Quantcast
Channel: eurasia-rivista.org » Energia sostenibile
Viewing all 113 articles
Browse latest View live

L’ESPANSIONISMO DELL’IMPERO RUSSO

0
0

Durante l’intera storia russa, escludendo il periodo della Rus’ di Kiev e quello postsovietico, si assistette ad una fase di progressivo espansionismo dello Stato russo che tra la metà del XVI secolo e gli anni Ottanta del XX secolo, seguì tre principali direttrici: quella occidentale verso il Baltico e la Polonia, quella orientale verso la Siberia, l’Estremo Oriente e l’Alaska, e quella meridionale verso il Mar Nero, il Caucaso e l’Asia Centrale. Gli anni cruciali di questa espansione coincisero con il regno degli Zar. A seguito del 1917 l’espansionismo russo riprese dinamismo, dopo essere stato di fatto bloccato dalla sconfitta del 1905 contro il Giappone, ma le forme che esso assunse durante la Guerra Civile e durante la Guerra Fredda furono diverse. Infatti, esso fu inizialmente finalizzato a riconquistare i territori appartenuti all’Impero Russo e poi persi; inoltre, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale l’espansionismo dell’URSS rimase privo di palesi azioni militari al di fuori della sua sfera d’influenza (o “impero esterno” secondo la definizione di Zbigniew Brzezinski) e lo stesso intervento in Afghanistan non può considerarsi un’invasione a pieno titolo, dato che esso fu richiesto dal governo afghano di Hafizullah Amin.

Volendo analizzare quali elementi di peculiarità l’espansionismo imperiale russo abbia sviluppato nel corso dei secoli, possono essere adoperati due diversi approcci: la teoria delle relazioni internazionali e l’analisi della politica estera. La prima teoria presuppone che a determinare le scelte di politica estera di uno Stato siano fondamentalmente i segnali provenienti dal contesto internazionale stesso. Questo approccio postula quindi che di fronte a medesimi stimoli esterni, attori diversi agiscano e reagiscano allo stesso modo. Così facendo la teoria delle relazioni internazionali rischia di non porre la necessaria attenzione a fattori che inevitabilmente concorrono al processo di produzione della politica estera di un Paese. Il classico approccio analitico della Foreign Policy Analysis1sopperisce a questo limite, considerando ciascuno Stato come un unicum le cui azioni sono elaborate a partire da variabili, siano esse indipendenti come il fattore geopolitico e l’ambiente internazionale o domestiche come il contesto istituzionale e la personalità dei dirigenti politici. Tali elementi fanno dell’analisi della politica estera il metodo più utile per evidenziare quali siano i caratteri tipici dell’espansionismo russo lungo i secoli.

Le variabili indipendenti sono quegli elementi che influenzano un Paese senza che questi possa agire direttamente modificandoli, piuttosto essi tendono a mutare nel lungo periodo a causa dei progressi in ambito tecnologico o per via del processo di distribuzione e ridistribuzione del potere a livello internazionale.

La geografia impone dei limiti e delle opportunità fisiche ad uno Stato. La conformazione morfologica del territorio, il suo clima, la distribuzione demografica ed etnica al suo interno, la sua collocazione in una particolare regione, continente o in generale nel mondo, sono tutte varianti geopolitiche che possono condizionare, anche in maniera profonda, la politica estera di un Paese.

Nel caso della Russia è immediato rivelare quale sia la caratteristica principale e assolutamente unica di questo Paese: l’estrema vastità del più grande Stato del pianeta. Con i suoi attuali 17 milioni di km2, il territorio russo copre oggi il 13% della superficie emersa mondiale mentre durante il periodo zarista giungeva a coprirne addirittura il 17%2. Di conseguenza il territorio risulta essere assai variegato, vi si alternano ambienti artici a paesaggi di Tundra, Taiga, Steppa e foresta temperata. Tra le tante variabili citate, la più rilevante per comprendere l’espansionismo dell’Impero Russo è la morfologia del territorio. Per quanto i territori russi siano costituiti da diversi ambienti e paesaggi infatti, essi si sviluppano per lo più lungo sconfinate pianure. Ciò è particolarmente rilevante per due motivi. In primo luogo l’assenza di nette barriere geografiche ha reso il territorio russo un corridoio di comunicazione tra Europa ed Asia; in secondo luogo, questa stessa assenza ha influenzato in maniera decisiva il modo con cui i russi e i loro dirigenti politici considerano le minacce esterne.

La mancanza di netti confini statali ha reso la Russia un Paese incredibilmente soggetto alle invasioni. Nel corso dei secoli una in particolare pesò a tal punto sulla coscienza russa da innescare una fase di espansione sostanzialmente continua. L’Orda Mongola penetrò a partire dal 1223 nei territori slavo-variaghi e mantenne il controllo sulla Terra di Rus’ per quasi due secoli e mezzo fino al 1480. Oltre a decretare la fine della Rus’ di Kiev, quest’invasione insinuò nella percezione comune nazionale il timore costante di un’invasione territoriale da parte del nemico esterno. L’assenza di barriere geografiche ben definite infatti spinse i principi prima e qualsiasi leader russo (zar o segretario di partito) poi, ad intraprendere politiche espansioniste mirate a frapporre il maggior spazio possibile tra essi ed il nemico, in modo tale da affrontarlo quanto più lontano possibile dal centro dei loro territori3.

