potenziale energetico della regione. Stime, peraltro spesso contraddittorie, descrivono un potenziale petrolifero pari a quello dell’Arabia Saudita e un ammontare pari al doppio del livello attuale per le riserve di gas.

Anche dal punto di vista dei fattori variabili, come popolazione ed istituzioni, possono essere evidenziati elementi di continuità. Una conseguenza diretta dell’essere da sempre al centro di flussi migratori è l’incredibile mescolanza di etnie, religioni e culture. Contraddistinta dal binomio contrastivo tra popolazioni sedentarie e nomadi, nel corso della storia la regione mantenne un assetto semitribale o feudale in cui i clan costituivano il principale fondamento sociale e politico. Anche oggi l’area presenta una notevole complessità nella distribuzione etnica, tanto da suggerire allo stratega statunitense Zbigniew Brzezinski una similitudine con la regione balcanica.

In passato la cronica fragilità della gran parte dei governi dell’Asia Centrale contribuiva ad aumentarne il rischio di instabilità. Tradizionalmente autoritari, i governi locali ebbero sempre difficoltà ad estendere il proprio potere sull’intero territorio e ad imporsi sulle dinamiche tribali e dei clan. Quando i primi esploratori russi e inglesi si avventurarono nella regione, i principali centri politici erano l’Emirato di Bukhara, il Khanato di Kokand e il Khanato di Khiva. Impossibilitati a comprenderne i meccanismi tribali così lontani dalle concezioni degli Stati moderni europei, gli strateghi dell’Impero Russo optarono per il progressivo smembramento di queste realtà e per una occupazione territoriale diretta.

Dal 1991 l’Asia Centrale è tornata ad essere formalmente libera dal controllo russo come lo era all’inizio del Grande Gioco, ma instabilità latente e autoritarismo sembrano essere elementi con cui i governi delle cinque repubbliche indipendenti devono ancora relazionarsi. Dotati di assetti costituzionali che garantiscono all’esecutivo vaste prerogative, i governi delle repubbliche dell’Asia Centrale faticano ad assicurare la cooperazione interetnica e un completo controllo del territorio3. Tuttavia di recente, alcuni governi locali, consapevoli di dover modernizzare l’impianto statale rendendolo appetibile agli investitori stranieri, stanno progressivamente adottando riforme in tal senso, secondo tempi e velocità tipici di ciascuno di essi. Il presidente kazako Nursultan Nazarbaev, ad esempio, si è fatto promotore di alcune importanti riforme tese a garantire maggiore trasparenza e a combattere la corruzione, ma non solo: lo stesso Turkmenistan sta lentamente risollevandosi dall’esasperato personalismo del regime di Saparmurat Nyyazow, da quando il presidente in carica Gurbanguly Berdimuhammedow, infatti, ha adottato un programma di ammodernamento del sistema scolastico, sanitario e pensionistico.

Le relazioni interregionali costituiscono un ulteriore fattore variabile che presenta alcune continuità con il passato. Nonostante non vi sia tra le repubbliche dell’Asia Centrale un antagonismo paragonabile a quello che dominava le relazioni tra le città di Bukhara, Kokand e Khiva, e molto più numerosi siano i settori in cui una collaborazione interregionale risulterebbe assai utile (dalle infrastrutture per la gestione idrica e delle risorse energetiche, alla cooperazione etnica e alla lotta contro il traffico di stupefacenti), alcune rivalità rallentano tutt’oggi un processo di integrazione regionale che potrebbe da un lato aiutare a stabilizzare l’area e dall’altro incrementare l’autorevolezza di ciascuno Stato nella competizione con gli attori extraregionali. Sebbene infatti, a partire dal 1991, i Paesi dell’Asia Centrale abbiano aderito alle organizzazioni istituite dalle repubbliche dell’ex Unione Sovietica (CSI, CSTO e EurAsEC) e siano stati tra i fondatori dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, essi sembrano ancora restii a voler cedere porzioni importanti della propria sovranità nazionale. La neutralità positiva del Turkmenistan e le reticenze uzbeke4 hanno inoltre privato l’intera area del peso specifico che questi Paesi detengono. Il rischio è che queste organizzazioni si trasformino, quindi, in strumenti in mano alle principali potenze mondiali per contendersi l’influenza sulla regione e che si rivelino di fatto incapaci di raggiungere quegli importanti obiettivi di integrazione economica e politica che si pongono.

Dalla seconda metà del XIX secolo alla partita che si svolge oggi, la scacchiera dell’Asia Centrale è rimasta simile a quella che era: un crocevia di culture, commerci ed eserciti, un complesso mosaico etnico e una terra ricca di risorse naturali. Nonostante ciò sono intervenuti alcuni mutamenti. Alcune aree dell’Asia Centrale sono state caratterizzate da un processo di modernizzazione infrastrutturale che ha costituito il volano dello sviluppo economico. Già sotto l’Impero Russo fu costruita la prima rete di ferrovie della regione, le infrastrutture vennero poi incrementante nel periodo sovietico, soprattutto nel settore energetico. Oggi, in parte per sopperire all’architettura infrastrutturale sovietica, che seguiva logiche accentratrici, gli Stati della regione sono impegnati a dotarsi di nuovi impianti per l’estrazione ed il trasporto degli idrocarburi, nonché per la gestione idrica. Tali mutamenti in ambito infrastrutturale ed economico non devono essere considerati una cesura con il passato, al contrario essi costituiscono degli elementi che rafforzano la storica importanza geopolitica della regione, valorizzandone il centralismo ed il potenziale in risorse naturali.

Se quindi da un punto di vista del “campo da gioco” può essere semplice fare un paragone tra il Grande Gioco del passato e quello contemporaneo, resta da capire se esistano elementi tali da giustificare definitivamente tale raffronto anche al livello dei “giocatori” e dei “pezzi”. Al giorno d’oggi nuovi attori stanno intervenendo nella regione, in primis gli Stati Uniti e le organizzazioni internazionali, mentre “vecchi” attori, come la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese, hanno subito profondi mutamenti, così come sono cambiati gli obiettivi da essi perseguiti ed i mezzi per raggiungerli.

Infine anche il contesto internazionale nel quale la partita si svolge è profondamente cambiato. Il sistema multipolare europeo ha lasciato il passo, dopo una fase bipolare, ad un sistema dominato da una sola superpotenza effettivamente globale. Tuttavia questo unipolarismo non è più assoluto, se non in termini militari. Si stanno delineando infatti nuovi centri di un ordine multipolare sul piano economico, culturale e demografico. Il Grande Gioco ottocentesco si concluse agli inizi del XX secolo quando la scacchiera asiatica e le sue tensioni vennero messe da parte a causa del precipitare della situazione in Europa. Comprendere quindi come l’intero scacchiere mondiale influenzerà o sarà influenzato dalla particolare partita centrasiatica acquisisce oggi un’importanza decisiva.

 

 

 

 

NOTE:

 

1. BP, Statistical Review of World Energy June 2012, London, 2012, pp. 6-8 e 20-22, http://www.bp.com.

2. Ivi

3. Tensioni interetniche hanno colpito soprattutto il Kirghizistan, nel giugno 2010 nella città di Osh si registrarono violenze tra kirghisi e la minoranza uzbeka. Sintomatico delle difficoltà nell’esercitare un controllo completo sul territorio è il flusso di droga che attraversa la regione.

4. L’Uzbekistan entrerà nel CSTO nel 1994 per poi uscirne nel 2012, così come sospese la sua membership nell’EurAsEC nel 2008, due anni dopo il suo ingresso.

CROAZIA E SOUTH STREAM: UN ACCORDO STRATEGICO?