Un’altra variabile indipendente che è intervenuta nell’elaborazione della politica estera imperiale russa appartiene al fattore internazionale: si tratta della variabile del potere. Nella teoria delle relazioni internazionali il potere e la sua distribuzione sono considerati i primi, e sotto certi aspetti gli unici, elementi di ordine del sistema internazionale. Corollario a questa considerazione è la teoria del “vuoto di potere”, secondo la quale uno Stato tenderà ad espandersi nei territori liberi confinanti o in quelli che, seppur popolati, egli considera “vuoti” data la disparità di potere tra esso ed i soggetti politici locali. Nella storia russa una fondamentale redistribuzione del potere è avvenuta nel corso del XVI secolo, quando il Principato di Mosca si rivelò capace di sconfiggere le sue dirette e principali minacce orientali, ovverosia i Khanati eredi dell’Orda d’Oro. Se da un lato la direttrice occidentale è stata condizionata in maniera meno significativa da questa variabile a causa della presenza di forti soggetti politici come la Svezia o la Polonia, dall’altro lato essa ha invece costituito per l’Impero Russo un deciso incentivo all’espansionismo orientale e centrasiatico, dove rilevante era anche il timore che questi territori “liberi” potessero essere annessi da altri, impero britannico in primo luogo.

Passando ora al secondo livello di analisi, quello dei fattori domestici, è evidente che tutte le esperienze statali russe, ancorché con gradi diversi di centralismo, sono state fortemente stataliste. Nella mentalità russa era ed è ancora fortemente radicata l’idea che lo Stato russo debba essere forte per esistere, sia sul piano interno che esterno. Ritenere tuttavia che le decisioni in politica estera fossero affidate unicamente alla volontà degli Zar e delle Zarine non è del tutto corretto. Prima di Pietro il Grande, gli Zar condividevano la propria autorità con due istituti rappresentativi: la Duma boiara e gli Zemskij Sobor, grossomodo paragonabili la prima ai regi consigli e i secondi agli stati generali europei. In un sistema basato su consuetudini e tradizioni è difficile cogliere la vera portata di queste assemblee, tuttavia entrambe avevano competenza anche su materie delicate come la guerra e la pace4. Pietro il Grande riformò l’amministrazione del suo Impero in maniera che rispecchiasse l’organizzazione dei regni occidentali che aveva visitato. Lo Zar si affidò così ad un nuovo istituto: il Consiglio di Stato. Nato sotto lo stesso Pietro il Grande con il nome di Consiglio Segreto, assunse fino al 1905 una funzione di governo prettamente consultiva.

Questo centralismo ha avuto due principali ripercussioni in politica estera: la prima nella tendenza alla gestione personale delle relazioni internazionali, si pensi ad esempio alla decisione assunta da Pietro III nel 1762 di ritirarsi dalla Guerra dei Sette anni e di passare da nemico ad alleato della Prussia di Federico II. La seconda conseguenza, più importante per comprendere l’espansionismo, permise curiosamente a generali e governatori di confine di intervenire in maniera significativa nel processo di produzione della politica estera dal momento che, dovendo in ultima istanza compiacere solamente lo Zar, essi potevano assumersi l’intera responsabilità di una conquista ben sapendo che a seconda dell’esito avrebbero ottenuto gli onori o la rovina. La conquista dell’Estremo Oriente e dell’Asia Centrale è piena di questi arditi individui: da Mikhail Cernjaev a Erofej Pavlovič Chabarov.

Questi elementi ci introducono al terzo e ultimo livello di analisi, quello della personalità dei dirigenti politici. Non solo i generali di frontiera dovevano dimostrare una spiccata audacia per farsi promotori di azioni di politica estera da cui potevano scaturire vere e proprie guerre contro altre potenze europee, ma la stessa personalità degli Zar costituiva una variabile importante. Il potere dell’Imperatore era infatti indiscusso, ma qualora egli avesse dimostrato una personalità debole, incapace di imporre una chiara visione internazionale, gli istituti che lo circondavano avrebbero avuto l’occasione di ampliare, di fatto, i loro poteri andando ad influenzare, anche in maniera significativa, la politica estera russa.