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Appena rieletto il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin aveva richiesto ai vertici di Gazprom ed al proprio Governo che si affrettassero i tempi nell’approntare un piano dettagliato per dare inizio ai lavori di costruzione del gasdotto South Stream, previsti per la fine del 2013, già a partire da dicembre 2012[1]. Stando agli analisti, tale pressione rispondeva a due ordini di esigenze politico-strategiche: il primo era quello di assestare un “colpo da guerra fredda” al progetto Nabucco appoggiato da UE e Stati Uniti allo scopo di presentarlo “perdente” in partenza nel gioco a somma zero dei gasdotti nel sudest europeo; il secondo, più plausibile e confermato dalle parole di Alexei Miller[2], numero uno di Gazprom, era quello di riuscire ad “aggirare” l’entrata in vigore (marzo 2013) delle limitazioni contenute nel Terzo Pacchetto sull’Energia varato dalla UE presentando gli accordi raggiunti con i vari Paesi come un fatti compiuti che si ponessero al di sopra delle regole comunitarie in quanto relativi a progetti infrastrutturali nazionali di importanza strategica. I funzionari di Gazprom hanno intavolato trattative serrate con i Paesi che avrebbero dovuto ospitare il transito del gasdotto che hanno portato nei mesi di ottobre e di novembre 2012 a una tutta una seriedi accordi con Serbia (29 ottobre), Slovenia (14 novembre), Ungheria (13 novembre) e Bulgaria (15 novembre). Nel dicembre del 2011 era stato raggiunto l’accordo con la Turchia per il passaggio nelle acque territoriali turche del Mar Nero del tratto offshore di South Stream. Il 7 dicembre 2012 con una cerimonia tenutasi ad Anapa, città russa e antica colonia genovese che si affaccia sul Mar Nero, con la simbolica saldatura di due tubi è stata lanciata la costruzione del gasdotto che porterà il gas russo sino a Tarvisio, in Italia[3]: “oggi stiamo partecipando ad un evento importante, un evento importante non solo per l’energia russa ma anche per il settore dell’energia europeo”[4]. Per il Cremlino il South Stream rappresenta la pietra angolare della strategie di diversificazione delle rotte energetiche volte ad approvvigionare i mercati europei bypassando il transito per l’Ucraina. A Bruxelles sono di tutt’altro avviso: Guenther Oettinger, Commissario europeo per l’energia, ha rigettato l’invito a partecipare alla cerimonia, bollato il South Stream come un “progetto fantasma” e ribadito che nessuna concessione verrà permessa a Gazprom sulle disposizioni del Terzo Pacchetto Energia, che prevede, tra le altre cose, la separazione tra distribuzione e produzione del gas.

Al progetto parteciperà anche la Croazia che, seppur rimasta fuori dal percorso principale, ospiterà un braccio secondario di South Stream capace di soddisfare l’aumento di domanda interna di gas naturale. La partecipazione di Zagabria al progetto russo è la dimostrazione di come le priorità europee e gli interessi nazionali non sempre collimino soprattutto quando un Paese come la Croazia sviluppa una proprio visione strategica volta ad assurgere a ruolo di terminale strategico regionale.

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Illustrazione 1: Il percorso principale del gasdotto South Stream con le relative diramazioni e le joint venture che gestiranno la costruzione dei vari tratti nazionali

 

 

I governi croati e la politica energetica

Con un referendum tenutosi il 22 gennaio 2012 i croati hanno deciso di entrare in Europa: nel luglio del 2013, salvo imprevisti, la Croazia sarà il 28^ Paese dell’Unione Europea.[5] L’ingresso nella comunità europea comporterà per Zagabria una serie di obblighi relativi all’armonizzazione forzata della disciplina nazionale del settore energetico con le direttive comunitarie. In questa materia, i Governi che si sono succeduti alla guida del Paese si sono mossi ora in ossequio dei dettami di Bruxelles ora cercando di fare in modo che la Croazia assumesse un ruolo da protagonista strategico nella regione: le tappe relative al coinvolgimento della Croazia in South Stream, fatte di avvicinamenti, perdite di terreno e tentennamenti nei momenti cruciali testimoniano questo procedere incerto tra priorità comunitarie e priorità nazionali. Sotto la guida della premier Jodranka Josor, leader dell’Unione Democratica (HDZ) di ispirazione europeista, nel marzo 2010 la Croazia firmò un memorandum di intesa orientato alla compartecipazione di Zagabria alla realizzazione di South Stream ma in seguito, preferendo non complicare il cammino verso l’ingresso nella UE, puntò sul perseguimento di  una sostanziale indipendenza dalle forniture russe, limitando la quantità importata da Mosca a soli 1,2 miliardi di metri cubi annui, stipulando importanti accordi di fornitura con l’italiana ENI e l’ungherese MOL e, di fatto, astenendosi dal realizzare alcun passo concreto in relazione al gasdotto “ortodosso”. Le elezioni parlamentari del 4 dicembre 2011 segnano un turning point per la Croazia: a vincere è la coalizione guidata dai socialdemocratici di Milanovic che conquistano 80 dei 151 seggi di cui si compone il Parlamento croato. Il rovesciamento dei rapporti di forze politiche ha portato con sé un cambio di passo nelle strategie energetiche di Zagabria. Il ministro dell’economia ha reso noto il rifiuto opposto dall’ex Primo Ministro Jadranka Kosor all’offerta di Gazprom per la costruzione di una “strada principale” di South Stream di 270 km e come il nuovo Governo avesse tutte le intenzioni di riaprire la questione[6]. Viste le difficoltà nel trovare l’accordo con l’Ungheria, nell’agosto del 2012 Gazprom fece pressioni sulla Croazia volte al raggiungimento di accordo per il transito del gasdotto attraverso il Paese e, nonostante l’opposizione dell’Unione Europea, Zagabria si dichiarò disponibile a concordare una compartecipazione.[7] Nel novembre del 2012, alla diffusione della notizia che la Croazia era stata esclusa dal percorso principale del gasdotto, il Presidente della Repubblica croata, il socialdemocratico Ivo Josipovic, non ha mascherato il proprio disappunto e non ha risparmiato critiche ai Governi che avevano gestito la questione: “è tempo che la Croazia si chieda cosa ha sbagliato. Negli anni precedenti abbiamo avuto diverse volte una posizione sbagliata e debole nei confronti degli investitori russi e questo è certamente il prezzo che ci ritroviamo a pagare”. Josipovic ha poi denunciato la mancanza di una politica energetica nazionale esprimendo, al contempo, l’auspicio che il mancato transito di South Stream sul territorio croato e la conseguente perdita di ingenti somme derivanti dalle tasse di transito, portassero i vertici politici-economici del Paese a pensare in modo strategico. L’invito presidenziale è stato raccolto dal Governo socialdemocratico di Milanovic che ha elaborato una politica energetica che prevede una più stretta collaborazione con la Russia di Putin; Mosca gioca un ruolo efficiente nei Balcani occidentali grazie alla capacità di trattare singolarmente con i vari Stati della regione sulla base di proposte di investimento nel settore dell’energia, collaborazioni per lo sviluppo di politiche di GreenEconomy o attraverso un ruolo in progetti infrastrutturali volti a creare una interdipendenza con il Cremlino: la politica di acquisizione di assets nazionali e di costituzione di joint venture con i Paesi clienti è funzionale a diminuire il livello di dipendenza infrastrutturale che lega la Federazione Russa agli Stati interessati dal transito del gas e del petrolio. Questo vale anche per la Croazia il cui mercato energetico è di modeste dimensioni ma che, come vedremo più avanti, riveste un’importanza strategica nella distribuzione dei prodotti energetici in virtù della propria posizione e delle proprie infrastrutture.