Il livello della personalità dei dirigenti politici è il più delicato tra i diversi piani di analisi e probabilmente quello con più variabili in gioco. Il trascorso personale, il carattere, l’ideologia e la provenienza sono tutte varianti che possono agire inconsapevolmente sulla cerchia al potere influenzandone le decisioni. Come si è già accennato, durante lo Zarato e l’Impero, il peso della personalità del capo politico era fondamentale in politica estera. Ricordiamo ad esempio il regno di Ivan IV, segnato nel secondo periodo dalla sua pazzia; quello di Pietro il Grande, la cui passione per l’Europa segnò irreversibilmente la storia russa specie dopo che visitò, durante la Grande Ambasceria, l’Inghilterra, la Francia e il Sacro Romano Impero, studiando la costruzione delle navi ad Amsterdam; o ancora l’ardore ascetico dello Zar Alessandro I, che volle l’istituzione di una Santa Alleanza fondata sui princìpi cristiani; ed infine il successore Nicola I, che fece della Russia lo Stato garante della Restaurazione.

Accanto a quelle che sono le caratteristiche personali di ciascun imperatore, che richiedono un’analisi approfondita e contestualizzata per capirne le dinamiche in politica estera, ve n’è una che appartiene a tutta la classe dominante russa e si tratta nello specifico di quella particolare “geopolitical stress” di cui parla Trenin, sospesa tra l’anima europea e quella asiatica della Russia. L’espansionismo verso l’Estremo Oriente e l’Asia Centrale assunse la sua maggiore intensità, non a caso, dopo la sconfitta nella Guerra di Crimea. La conclusione di questo conflitto fu un grande shock per l’aristocrazia russa, non tanto perché la Russia aveva vinto fino ad allora ogni singola guerra combattuta dai tempi di Pietro il Grande, ma soprattutto perché a sconfiggerla fu una coalizione di potenze europee composta da Gran Bretagna, Francia e Regno di Sardegna, alleate con l’Impero Ottomano. Come sostenne Dostoevskij: «Essa [l’Europa, nda] non crederà mai che noi possiamo prendere parte alla sua civiltà. Essa ci considera intrusi, usurpatori, ladri che hanno rubato la civiltà all’Europa e si sono vestiti delle sue vesti. L’Europa si sente più vicina ai turchi e ai semiti che a noi, ariani…»5. L’espansionismo verso Est ebbe quindi una forma di rivalsa verso l’Occidente, un tentativo di confrontarsi “all’europea” con popoli asiatici. Solo in questo periodo, infatti, l’espansionismo russo venne arricchito dalla convinzione che la Russia potesse avere una “missione di civiltà” in Asia. Le armate imperiali avrebbero portato la modernità alle popolazioni asiatiche, e quella stessa civiltà europea che sembrava vessare i russi ad Occidente divenne motivo e strumento delle élite politiche per l’espansione ad Oriente. Sempre Dostoevskij precisa: «L’Europa è la nostra madre, la nostra seconda madre. Da lei abbiamo appreso molto e molto apprenderemo senza essere ingrati […]. In Europa siamo stati schiavi e parassiti, in Asia saremo europei. La nostra missione civilizzatrice in Asia ci rinfrancherà»6.

Nel corso dei secoli l’espansionismo dell’Impero Russo è stato sempre considerato frutto dell’aggressività naturale del suo popolo. Prima i britannici, poi gli statunitensi, hanno interpretato le azioni di politica estera di Pietrogrado e Mosca come prove della loro ostilità. Una nuova distribuzione del potere sta avvenendo in questi anni, ma i territori liberi si sono ormai esauriti, e l’espansionismo russo assume nuove forme. Limitato nell’uso dell’hard power, cultura, lingua, tradizioni, finanza, energia e sicurezza sono divenuti i suoi strumenti principali. Ancor oggi certa letteratura tende a vedere nella Russia l’acerrimo nemico di sempre, ridimensionato sì dopo il 1991 ma fermamente intenzionato a proseguire nel cammino di dominio intrapreso nel XVI secolo. Tali valutazioni sono inesatte poiché Mosca tenta ora, non senza criticità, di riaffermare concreti interessi nazionali che percepisce come in pericolo.

Come abbiamo osservato, è presumibile affermare che l’espansionismo russo trovi le proprie origini non tanto in una presunta combattività del suo popolo, quanto piuttosto in variabili che agirono e agiscono su più piani diversi e che influenzano il processo di produzione della politica estera. Nella Russia di Putin non poche di quelle stesse variabili sono ancora in gioco, alcune rimanendo fondamentalmente inalterate, altre venendo ridefinite secondo altri parametri mentre altre ancora, come il processo di ridefinizione della Russia in qualità di Stato-nazione, sono completamente nuove.

 

  1. Si veda V. A. Hudson, Foreign Policy Analysis. Classic and Contemporary Theory, Rowman & Littlefield Publishers, Lenham MA, 2007.
  2. D. Trenin, The End of Eurasia: Russia on the Border Between Geopolitics and Gloalization, Carnegie Moscow Center, Washington Dc, 2001, p. 21.
  3. Ivi.
  4. Nel 1471, ad esempio, fu riunito uno zemskij sobor prima della campagna militare contro Novgorod, cosi come ne vennero convocati anche nel XVII secolo (1632-1634, 1636-1637 e 1642) su temi come la guerra in Polonia, la Crimea e i rapporti con la Turchia.
  5. F.M. Dostoevskij, Diario di uno scrittore, cit. in A. Ferrari, La Foresta e la Steppa, mito dell’Eurasia nella cultura russa, Mimesis Edizioni, Milano – Udine 2003, p. 91.
  6. Ibidem, p. 92.