Nel contesto europeo che si sta profilando i Balcani sembrano poter aspirare solamente ad una posizione di “periferia ossequiosa” delle linee politiche di Bruxelles a scapito dei propri interessi nazionali, perciò la Croazia cerca di ritagliarsi un ruolo strategico di primo piano. Il cambio di rotta in materia di politica energetica stimolato in primis dal Presidente Josipovic ed elaborato dal Governo Milanovic ha trovato la sua concreta applicazione durante la missione a Mosca del Ministro dell’Economia (e vice Primo Ministro) Radimir Cacic (25-26 marzo 2012): in questa occasione, parlando al Governo e alle compagnie di investimento russe, Cacic ha esposto una serie di iniziative volute da Zagabria per rilanciare la collaborazione con Mosca[8]. Il primo punto prevedeva il passaggio del gasdotto South Stream su territorio croato: Zagabria, per bocca del suo Ministro per l’economia, si dichiarava pronta ad ospitare una sezione di transito della pipeline ma si sarebbe anche accontentata della costruzione di una ramificazione che collegasse la Croazia al percorso principale passante per la Serbia. Saltata la prima opzione dopo il sopraggiunto accordo con l’Ungheria per il transito del percorso principale, Zagabria ha puntato sull’opzione second best: il 17 gennaio scorso, il vicepresidente Medvedev per Gazprom e Antunovic per Plinacro, operatore croato del gas, hanno firmato un accordo che comprende l’interconnessione della rete di distribuzione croata con il South Stream tramite la costruzione di un tratto secondario del gasdotto lungo circa 100 km che unirà Sotin, in Serbia, a Slobodnica, in Croazia. In base all’accordo, le due compagnie costituiranno entro il prossimo mese di Luglio una joint venture di scopo alla realizzazione del tratto in questione (i lavori inizieranno nel luglio del 2015 e termineranno nel dicembre 2013) il cui costo è stato stimato in 60 milioni di euro e che trasporterà poco meno di tre milioni di metri cubi di gas russo in Croazia. Il Governo croato avrebbe comunque avuto accesso al gas di Gazprom in virtù degli accordi di fornitura stipulati con ENI e MOL ma ha voluto mettersi al riparo da eventuali fluttuazioni del prezzo del gas tramite un accordo diretto con il colosso Gazprom: il calo del prezzo per la fornitura va a tutto vantaggio dei croati, permettendo loro di perseguire una politica di sicurezza energetica[9] efficace. Anche se in Croazia è il petrolio (che arriva da Russia e dai Paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo) a giocare un ruolo principale rispetto al gas e la produzione interna di energia ottenuta per mezzo di centrali idroelettriche e a carbone riesce a soddisfare buona parte del fabbisogno energetico nazionale, le tendenze di medio e lungo periodo evidenziano come stia aumentando la dipendenza dalle importazioni di gas e petrolio: se, adesso, i livelli di dipendenza sono relativamente bassi rispetto agli altri Paesi balcanici in virtù della bassa intensità energetica e degli alti livelli di produzione, nel prossimo futuro la Croazia si troverà a fronteggiare una situazione in cui la produzione domestica declinerà a fronte di un aumento di domanda interna. Uno studio commissionato da Plinacro relativo al periodo 2010 – 2050 mette in evidenza come al momento le importazioni coprano il 50% del proprio fabbisogno energetico (50% petrolio, 25% gas) mentre nel 2030 questo valore salirà sino all’87%.  

 

 

La Croazia: mercato energetico modesto, paese strategico per la distribuzione.

Oltre a rispondere a necessità interne, la costituzione della joint venture per la costruzione del ramo croato di South Stream si inserisce a pieno titolo in quella che giornalisticamente è stata chiamata con enfasi “guerra del gas”. L’adesione croata al progetto South Stream va in rotta di collisione con la politica energetica comunitaria che cerca attraverso disposizioni, regolamenti e sviluppo di progetti alternativi di limitare la presenza della Federazione Russa sui mercati europei: la regolamentazione relativa all’unbundling contenuta nel Terzo Pacchetto dell’Energiaha, di fatto, alzato una sorta di “muro burocratico comunitario” nei confronti dei progetti infrastrutturali russi nei Paesi dell’Unione Europea. L’accordo di Zagabria con Gazprom è il palesarsi dell’esistenza di divergenze tra le priorità europee decise a Bruxelles e gli interessi nazionali dei vari Paesi: i Governi nazionali, infatti, preferiscono difendere le loro priorità in materia di sicurezza energetica rivendicando la possibilità di tenere in piedi vari progetti e di stipulare differenti accordi non curanti del fatto che queste scelte possano, talvolta, essere in contrasto tra loro. La Croazia “europea” si pone in scia di Paesi come Austria, Bulgaria e Ungheria che, in precedenza, pur avendo stretto rapporti (anche vincolanti) per la realizzazione di progetti di concezione europea come Nabucco non hanno rinunciato anche a concludere accordi di natura bilaterale con la Federazione Russa per il transito di South Stream sul loro territorio nazionale, consentendo al progetto di essere attuabile e realizzabile. Per Zagabria c’è di più: consapevole della propria posizione strategica e dell’importanza delle proprie infrastrutture, il Governo croato non ha abbandonato ma bensì rilanciato l’idea di trasformare la Croazia in un hub energetico regionale rendendo il Paese il possibile punto di distribuzione di gas e petrolio destinati ai mercati balcanici, mitteleuropei e mediterranei. Il ruolo di Zagabria è di fondamentale importanza nell’attuazione della politica di differenziazione delle forniture di gas varata da Bruxelles e nelle strategie politico-energetiche di Mosca. L’Unione Europea spinge per la costruzione di un rigassificatore di gas liquefatto (GNL) a Omisalj situato sulla punta settentrionale dell’Isola di Krk: il progetto infrastrutturale dovrebbe rifornire di gas i Paesi dell’Europa centrale (fortemente dipendenti dal gas russo) e collocarsi all’interno del più ampio Corridoio Nord-Sud, sistema voluto e sostenuto dai Paesi del Gruppo di Vysehrad  (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia). Questo sistema sarebbe capace di unire il Mar Baltico con il Mar Mediterraneo grazie ad una rete di gasdotti progettata per  la circolazione di gas naturale in un sistema energetico unificato, che permette agli Stati del centro Europa di diminuire la dipendenza dalle forniture di Gazprom[10]. La costruzione del rigassificatore croato rappresenterà il terminale Sud del corridoio dove il gas liquefatto, che arriva via mare da Qatar e Stati Uniti, verrà rigassificato e distribuito sulla terraferma[11].

L’oggetto del contendere russo – europeo sembra essere proprio l’isola di Krk e Omisalj, in particolare dal momento in cui dal terminale della piccola città croata si diramano attualmente le tubature che trasportano petrolio dalla costa adriatica sino al cuore dell’Europa. Nelle proposte presentate a Mosca durante la sua missione diplomatica, il Ministro economico Cacic aveva proposto la possibilità di invertire il tragitto della pipeline Adria – Druzhba che attualmente distribuisce il greggio da sud a nord, da Omisalj al centro Europa. L’inversione del tragitto, da sud a nord, porta con sé il conseguente blocco del libero accesso al petrolio non russo per la regione mitteleuropea mentre permetterebbe al greggio russo di aprirsi a nuovi mercati, europei e mondiali. La proposta del Ministro croato è stata rilanciata il 19 gennaio 2012, due giorni dopo l’accordo relativo a South Stream da Nikolaj Brunic, direttore generale della società petrolifera russa a proprietà statale Zarubeznjeft, che a Zagabria parlando ai giornalisti ha esposto il piano di investimenti da un miliardo di euro relativo al terminale di Omisalj dando concretezza alle parole di Alexei Miller. Il presidente di Gazprom, nel giorno della firma dell’accordo per South Stream, aveva dichiarato come la Croazia rivestisse un grande potenziale per la cooperazione nel settore energetico e che quello appena concluso non fosse altro che il passo iniziale di una serie di investimenti russi in Croazia: approntare una linea di transito che passando per Zagabria colleghi la cittadina di Slavonski Brod al terminale posto sull’isola di Krk; investire nelle capacità di movimentazione dell’oleodotto adriatico Janaf la cui capacità attuale è del 30% rispetto a quella potenziale di 35 milioni di tonnellate di greggio; impegnarsi con Janaf nelle ricerche di giacimenti petroliferi e metaniferi in Croazia[12].