TENDENZE OPPOSTE NEL MAR CARAIBICO: PORTO RICO E GIAMAICA

0
0

 La guerra ispano-americana

La relazione tra Porto Rico e Stati Uniti si instaura a partire dalla fine dell’Ottocento, a seguito della guerra ispano-americana (1).

Già dal 1895 Cuba combatteva il governo coloniale spagnolo per ottenere la propria indipendenza; l’opinione pubblica statunitense era interessata all’evoluzione di tale scontro e l’esplosione della nave americana Maine nel porto dell’Avana, avvenuta il 15 febbraio del 1898, ne segna la discesa in campo diretta, il 25 aprile dello stesso anno .

La breve guerra si conclude con la netta vittoria degli Stati Uniti, talmente rapida e schiacciante da essere ricordata nella storia statunitense come splendid little war (2).

La fine del conflitto porta con sé numerose conseguenze geopolitiche, definite nel Trattato di Parigi; infatti la Spagna è costretta  a cedere agli Stati Uniti i territori di Porto Rico, l’Isola di Guam e le Filippine; inoltre Cuba vede finalmente riconosciuta la propria indipendenza.

Da questo momento inizia l’ingerenza statunitense nel territorio di Porto Rico, che diventa progressivamente più pervasiva. Nel 1917 viene imposta la cittadinanza statunitense ai portoricani; in questo modo infatti gli Stati Uniti possono disporre di migliaia di soldati da inviare al fronte per la Prima Guerra Mondiale ormai in corso.

Inoltre, la cittadinanza porta con sé l’imposizione della lingua inglese come lingua ufficiale, a cui si arriverà ad affiancare lo spagnolo solo nel 1947.

A questo punto l’influenza statunitense non può essere considerata una questione meramente formale, ma va a toccare alcuni dei tratti più intimi e fondativi di un popolo, quali la cittadinanza e la lingua.

 

 

Lo status di Stato Libero Associato

Ciò che invece sembra essere legato più alla formalità che non alla sostanzialità dei rapporti è la decisione, presa nel 1952, di attribuire a Porto Rico lo status giuridico di Estado Libre Asociado, o Commonwealth, se si predilige il termine inglese (4). Questa infatti è una delle questioni  maggiormente discusse all’interno del Paese, in cui i partiti ancora oggi si differenziano principalmente in base alla propria posizione rispetto a questo tema.

Il fatto di essere uno Stato Libero Associato si traduce infatti in diverse conseguenze pratiche per i portoricani residenti sull’isola, soprattutto sul piano della cittadinanza e dei diritti comunemente associati ad essa.

Il problema principale e “umiliante”(5) è che i portoricani residenti sull’isola non hanno diritto di voto né per il Congresso, né per il Presidente degli Usa, ma sono soggetti ai provvedimenti e alle leggi da essi adottati, anche in settori cruciali come la politica estera e la difesa.

Si rileva quindi un forte deficit nel diritto alla rappresentanza politica, a dir poco paradossale se si ricorda l’Indipendenza americana e il suo motto “no taxation without representation”.

Ci si aspetterebbe quindi una rivendicazione di indipendenza effettiva da parte dei portoricani, forse un moto di orgoglio, in difesa della propria dignità come popolo e in nome del diritto all’autodeterminazione.

Ma ciò non accade. Al contrario, i portoricani chiedono di poter stringere un legame ancor più saldo con l’ex potere coloniale, esprimendo il desiderio di diventare parte degli Stati Uniti. Perché?

É necessario ricordare i vantaggi, principalmente economici, che mantengono Porto Rico saldamente appigliata a questa strana relazione. Innanzitutto la libertà di immigrazione in Usa di cui godono i portoricani, che oltre all’accesso a una società più benestante, permette anche l’acquisizione del diritto di voto (che il medesimo cittadino non ha se risiede in Porto Rico). Inoltre Porto Rico può vantare il pil procapite più elevato dell’America Latina,  anche se rimane comunque inferiore a quello di tutti i 50 Stati federali (6).

Porto Rico sembra essere un Paese a metà strada tra Usa e America Latina. La cultura è certamente segnata dall’appartenenza caraibica: il cibo, la musica, le tradizioni, la lingua costituiscono un’identità irrinunciabile, che ha saputo resistere a più di cento anni di ingerenza statunitense.

Bisogna però tenere conto anche della situazione reale del Paese, che è economicamente legato, per non dire dipendente, dalla rete commerciale statunitense ed è anche beneficiario di parte della spesa sociale degli Usa.