A ribadire la volontà di rendere la Croazia un hub energetico regionale il Primo Ministro Milanovic aveva manifestato nel novembre del 2012 uno spiccato interesse per il Trans-Adriatic Pipeline (TAP), progetto ritenuto prioritario dall’Unione europea riguardante l’interconnessione di Grecia, Albania e Italia. Nell’ottica di Zagabria, il sostegno alla costruzione del gasdotto in questione faceva intravedere la possibilità di trasportare circa 5 miliardi di metri cubi di gas azero in Slovacchia prelevandolo dal nodo albanese del gasdotto e facendolo transitare sul territorio croato. Si trattava di un bluff politico di allora per costringere i russi a rivedere i piani relativi a South Stream o, invece, si trattava di una seria opzione per dotare di ulteriore pilastro la piena valorizzazione della posizione geografica della Croazia nel gioco dei gasdotti?




[1]   http://www.distribuzionecarburanti.it/articoli/gasdotto_south_stream_putin_ne_esige_l_inizio_ent.html


[2]   Parafrasando, per Gazprom è più conveniente lanciare ora il progetto, evitando le sanzioni europee contro pratiche monopolistiche. La Commissione europea il prossimo anno imporrà alcune delle condizioni del “Terzo Pacchetto Energia” Ue su iniziative del genere.


[3]   Il gasdotto originariamente prevedeva l’arrivo in Austria presso la stazione di distribuzione di Baumgarten,ma le pressioni di Bruxelles sul governo di Vienna hanno fatto sì che l’Austria rinunciasse all’accordo con Gazprom. Il gas russo, quindi, arriverà a Tarvisio in Italia passando per la Slovenia.
Nel progetto iniziale di South Stream era previsto anche una seconda diramazione passante per la Grecia e destinata all’Italia ma la stessa ENI ha fatto decadere la possibilità e dato priorità alla costruzione della dorsale balcanica adducendo motivazioni di sostenibilità economica della realizzazione del progetto.


[4]   Isabel Gorst, South Stream: cosnstruction start, Financial Times, 7 dicembre 2012.


[5]   La situazione non è del tutto definita: mancano ancora le ratifiche all’ingresso di quattro Paesi membri dell’Unione Europea tra cui la Germania; quella stessa Germania che nel 1991 fu il primo Stato a riconoscere l’indipendenza croata adesso temporeggia temendo di compiere con Zagabria lo stesso errore commesso con Romania e Bulgaria, Paesi che una volta integrati non sono stati capaci di rispettare gli standard richiesti da Bruxelles. Il Presidente del Parlamento Tedesco Norbert Lammert nel mese di ottobre aveva ribadito il concetto: “Proprio per le esperienze avute con Bulgaria e Romania va preso in seria considerazione l’ultimo rapporto della Commissione Europea sui progressi fatti dalla Croazia. È evidente, la Croazia non è ancora pronta per l’ingresso”. Il 9 febbraio scorso il Commissario UE per l’allargamento Stefan Fule si è dichiarato ottimista in vista del prossimo (e ultimo) esame della Commissione previsto per la seconda metà di marzo.


[6]   http://www.eurasiareview.com/23112012-south-stream-route-raises-questions-in-the-balkans/


[7]   In questa occasione scesero in campo anche i media croati che lanciarono una campagna pro South Stream mettendo in evidenza come l’accordo con il colosso russo per il transito sul territorio nazionale fosse la scelta più soddisfacente per le parti in causa sia in termini di costi sia in termini di riduzione del percorso.


[8]   Le proposte di Cacic e del Governo croato sono riassunte in questo articolo: Vladimir Socor, “Breakthrough of Putin’s energy empire” in Croatia?, Eurasia Daily Monitor, vol. 9, issue 64, 30 marzo 2012.


[9]   Per sicurezza energetica si intende la defizione che ne da l’Unione Europea nel Libro Verde. Una strategia europea per un’energia sostenibile, competitiva e sicura vale a dire una disponibilità di risorse e di energia a prezzi ragionevoli.  


[10] Il giorno 8 gennaio 2012, una settimana prima dell’accordo russo – croato per South Stream, l’UE ha aumentato a 134 milioni di euro la quota per favorire la costruzione del rigassificatore di Swinoujscie in Polonia, il terminale Nord del Corridoio Nord – Sud.


[11] La scelta europea era ricaduta in precedenza sui territori del Baltico e dell’Egeo ma a far decadere queste opzioni sono state rispettivamente il dominio russo sulle acque del nord e la mancanza di fondi per la realizzazione delle infrastrutture dovute alla crisi greca. A spuntarla è stata, quindi, l’opzione adriatica.


[12] http://ilpiccolo.gelocal.it/cronaca/2012/01/19/news/mosca-vuole-entrare-con-un-miliardo-nell-oleodotto-janaf-1.3085410

L’ALGERIA ALL’OMBRA DELLA “PRIMAVERA ARABA”

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Propaganda, sovversione e menzogne contro l’Algeria, che deve rimanere sotto il controllo dei predatori o, nel migliore dei casi, essere guidata da burattini. Chi può servire al meglio tra i suoi traditori? Quanti di loro, per frustrazione o vendetta, hanno scelto l’esilio criticando il proprio paese o servendo forze ostili, sotto l’etichetta di “oppositore”. Uno di loro all’estero, spinto dall’impotenza, arriva a dire “… per fortuna, il popolo algerino, grazie agli oppositori, sa che gli attuali leader della dittatura non sono algerini!” Niente di meno!

Questi servi, che si credono lungimiranti, arrivano a mentirci, dall’”estero”, su cose che viviamo qui. Avendo conosciuto, in maggioranza, il potere che li ha cacciati spesso per buone ragioni, si permettono di dettarci, con disprezzo, ciò che dobbiamo ricordare e fare. Capite: ”Ribellatevi!”, mentre costoro, con i loro seguaci, fanno affari. La vendetta brilla nei loro scritti che, più che altro, appaiono pieni di commenti sprezzanti, denigranti e di propositi spregevoli, piuttosto che di analisi obiettive!! Tutti sono uguali a se stessi nel strombazzare le tesi dei loro padroni. Il loro obiettivo rimane l’esercito e i suoi ufficiali, che sarebbero l’apice del male che ha frustrato le loro speranze di vendetta, non avendo strappato o mantenuto la sperata briciola di potere. In realtà, vogliono solo sostituirsi a questo potere, con l’aiuto di Stati noti per il loro passato immorale e il loro presente devastante, o da ricchi Stati lontani dai valori che sostengono di difendere. La realtà, in contrasto con la loro propaganda, è che oggi ci sentiamo assai meglio e più sicuri di quanto lo fummo durante il “decennio nero” di fuoco e sangue, dove molti dei nostri “amici” stranieri incoraggiarono il disordine. Non sentiamo una repressione tale da spingerci a fuggire o a ribellarsi. Far credere che viviamo in un “regime dittatoriale e repressivo” è una menzogna. La libertà è reale e gli effetti della crisi globale ‘sono ben sopportati’.