 

 

Lo scenario politico

Il panorama politico portoricano riflette la situazione del Paese ed è segnato infatti dalla contrapposizione di tre partiti maggioritari, i quali si confrontano principalmente sullo status dell’isola;  essi  incarnano cioè le tre posizioni possibili rispetto al futuro assetto statale e al rapporto con gli Stati Uniti.

In particolare, il Partito Popolare Democratico (PPD) vuole mantenere lo status giuridico attuale di Estado Libre Asociado; il Nuovo Partito Progressista (PNP) è promotore dell’incorporazione agli Stati Uniti, volendo fare del Porto Rico il cinquantunesimo Stato federale. Infine l’istanza indipendentista viene fatta propria dal Partito Indipendentista Portoricano (PIP), nettamente minoritario.

Diversi referendum sono stati effettuati a proposito della definizione dell’assetto statale nel corso degli anni: nel 1967, 1993 e 1998; in tutti i casi ha prevalso la scelta del mantenimento dello status quo(7), almeno fino allo scorso novembre.

In tale occasione è emerso  un rafforzamento della posizione tipica del PDP; oltre il 61% dei votanti ha infatti espresso il desiderio di rendere Porto Rico il cinquantunesimo Stato degli Stati Uniti.

Gli ostacoli per diventare parte degli Usa non sono però affatto terminati. Innanzitutto il referendum effettuato non è vincolante per Washington; spetta infatti al Congresso approvarne o meno il risultato(8).

Come prevedibile, il Partito Repubblicano si oppone fermamente a una tale evoluzione, mentre in seno al Partito Democratico vengono lasciati aperti degli spiragli di dialogo. Una tale decisione  avrebbe comunque una portata estremamente rilevante e probabilmente troppo innovativa: diverrebbe parte degli Stati Uniti uno Stato geograficamente sudamericano, in cui la lingua ufficiale, accanto all’inglese, è lo spagnolo, e in cui la cultura e la società sono spiccatamente segnate dall’appartenenza caraibica.

Il futuro di Porto Rico è ora in attesa delle decisioni del Congresso.

L’identità culturale potrà quindi essere un serio ostacolo alla realizzazione   di quanto espresso nel referendum da poco tenutosi in Porto Rico.

Al contrario, un altro Stato del Mar dei Caraibi ha deciso di ribadire la propria specificità culturale e ritiene centrale la riaffermazione della propria indipendenza: si tratta della Giamaica, che nel 2012 ha festeggiato il cinquantenario della propria indipendenza dalla Gran Bretagna.

 

 

Giamaica e Gran Bretagna 

La Giamaica ha deciso di intraprendere una strada completamente opposta a quella del Porto Rico.

Il Primo Ministro Portia Simpson Miller, dopo la sua vittoria alle elezioni del 29 dicembre scorso, ha infatti recentemente preso posizione rispetto al rapporto che lega il suo Paese alla Gran Bretagna.

Lo Stato caraibico infatti ha raggiunto l’indipendenza il 6 agosto 1962, ma attualmente fa parte del Commonwealth britannico; ciò comporta essenzialmente la presenza di due figure esterne: la Regina d’Inghilterra come Capo di Stato e un Governatore proveniente dalla Gran Bretagna. Entrambi hanno funzioni puramente simboliche e non sono in condizione di ingerire negli affari interni dello Stato giamaicano, né sembrano averne l’intenzione.

Oggi le finalità e la retorica del Commonwealth infatti non sono più quelle del colonialismo dell’Ottocento; al contrario sembrano ispirarsi ai principi di cooperazione e leale collaborazione tra Stati liberi e indipendenti.

Questa prospettiva è confermata da alcune dichiarazioni della stessa Regina Elisabetta II, la quale nel suo messaggio natalizio nel 2011 ha riaffermato la volontà di proseguire tale forma di partenariato “guardando sempre al futuro, con un senso di cameratismo, calore a reciproco rispetto, mantenendo al contempo la propria individualità”(9).

 

 

La Giamaica vuole essere una Repubblica

Il segno del cambiamento viene però annunciato da Porcia Simpson Miller, la quale il 29 dicembre 2012 ha portato il suo partito, il Partito Nazionale del Popolo (PNP), a una netta vittoria sul Partito Laburista. In qualità di Primo Ministro, la Miller ha espresso la volontà di rendere la Giamaica una Repubblica e segnare così la fine di qualsiasi subordinazione a una potenza estera.

La Miller infatti ha dichiarato: “[...]è il momento di una riflessione sulle lezioni del passato; celebrando il nostro successo come nazione indipendente, abbiamo bisogno di completare il percorso di indipendenza. A questo proposito, inizieremo il processo del nostro distacco dalla monarchia per diventare una Repubblica con un nostro Presidente come Capo di Stato”.

La premier giamaicana non manca di confermare i propri sentimenti di stima e rispetto per la Regina d’Inghilterra, ma è chiara nelle proprie intenzioni, le quali sono largamente condivisibili.

Il colonialismo è, o dovrebbe essere, una questione obsoleta, relegata nella storia dell’Ottocento e di inizio Novecento. La Giamaica è uno Stato indipendente da cinquant’anni, situato nel Mar dei Caraibi, la cui popolazione è prevalentemente di origine africana; pensare che il suo Capo di Stato sia la Regina d’Inghilterra appare alquanto anacronistico e anche poco rispettoso dell’indipendenza acquisita e consolidata da cinquant’anni.

Ora la parola spetta al popolo giamaicano, che sarà chiamato ad esprimersi in un referendum per stabilire se avviare una riforma costituzionale in tal senso o mantenere la situazione attuale.

I percorsi dei due Stati sono quindi diametralmente opposti. Mentre il Porto Rico sogna di legarsi in maniera definitiva agli Usa, come cinquantunesimo Stato federale, a pochi chilometri, la Giamaica sembra volersi emancipare da una relazione dal sentore coloniale, di cui si è persa ogni utilità.

 

 

*Rachele Pagani, laureanda in Diritti dell’uomo ed etica della cooperazione internazionale, presso l’Università degli Studi di Bergamo

 

 

 

 

 

 

1)http://www.treccani.it/enciclopedia/guerra-ispano-americana

2)Tale denominazione fu utilizzata dal Segretario di Stato John Hay in una lettera indirizzata a Roosevelt; http://www.loc.gov/rr/hispanic/1898/hay.html

4)Puerto Rico:colonia del encanto, Leonardo Lucarelli; http://www.solidarietainternazionale.it/index.php?option=com_content&view=article&id=444:puerto-rico-colonia-del-encanto&catid=62:n-02-feb-2008&Itemid=170

5)e 6) Il futuro di Porto Rico, Maurizio Stefanini; http://temi.repubblica.it/limes/il-futuro-di-porto-rico/24760

7)Puerto Rico:colonia del encanto, Leonardo Lucarelli

8)Porto Rico sceglie di diventare il 51esimo Stato Usa. La maggioranza degli elettori sogna l’America, ma sarà il Congresso ad avere l’ultima parola, Anna Mazzone; http://mondo.panorama.it/Porto-Rico-sceglie-di-diventare-il-51esimo-Stato-Usa

9) http://www.thecommonwealth.org/Internal/191086/150757/head_of_the_commonwealth/

 

IL SOGNO DI XI JINPING: IL NUOVO GOVERNO TRA RIFORME E CONTINUITA’

0
0

Il XVIII Congresso del Partito Comunista Cinese, tenutosi dall’8 al 14 novembre 2012 a Pechino, ha decretato l’ascesa al potere della quinta generazione dirigenziale che guiderà la Cina per i prossimi dieci anni. Il mandato del nuovo esecutivo è stato formalizzato nel corso del vertice annuale dell’Assemblea Nazionale del Popolo – organo supremo del potere statale – conclusosi il 14 marzo dopo, dieci giorni di lavori.

Il nuovo segretario generale del Partito, nonché comandante supremo dell’Esercito di Liberazione Nazionale e Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping, classe ’53, appartiene ai Taizi, i “principi rossi”, corrente che riunisce figli e nipoti dei protagonisti della Lunga Marcia e della Rivoluzione del ’49. Xi, nel suo ruolo di governatore del Fujian prima e dello Zhenjiang poi, ha mostrato di avere grande attenzione per i problemi sociali, per le rivolte nelle campagne, per la scontentezza di quelle porzioni della popolazione che hanno tratto ben pochi benefici dal processo di sviluppo economico.

Li Keqiang, il neo-primo ministro, è invece membro della fazione dei Tuanpai, adesione dettata dalla partecipazione alla Lega della Gioventù Comunista, a cui appartiene anche Hu Jintao; il suo precedente ruolo di dirigente delle province dello Henan e di Liaoning, ed i suoi recenti interventi palesano un’agenda politica di impronta riformista e populista.

 

Senzanome

Figura 1: Nuova leadership cinese; fonte: www.globaltimes.cn


La nuova dirigenza si presenta rinnovata, non solo per quanto concerne i membri del Comitato Centrale, ma anche alla luce dell’elezione di nuovi ministri; il corpo politico è risultato più snello in seguito all’ANP: al fine di garantire una maggiore efficienza dell’apparato burocratico e di ridurre gli sprechi politici, è stato previsto un accorpamento dei ministeri – in particolare, l’assorbimento del Ministero delle Ferrovie, recentemente coinvolto in scandali politici, all’interno del Ministero dei Trasporti – ed un ridimensionamento dell’agenzie governative (da 27 a 25).

La nuova dirigenza è chiamata a risolvere questioni importanti, prima fra tutte la gestione della congiuntura economica che sull’onda della crisi globale ha portato ad un rallentamento della “lunga marcia” di Pechino verso il primato economico. Il XII Piano Quinquennale prevede una crescita economica costante, con un tasso annuale del 7,5% ed un contenimento del tasso di inflazione.