 

 

 

Il ‘ciclone’, sperato per l’Algeria, è già passato 24 anni fa

L’Algeria ha abbastanza ricchezze. I programmi di sviluppo e costruzione sono in pieno svolgimento. Lo Stato investe nei grandi progetti. Il piano quinquennale 2010/2014 ha stanziato circa 286 miliardi dollari di investimenti in tutti i settori. 130 miliardi dollari per il completamento dei vecchi progetti (ferrovie, strade, acquedotti…) e 156 miliardi dollari per i nuovi progetti. Vi sono  ancora carenze, il problema della disoccupazione, di questa corruzione maledetta che non si “basa  sul dogma” come si suol dire. Resta anche questa ingiustizia nell’accesso ad alcune professioni, la persistenza della burocrazia in alcuni settori, i dettami degli speculatori, la carenza della qualità dei servizi, in particolare nella sanità, assicurazioni sociali e, soprattutto, l’abuso di ufficio. Servono coerenza del sistema di governo e una migliore distribuzione delle ricchezze, ecc. Tuttavia, “l’avena del mio Paese è migliore del grano dall’estero”, dice un vecchio saggio. Riconosciamo che lo Stato ha saputo uscire dai torbidi, rafforzando le leggi e investendo nei grandi progetti, infrastrutture, edilizia popolare che resta ancora insufficiente rispetto alla capacità disponibile. Il ‘ciclone’, sperato per l’Algeria, è già passato 24 anni fa, quando abbiamo visto i mali dell’incompetenza, dell’interferenza e della falsità.

Naturalmente non tutto è perfetto, come ovunque nel mondo, ma credere che avrebbero fatto meglio se ne avessero il potere, è un inganno. Le cose diventano più sottili e difficili quando si tratta di potere, e a maggior ragione, quando si è sponsorizzati dall’estero, come si può notare in Egitto, Tunisia e Libia. “Disegnare sembra facile se ti guarda papà!” si dice. Nei cosiddetti Stati di “diritto”, non vi sono di questi difetti! Abbiamo visto tutti gli “scandali” sulle tangenti in cui alti funzionari di questi Paesi, di diritto, sarebbero coinvolti come in altri casi di corruzione e frode. Sappiamo dove portano, oggi, le loro teorie e ideologie. L’opposizione non è un “satellite” del potere come cercano di farci credere. La libertà di stampa e di critica sono reali, non agli “ordini” come si accusa intenzionalmente. La giustizia ha compiuto grandi sforzi. Conosciamo i nostri difetti e mancanze, le soluzioni richiedono pensiero, tattica, tempo e pazienza. Guardate invece come lavorano costantemente, per ingannare i nostri figli incoraggiandoli a ribellarsi e a realizzare le loro ambizioni sul “caos”; non si tratta di intelligenza o di politica, ma d’ipocrisia e di pettegolezzi.

 

 

 

Inganno!

Tutti questi “dissidenti all’estero” si spacciano per “antisionisti, anticolonialisti, ecc.”, peroranti gli interessi del popolo. L’impero colonialista e imperialista, hanno perfino detto, “difende la gente contro i suoi tiranni”, portando “libertà” e “democrazia”, come a palestinesi, libici, iracheni, afghani, ivoriani, somali, sudanesi, maliani e siriani. Inganno! L’impero è, nella sua essenza, un pericoloso predatore, anche si veste di stracci lodevoli. Osservate: nei loro scritti e dichiarazioni  sostengono la stessa linea della NATO e dei sionisti. Sostengono la politica del Marocco, il suo colonialismo nel Sahara occidentale, incolpando il governo algerino di difendere il popolo Sahrawi, così come la volontà del Marocco di aprire le frontiere, mentre ne è la causa della loro chiusura. Inoltre l’accusano di non essersi allineato con l’occidente contro le “dittature” in Libia e Siria. Per questo mettono tutte le istituzioni agli “ordini dei militari”, compresi partiti, associazioni e giornali. La loro dissociazione psichica viene attribuita al Presidente, agli ufficiali dell’esercito e alla giustizia. Sapendo che sono i pilastri della stabilità del Paese, si comprende bene quali siano le loro intenzioni.

In Libia hanno sostenuto gli “assassini” e il CNT, un gruppo di rinnegati (quasi tutti targati NED/CIA) che ha fatto appello alla NATO e al sostegno del sionista BHL. Oggi la Libia è insultata e lacerata, governata da una cricca di mafiosi dalle stravaganti ambizioni, dai vari tutori, composta da liberali, monarchici, islamisti vicini ai ”fratelli” jihadisti del Qatar e di al-Qaida, dove circolano oggi terroristi ed armi, e si stabiliscono reti d’intelligence dirette dall’estero. In Siria sostengono la cospirazione USA-arabo-sionista che si sforza di cambiare il regime della resistenza, che si oppone  agli islamo-fascisti occidentali, per imporre una cricca simile a quella libica, affiancata da un’orda eterogenea di assassini mercenari “arabo-musulmani”. Un “CNS di ausiliari di Istanbul”, fallito e rapidamente sostituito da un’”Alleanza di Doha” con gli stessi criminali! Dopo 24 mesi di aggressione, la feroce resistenza siriana sembra, alla luce degli sviluppi politici e soprattutto militari, dirigersi verso la loro sconfitta.

Sul Mali, tergiversano sulla posizione di principio dell’Algeria, volendo intrappolare il Paese cercando di comprometterlo e indebolirlo. E’ l’operazione libica, guidata dalla Francia, che è all’origine della militarizzazione del Mali. Come è possibile che la Francia, che ha sempre giocato sul separatismo e il ricatto tuareg, ora passi a difendere “l’integrità territoriale” del Paese giocando sulle etnie, le religioni e i locali spaventapasseri islamisti? Se la Francia vuole oggi finalmente ‘spezzare’ il terrorismo in Mali, mentre lo sostiene in Siria assieme al Qatar, sono affari suoi. L’Algeria, che vi ha avuto a che fare per anni, se ne occuperà da sola, e solo se si avventureranno a casa sua!

Questi ostaggi? Si tratta da una parte di umiliare e intrappolare l’Algeria nei suoi principi, per farla percepire debole e incosciente, e dall’altra, vista la scelta degli ostaggi stranieri, spingere i loro Paesi a fare pressione sull’Algeria per farla cedere. La velocità e la fermezza con cui è stata risolta questa vicenda degli ostaggi, ha sconcertato i congiuranti. Si deve capire che, nella visione algerina, l’infame ricatto sugli ostaggi è un atto che deve essere affronto annientandolo, a qualunque prezzo! Quando la morte è percepita certa, in questo modo e senza risultati, i potenziali rapitori non ci proveranno di nuovo!

 

 

 

La prova di forza dell’ANP ad In Amenas è uno schiaffo al nemico! 

L’Algeria può cooperare, senza essere coinvolta, in conformità alle decisioni delle Nazioni Unite. Per quanto riguarda la propaganda e la speculazione su questo complotto, rispondo con questo estratto di Aisha Lemsin: “La ‘strategia del segreto’ che circonda le operazioni militari, è una famosa tradizione algerina acquisita… dall’ALN e trasmessa di generazione in generazione all’ANP… Mentre i media internazionali, e alcuni Paesi occidentali, deploravano l’”opacità” delle Unità speciali d’assalto dell’ANP per liberare gli ostaggi… spacciando il falso per vero, o… dando prova della massima ipocrisia, e anche di complicità con i rapitori!… Inoltre, delle armi, non di “ribelli” o “attivisti” come li definivano improvvisamente alcuni farisei dei media francesi (BFM, TF1, ARTE, F24, ecc.), e altri dello stesso tipo, ma un vero e proprio arsenale… Infine, il fallimento della destabilizzazione dell’Algeria è uno schiaffo nazionale e patriottico ai suoi mandanti stranieri”. Le reazioni degli stranieri sembrano, nel complesso, favorevoli. Non dicono niente del recupero delle rivolte in Tunisia ed Egitto da parte dei ‘fratelli’ supportati dalle stesse forze occidentali. Tacciono inoltre sulle rivolte in Bahrain e Arabia Saudita, dove pacificamente si rivendicano diritti legittimi. Sostengono la tesi dell’impero quando interferisce negli affari degli Stati. Mentre i media cosiddetti “mainstream” li sostengono. Si alleano con il diavolo, pur di soddisfare il loro egoismo. La loro propaganda mostra senza ambiguità le loro tendenze e le loro mire. Non abbiamo trovato in nessuno dei loro scritti una condanna “chiara” del terrorismo. Le loro affermazioni sono sempre suscitate dall’ambiguità dei loro mandanti, come “coloro che li chiamano terroristi”, quando sanno “chi uccide chi” e “chi protegge chi” in tutti quei Paesi in cui questi assassini vengono infiltrati. Le loro idee, posizioni e dichiarazioni sono agli antipodi di quelle della maggioranza del popolo, quindi come fidarsi di loro?