La necessità di riforme strutturali è incalzante: la Cina deve evitare di cadere nella “trappola del reddito medio” e scongiurare un brusco arresto della crescita; deve puntare ad uno sviluppo sostenibile, adottando tecnologie “verdi” capaci di risolvere i problemi ambientali, ed incrementare dunque gli investimenti nelle rinnovabili.

Inoltre, deve espandere il settore dei servizi, modernizzare il sistema fiscale e regolamentare il sistema delle “banche ombra”.

È necessario il passaggio da un modello di sviluppo basato sulle esportazioni e sugli investimenti ad un modello trainato dai consumi interni; fondamentale risulta, oltre a ciò, accorciare le distanze tra ricchi e poveri, ridurre le sperequazioni sociali, nonché la discrepanza tra la costa e le regioni interne. A tal proposito, Xi Jinping ha sottolineato la necessità di un particolare focus sull’occupazione, proponendo la creazione di 9 milioni di posti di lavoro nel 2013.

Secondo un rapporto pubblicato di recente a Pechino dal Centro di Indagine e Ricerca sul reddito delle famiglie cinesi dell’Università di Economia e Finanza del Sud-Ovest, il coefficiente Gini1 misurato sul reddito delle famiglie cinesi nel 2010 è arrivato a 0.61, valore questo superiore al livello medio globale pari a 0.44.

Il rapporto denota che il coefficiente Gini misurato sul reddito delle famiglie urbane è 0.56, mentre quello delle famiglie rurali è pari a 0.602.

Il governo cinese non rende pubblico il coefficiente Gini dal 2000, quando era pari a 0,41; secondo quanto dichiarato dal direttore dell’Ufficio Nazionale di Statistica Ma Jiantang il coefficiente non può essere calcolato accuratamente perché mancano dati affidabili sulla fascia di cittadini ad alto reddito3.

Oltre la crescente forbice tra ricchi e poveri, uno dei problemi che ha maggiormente attanagliato gli ultimi anni della dirigenza Hu-Wen è senza dubbio quello relativo alla corruzione; il discorso di apertura del XVIII Congresso pronunciato da Hu Jintao si è focalizzato proprio sulla lotta alla corruzione, e il nuovo leader Xi si è già più volte espresso contro l’attitudine radicata in molti funzionari di abusare della propria posizione.

«La corruzione è come i vermi che si riproducono nelle sostanze in decomposizione»4, ha affermato il nuovo presidente cinese; le sue parole si riferiscono agli scandali del recente passato che hanno coinvolto alcuni funzionari locali, dalle vicende che hanno visto come protagonista l’ex segretario di Chongqing Bo Xilai e la moglie Gu Kalai, accusati dell’omicidio dell’inglese Neil Heywood, che sarebbe stato avvelenato poiché a conoscenza di alcuni capitali segreti trasferiti all’estero dai coniugi Bo e Gu; ai fatti che hanno interessato Wang Lijun, vicesindaco di Chongqing nonché capo del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, il quale, dopo aver condotto la celebre campagna anticrimine e anti-Triadi accanto allo stesso Bo Xilai, avrebbe accusato il segretario di Chongqing di corruzione.

Il governo cinese, per ovviare a tale problema potrebbe sostenere elezioni democratiche a livello locale o permettere alle ONG indipendenti di assurgere a controllori dell’operato dei funzionari locali, ma i dirigenti del PCC non intendono perdere il ruolo di supervisori assoluti e temono, dunque, riforme istituzionali in tal senso. Hanno optato, invece, per una maggior sorveglianza attraverso i mezzi di comunicazione di massa, divenuti cani da guardia dei dirigenti locali.

La lotta alla corruzione risulta fondamentale dal momento che questo fenomeno porta ad un malcontento popolare che potrebbe sfociare in mobilitazioni e proteste di massa.

Il mantenimento dell’ordine e della “società armoniosa” permane come obiettivo prioritario per la nuova classe dirigente; è ancora presto, però, sapere quale sarà la strategia che adotterà Xi Jinping nei confronti del settore mediatico.

Il potere autocratico del monopartito cinese è indiscutibile e mette completamente in ombra gli otto partiti minori rappresentati all’Assemblea Nazionale. È per questo che il presidente uscente ha escluso qualsiasi riforma politica in senso multipartitico; piuttosto ha sottolineato la possibilità di perseguire una riforma che estenda la “democrazia” popolare, ma senza copiare i sistemi politici occidentali.

L’accesso ai nuovi media e ad Internet è fondamentale nell’ottica della strategia di sviluppo adottata negli ultimi trent’anni; stare al passo con le tecnologie è necessario per la promozione delle proprie politiche e per competere a livello internazionale. Ma proprio l’ingresso nell’era digitale ha costretto il governo ad aderire ad una nuova strategia mediatica, ad una propaganda “proattiva”, piuttosto che reattiva, che sostituisca il silenzio e la censura ad una gestione dei media più attenta ed accurata, che indirizzi ed influenzi le opinioni e le notizie, che giochi d’anticipo impedendo ai media internazionali di gestire le informazioni e le notizie nazionali, com’è accaduto, ad esempio, nel 2003 con il caso SARS. A tal fine, il governo persegue nella strategia politica del soft power, strategia promossa dallo statunitense Joseph Nye in seguito al termine della Guerra Fredda e alla fine del bipolarismo.