Tutti questi re arabi, vassalli, vengono acquisiti alle tesi USA-sioniste. L’occidente si fa sonoramente beffe della libertà, della democrazia e dei diritti dell’uomo in queste terre utili. Che i nostri arabo-musulmani rimangano arcaici e oscurantisti non è una sua preoccupazione quanto la salvaguardia dei suoi interessi. Tutti questi “oppositori” arabi sono sponsorizzati. Sono coloro che “aiutano” a rovesciare regimi non allineati e vengono messi al potere quali “legittimi rappresentanti”… fino a nuovo avviso. L’Egitto di Morsi ha detto di essere ora “pronto al dialogo con Israele” e al “ritorno degli ebrei egiziani”. Sarebbe bello dire “tutti gli ebrei nella loro patria d’origine.” Il sinistro sceicco qataro-egiziano Qaradawi, che emette fatwa sugli assassini, incoraggia a votare per la Costituzione “comprata dai dollari del Qatar”, ha detto recentemente: “dobbiamo porre fine a questi governi di ”famiglie”, ad eccezione delle monarchie.” In Tunisia, Ghannouchi si è recato a Washington per ricevere il premio di “grande intellettuale del 2011″, assegnato dalla rivista Foreign Policy. Ha partecipato alla cerimonia assieme a Dick Cheney, Condoleezza Rice, Hillary Clinton, Robert Gates, John McCain, Nicolas Sarkozy, RT Erdogan, il franco-sionista BH Levy. Ecco, al dunque, il potere sostenuto dalle monarchie del Golfo. L’Islam di queste monarchie è strano. Si regola in base ai loro interessi, diventando uno strumento di guerre vere e proprie tra i “fratelli”. Per questo hanno usato tutti i mezzi finanziari e irreggimentato e indottrinato i media-religiosi, aiutando di colpo i critici dell’Islam giustificandone inaspettatamente i loro argomenti islamofobici”. Questi critici sostengono, ora, come prove le azioni di coloro che sono considerati “eminenze religiose”.

Gli occidentali dicono, con arroganza e degrado della coscienza, di condurre “guerre umanitarie” per “il nostro bene”. Che altruismo! Questo è il motivo per cui hanno attaccato l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia, il Sudan e hanno cercato di dividere la Siria, collocato il loro fantocci in Egitto, Tunisia e Yemen, e combattono per sconfiggere la rivolta in Bahrein e in Arabia Saudita. Sono quelli che i nostri “oppositori” sostengono quando dicono con soddisfazione che “… i regimi illegittimi e corrotti della nostra regione araba… stanno cadendo uno dopo l’altro”, quando sanno che è un’operazione attuata in conformità ai piani previsti nel cosiddetto “Nuovo Medio Oriente”, ideato dal piano sionista “Yinon”, che mira a dividere il mondo arabo in piccoli ”Stati” impotenti.  Insomma un Sykes-Picot 2. Sono questi l’approccio e le tattiche seguite dai nostri “oppositori all’estero”, per indebolire lo Stato algerino, ripetendo all’infinito sempre gli stessi temi e le stesse menzogne, fino alla nausea, per anni. A loro si aggiungono gli zotici “autonomisti” convertitisi in politici di contrabbando, sostenendo le milizie dei nostalgici e che si infeudano a Tel Aviv. Hanno siti web e canali TV, ad esempio ‘Rashad TV’ o ‘al-Magharebia’, a Londra, e che supportano il Qatar. Anche se lo chiamano ‘Maghreb’, il 95% del programma è volto a colpire l’Algeria. È finanziato anche dal figlio di Abassi, un “uomo d’affari”, come dice il suo direttore, anche se lo nasconde, però (secondo algerie-dz.com ‘) “Salim Madani, figlio di Abassi Madani,… ha visitato il Marocco, incontrando… molti sceicchi salafiti e membri della famiglia reale, nonché funzionari del Makhzen… [gli] ha offerto il supporto della rete al-Magharebia che trasmette programmi… dell’opposizione in Algeria e… ricevendo una compensazione finanziaria, hanno detto fonti informate a “Numidianews”.

Ci accusano di non essere governati da chi avrebbero voluto loro, ammettendo, per ciò, il “caos”. Si accaniscono nel far passare le loro frustrazioni come le nostre, incoraggiando i nostri giovani alla rivolta, non essendo riusciti a realizzare le loro ambizioni. Le loro azioni sono così obsolete da non risultare efficaci. Nessuno prende sul serio la loro diarrea verbale e la loro arte del voltafaccia. Tutti sanno che non c’è nulla di coerente nella loro melma, che usano come loro argomentazione. Blaterano da anni, e senza prove, di ‘falsità’ e menzogne. La maggior parte di loro non ha mai fatto nulla di utile per il proprio Paese. Soltanto una volta ‘cacciati’ dal loro lungo bagno nel lusso e nell’inganno scoprono le virtù e la competenza… la devozione che usano come piedistallo per ingannare.

 

 

 

Il nostro esercito è un’istituzione coerente e stabile

Il nostro esercito è un’istituzione coerente e stabile. E’ popolare e quindi in armonia con i cittadini. Non è al servizio di una classe. Gli eserciti di tutto il mondo esistono solo per difendere il proprio Paese dalle aggressioni esterne, dalla sovversione e dal rischio del caos. In Algeria, questi elementi sono stati raggiunti e provati, il suo intervento era pertanto legittimo, giustificato, desiderato. L’opposizione patriota offre soluzioni reali ai problemi del suo Paese e non perché manipola i fatti e denigra le istituzioni al fine di destabilizzarle. Dovrebbe mirare, attraverso la critica costruttiva, ai servizi politici, economici e sociali, e non all’esercito, ai suoi quadri e ai suoi servizi di sicurezza. In caso contrario, si tratterebbe della volontà di sabotare.

La nostra democrazia è sicuramente incompleta perché vi sono certi interessi e interferenze, ma il regime in Algeria è ben lungi dall’essere qualificato moribondo, paragonandolo, di proposito ad alcuni regimi arabi dispotici e nepotistici. Nessuno dei presidenti e dei governi che si sono succeduti, dopo l’indipendenza, è stato succube di nessuno, tanto meno dei sionisti, come vengono ingannevolmente accusati. La maggior parte dei Paesi arabi condividono le idee supportate dall’occidente colonialista e imperialista, mentre l’Algeria è rimasta oggetto della loro cupidigia di destabilizzazione con tutti i mezzi. Sono incomparabili. La Francia nostalgica, rimane agli occhi degli algerini la più pericolosa. MY Bonnet, ex capo del DST, parla di una “lobby anti-algerina al Quai d’Orsay”. Sappiamo che comprende dei “sionisti” che dettano la politica estera della Francia. Ha aggiunto che la “primavera araba” non è “esente da manipolazioni esterne dovute a delle costanti, la storia, la geografia del Mediterraneo, e a un’altra costante che io chiamo interferenze. Sfido chiunque a dimostrarmi che l’interferenza sia stata utile… nella storia del genere umano.” Anche qui un passaggio del testo di Tony Cartalucci (tradotto da “resistenza 71”) “Tornando all’agosto 2011, Bruce Riedel, del think-tank della Brookings Institution, finanziato dal cartello dei monopoli, ha scritto ‘L’Algeria sarà la prossima a cadere, indicando che il sperato successo in Libia spingerà gli elementi radicali in Algeria, in particolare quelli dell’AQIM. Tra le violenze estremiste e l’anticipazione degli attacchi aerei francesi, Riedel sperava di vedere la caduta del governo algerino.” Quindi attenzione!

 

 

 

Lasciamoli quindi marcire e incanaglirsi, mentre l’Algeria progredisce

Come diffidare di questa impostura della “confessione del Generale X” adottata da diversi siti ‘on line’. Questo è in realtà parte della propaganda sovversiva finalizzata a creare un clima di sospetto, come preludio all’avvio di un piano per destabilizzare l’Algeria. Termini, citazioni, formulazioni,  errori, il francese dei ‘negri’ professionali suscita un forte sospetto su o due “oppositori” algerini sopraffatti, collassati. Per coincidenza, è apparsa subito dopo l’azione francese in Mali e 15 giorni prima dell’attacco del complesso gasifero di Tiguenturin. Un’altra bugia viene distillata, facendo credere che i nostri figli del “Servizio nazionale” verrebbero inviati a combattere in Mali.

Terminiamo la nostra riflessione con l’uscita, su una rete TV francese, di Ziad Takieddine, questo trafficante d’armi tra la Francia e alcuni Paesi arabi, in particolare. Uscita inaspettata che rivela la corruzione e la criminalità di cui sono colpevoli dei leader francesi, che mette la Francia, nuda, in una posizione più scomoda.

Takieddine considera Sarkozy il principale responsabile della cospirazione contro la Libia e dell’uccisione di Gheddafi, quando dice: “…la guerra in Libia è stata una guerra fabbricata… che gli americani non volevano, e la Francia voleva con il Qatar… si doveva uccidere Gheddafi… perché se vinceva poteva andare al tribunale internazionale e dire un sacco di cose… incluse delle prove micidiali contro il governo in Francia… penso fortemente che i servizi speciali francesi l’abbiano ucciso… la corruzione in Francia ha causato l’attentato a Karachi… la guerra contro la Libia”. Secondo lui, i suoi “amici” francesi, che gli hanno affidato compiti e dato tangenti, l’hanno mollato poco prima dei suoi problemi giudiziari, fino a negare questa “amicizia” con lui. Da qui le rivelazioni (parziali) sulla corruzione e la criminalità in collaborazione con il Qatar. Ha detto che ha le prove di tutto ciò che dice.

Il mondo, che è fondato sul bene, è progettato in modo che le ingiustizie o le vittorie con la forza non durino mai più di un momento, indipendentemente dalla forza dell’oppressore o dalla potenza dell’aggressore. La preda può anche causare danni al felino, cosa che spesso si dimentica. Vale a dire che in questi ambienti, con cui i nostri oppositori “arabi” si acconciano, sono formati solo da banditi, falsari, corrotti, bugiardi, manipolatori e assassini infiltratisi con false pretese nella politica per arricchirsi ingannando tutti. Ma saranno sempre abbandonati una volta raggiunti gli obiettivi.

La cosa più scioccante, è che i nostri sciocchi persistono nei loro sofismi inculcatigli, anche se la realtà li contraddice, anche se i manipolatori confessano le loro menzogne. Purtroppo, “la ragione e la logica non possono fare nulla contro la testardaggine e la stupidità”. (Sasha Guitry). Lasciamoli quindi marcire e incanaglirsi, mentre l’Algeria progredisce.

 

 

 

*Nota sulla sovversione

La sovversione è un’azione che riunisce i mezzi psicologici volti a screditare e indebolire il potere costituito sui territori politicamente o militarmente ambiti (Volkoff, 1986; Durandin, 1993). Ha lo scopo di stimolare un processo di degenerazione dell’autorità, mentre un gruppo è disposto a prendere il potere impegnandosi in una guerra “rivoluzionaria” (Mucchieli; Volkoff, 1986). Uno Stato può utilizzare la sovversione per creare il caos in un Paese straniero. E’ la base del terrorismo e della guerriglia.

Gli obiettivi della sovversione sono i seguenti:

1 – demoralizzare la popolazione e disintegrare gruppi costituenti,

2 – screditare le autorità,

3 – neutralizzare le masse per evitare l’intervento generale a favore di un ordine costituito (Mucchieli; Volkoff, 1986).

La sovversione utilizza i mass media per manipolare l’opinione pubblica attraverso la “pubblicità” che le notizie concedono alle azioni spettacolari (Mucchieli; Volkoff, 1986). Questa pubblicità si verifica, spingendo l’ascoltatore a cambiare la percezione degli oppositori, sotto forma di identificazione con l’aggressore (Mucchieli; Volkoff, 1986). Le autorità sono viste sempre più deboli e irresponsabili, mentre gli agenti della sovversione sembrano più potenti e più convinti della loro causa (Mucchieli; Volkoff, 1986).

L’opinione pubblica vacillerà un giorno dalla parte degli agenti sovversivi. Senza contare che i gruppi sovversivi possono utilizzare la disinformazione e la propaganda sui loro giornali e le loro stazioni radio, rafforzando la manipolazione dell’opinione pubblica.

 

 

 

http://counterpsyops.com/2013/02/13/lalgerie-entre-la-convoitise-des-uns-les-visees-et-la-revanche-des-autres-a-lombre-des-printemps-arabes

 

 


Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

IL MARCHIO STATUNITENSE

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Tutti i regimi, democratici e non, hanno bisogno di poter influenzare, se non controllare, l’informazione per restringere la visuale della popolazione, ottenerne il consenso e indirizzare l’opinione pubblica. Si rivela dunque fondamentale il controllo della parola, essendo la lingua uno dei sistemi più sofisticati e raffinati di organizzazione della realtà esterna e interna e di creazione di senso.

Nel libro Psicologia delle comunicazioni di massa, di Pratkanis e Aronson, leggiamo che le parole hanno il potere di pre-persuadere, e che le parole e le etichette “che usiamo giungono a definire e a creare il nostro mondo sociale. Questa definizione della realtà dirige i nostri pensieri, i nostri sentimenti e la nostra immaginazione, e in tal modo influenza il nostro comportamento”.

Non è un caso se Zagrebelsky in Imparare democrazia scrive che “essendo la democrazia una convivenza basata sul dialogo, il mezzo che permette il dialogo, cioè le parole, deve essere oggetto di cura particolare”.

In un regime democratico, dunque, essendo esso basato sul dialogo, la lingua dovrebbe essere coltivata e curata con riguardo. Eppure qui già s’incontra un primo inciampo, visto che ormai democrazia e modello di sviluppo sono diventati sinonimi, perché la democrazia è diventata il veicolo per la realizzazione di questo modello. Il problema è che i mercati degli opulenti Paesi occidentali sono ormai saturi e la crisi sta complicando il quadro, visto che ci sono montagne di beni che non possono essere acquistati. L’esportazione della democrazia si presenta, così, come un’espansione verso nuovi mercati ancora vergini. Ed ecco quindi che in Afghanistan sono stati introdotti smart-phone e altri oggetti di alta tecnologia, nonostante manchino infrastrutture, il Paese sia fondamentalmente diviso e abbia come Presidente un uomo ben visto dall’Alleanza atlantica e nonostante non vi sia nel Paese alcuna cultura democratica diffusa.

L’11 settembre 2001 ha visto prosperare espressioni che sono diventate ormai bagaglio quasi quotidiano, come “guerra al terrore” e “missioni di pace”. Missione di pace indica un intervento militare in un Paese straniero e cerca di non evocare lo spettro della guerra, che la Costituzione Italiana ripudia come mezzo per la risoluzione di controversie internazionali.
Guerra al terrore dovrebbe, invece, indicare la lotta senza quartiere alle organizzazioni terroristiche che minacciano la sicurezza interna delle Nazioni, ma anche la guerra in Iraq è stata presentata come tale. Questo nonostante l’Iraq non fosse assolutamente uno Stato teocratico, ma dove anzi le minoranze religiose potevano praticare la propria fede. È stata, invece, l’invasione da parte degli Stati Uniti a farlo diventare una palestra per settari islamisti provenienti da diversi Paesi.

Per giustificare l’attacco all’Iraq, oltre all’invenzione di prove mai divulgate circa l’esistenza di armi di distruzione di massa, è stata addotta la “guerra preventiva”.  Ma la guerra preventiva, da un punto di vista giuridico, è una forma di legittima difesa, che “deve riguardare un attacco già in corso o del quale siano in corso i diretti preparativi, senza possibilità di equivoco, in modo tale che la risposta immediata data mediante un’azione armata risulti l’unica possibile. Evidenti, altrimenti, i rischi di abusi da parte di aggressori che, per giustificarsi, tendano ad indossare le vesti degli aggrediti” (1).

Non è un caso se la macchina dell’amministrazione Bush Jr. ha lavorato parecchio, per legittimare la strategia di guerra ai cosiddetti nemici della Libertà sparsi su tutto il globo.

Nel documento The National Security Strategy of the United States of America – September 2012, si lascia intendere che l’uso della forza è lo strumento principale per la risoluzione di controversie internazionali. Viene ribadito il compito di aiutare tutti i popoli a raggiungere i principi e gli ideali della società libera statunitense in tutto il mondo, ed è anche data una definizione degli Stati canaglia: sono guidati da dittatori che opprimono la popolazione per i propri privilegi, aiutano le organizzazioni terroristiche, sono dotati o cercano di dotarsi di armi di distruzione di massa. Tra tali Stati canaglia compare anche l’Iraq.

Afferma il giurista Marcelli: “La nuova dottrina statunitense dell’autodifesa preventiva costituisce senza dubbio un tentativo di ribaltare la disciplina dell’uso della forza contenuta nella Carta delle Nazioni Unite e in particolare nell’art. 2, para. 4, di essa. Data la natura imperativa e davvero fondamentale di quest’ultima norma, sulla quale poggia tutto il sistema internazionale esistente, il suo scardinamento dovrebbe o segnare il passaggio a una nuova fase storica, segnata dalla rilegittimazione della guerra come strumento delle relazioni internazionali e dal tramonto del principio della sovrana eguaglianza fra gli Stati, oppure costituire un gravissimo crimine internazionale”.

C’è ora da chiedersi: ci sono differenze tra la politica estera di questa amministrazione statunitense e di quella che l’ha preceduta? Ascoltando il programma “Analysis”, della BBC, andato in onda l’1.10, 2012 con il titolo “Obama: peacemaker or vigilante?” (2), viene ribadito come la politica estera del primo mandato di Obama sia in linea con quella del secondo mandato di George W. Bush.

Quando Obama venne eletto Presidente, il marchio Star and stripes era ai minimi storici, dopo otto anni di Bush, Rumsfield, Cheney, eccetera. Con la sua campagna presidenziale e la sua elezione, invece, il marchio è tornato a essere popolare. Come scrive Naomi Klein nella prefazione alla nuova edizione di “No Logo, “Obama è riuscito, chissà come, a essere sia una Coca-Cola sia una tisana naturale: è un megamarchio conosciuto e distribuito in tutto il mondo e allo stesso tempo un outsider che si è fatto da solo”.

E aggiunge: “Obama preferisce sempre il gesto simbolico grandioso al cambiamento strutturale profondo. Annuncia a gran voce che chiuderà Guantanamo e intanto dà il via libera all’allargamento del carcere di Bagram in Afghanistan e si oppone ai processi contro i funzionari di Bush che autorizzarono le torture. Nomina la prima giudice latinoamericana alla corte suprema e intanto fa approvare un nuovo giro di vite sull’immigrazione. Investe nell’energia pulita ma appoggia la favola del “carbone pulito” e rifiuta di tassare le emissioni di CO2, l’unico metodo davvero valido per ridurre il consumo di carburanti fossili. Si scaglia contro l’avidità dei banchieri e affida le redini dell’economia a veterani di Wall Street. E, soprattutto, promette di mettere fine alla guerra in Iraq, mandando in pensione l’orrendo concetto di “guerra al terrore”, mentre in Afghanistan e in Pakistan i conflitti ispirati da quella logica s’intensificano”.

Secondo Jameel Jaffer, direttore legale dell’American Civil Liberties Union, Obama avrebbe potuto chiudere Guantanamo, nonostante le forti resistenze dei Repubblicani, ma non l’ha fatto perché ha preferito sacrificare questo progetto per dedicarsi alla riforma sanitaria. Inoltre, qualcuno sostiene che, ad Obama, alcune misure di lotta al terrore dell’amministrazione che l’ha preceduta in realtà piacciano anche perché rientrano in una politica nazionale, che si è sviluppata nel corso degli anni.

L’amministrazione Obama ha intensificato l’uso dei droni, che costituiscono l’arma centrale della strategia contro il terrorismo. L’uso dei droni è però molto controverso e discusso, tanto che il Consiglio ONU su Diritti Umani ha annunciato che stanno iniziando un’inchiesta sul loro utilizzo, estendendola anche agli attacchi condotti con questi mezzi dall’esercito britannico in Afghanistan, e da quello israeliano a Gaza.
Obama ha poi incoraggiato e appoggiato le rivolte della primavera araba, ma al contempo, come sempre nella storia degli Stati Uniti, deve sperare che la situazione in Arabia Saudita rimanga ferma, deve cioè sostenere una politica di conservazione.

Per quanto riguarda l’economia, Obama ha rilanciato anche il progetto economico neoliberista e, pur presentandosi agli elettori come il difensore dei cittadini contro lo strapotere della finanza, prese più soldi da Wall Strett di qualsiasi altro candidato alla presidenza.

Tutti i presidenti degli Stati Uniti da Reagan in poi, e quindi Obama incluso, sono stati complici e coautori di uno smantellamento delle leggi a protezione degli investitori. Obama, infatti, non solo non ha ripristinato leggi a tutela degli investitori, sparite gradualmente a partire dall’amministrazione Reagan, ma ha confermato nei gangli delle istituzioni economiche finanziarie le stesse persone che generarono, o coprirono, la frode planetaria dei sub-prime, come Ben Barnake, nominato da George W. Bush come presidente della Federal Reserve, e proprio in quell’anno si verificò un’impennata delle vendite dei titoli tossici.

È stato notato come, nel secondo discorso inaugurale, Obama abbia tralasciato la politica estera. È certamente probabile che si possa concentrare su tutte quelle riforme interne che vuole portare avanti, anzi, così facendo, potrà deviare l’attenzione su quella politica e continuare con la tradizionale ostilità statunitense verso i nemici del disegno del nuovo ordine mondiale e intensificare l’attività dei droni in giro per il mondo, come sembra che avverrà in Mali.

 

 

 

* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.

 

1. http://www.giuristidemocratici.it/post/20030321170739/post_html

2. http://news.bbc.co.uk/2/shared/spl/hi/programmes/analysis/transcripts/01.10.12.pdf

 

 

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