Il concetto di soft power sottintende un cambiamentonell’adozione delle misure di potere, da quelle tradizionali di hard power – difesa, economia, vasta popolazione – a quelle intangibili quali la tradizione culturale, le istituzioni ed i valori5.

In questo senso Xi Jinping ha ribadito più volte l’importanza della realizzazione del “sogno cinese”, sogno di rinascita nazionale, perseguibile attraverso un ritorno ai classici della cultura cinese ed al confucianesimo. Un ritorno al passato ed un attaccamento alla storia dunque, un ritorno che va di pari passo con la corsa alla modernità e l’adesione alla logica del mercato. La “sinizzazione” culturale e l’esercizio del soft power assicureranno alla Cina l’attuazione della sua ascesa pacifica, quindi l’acquisizione di uno status internazionale di grande potenza, regionale e mondiale; obiettivo fondamentale è persuadere l’arena globale dell’assenza di potenziali appetiti espansionistici, mostrando un’apertura verso una diplomazia multilaterale. Una sorta di rassicurazione su scala globale volta a legittimare l’ascesa economica ed il potere monolitico del Partito.

Il governo cinese deve mostrare di essere all’altezza degli obblighi imposti dal nuovo status di potenza mondiale; deve dimostrare di essere maggiormente responsabile e trasparente; deve rendere il proprio Paese attraente, di modo da competere sullo scacchiere internazionale, smentendo l’idea stereotipata della “minaccia cinese” e portando avanti, invece, quella di “ascesa pacifica”.

 

 

NOTE:

1.  Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini, è una misura della diseguaglianza della distribuzione del reddito. È un numero compreso tra 0 ed 1. Valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione; valori alti del coefficiente indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 1 che corrisponde alla massima concentrazione.

2. CRI, Cina: coefficiente Gini 0.61, superiore al livello medio globale; China Radio International Online; 10 dicembre 2012; italian.cri.cn.

3. Talia, A.; Il mistero del gap tra ricchi e poveri; Agi China 24, 20 gennaio 2012; www.agichina24.it.

4. AGI, Cina: Xi Jinping dichiara guerra alla corruzione, una priorità; 19 novembre 2012, www.agi.it.

5.  Joseph Nye, Soft Power, Foreign Policy 80, 1990, pp. 153-171.

 

LETTERA APERTA DI GÁBOR VONA (JOBBIK) ALL’AMBASCIATORE ISRAELIANO A BUDAPEST

0
0

In seguito all’assegnazione del Premio Táncsics al giornalista televisivo Ferenc Szaniszló, l’ambasciatore israeliano a Budapest, Ilan Mor, ha pubblicamente esortato il governo ungherese a ritirare il premio assegnato al giornalista. Il presidente del partito Jobbik, Gábor Vona, gli ha replicato con una lettera aperta. Traduciamo qui di seguito il testo delle due lettere.

 

 

Con grande stupore ho appreso che il 15 marzo 2013 Ferenc Szaniszló, il conduttore televisivo di EchoTV è stato insignito del Premio Táncsics. E’ spiacevole che questo premio sia stato assegnato ad un giornalista dichiaratamente antisemita, che diffonde teorie complottiste antisraeliane, dichiara che “da Israele vengono scacciati i cittadini ebrei” e definisce Israele “Stato terrorista”. Questo giornalista considera Israele “la fonte di ogni malvagità nel mondo” e apertamente mette in questione la legittimità dell’esistenza dello Stato ebraico.

Questo giornalista usa la medesima terminologia, proclama i medesimi concetti dell’organizzazione terroristica Hamas e del presidente iraniano Ahmadinejad e non diversamente da loro auspica la distruzione dello Stato di Israele.Questo giornalista ungherese decorato si unisce a loro e ad altre forse antisraeliane e antisemite, attaccando apertamente le loro immagini distorte nel suo programma ad EchoTV.

Le sue idee non possono aver posto in una società libera e democratica come quella dell’Ungheria. In passato anche l’Autorità statale per la vigilanza sui media aveva inflitto una punizione a Szaniszló a causa delle dichiarazioni contro gli ebrei e i rom da lui fatte ad EchoTV.

Le sue prese di posizione sono classici esempi del nuovo antisemitismo europeo ed ungherese. Queste parole di odio contro Israele, lo Stato ebraico e il popolo ebraico sono contro i valori democratici, fondamento del mondo libero. Quest’uomo e i suoi pensieri devono essere rifiutati, non premiati. Faccio appello al governo ungherese, affinché compia tutti i passi necessari e gli venga ritirato questo premio, che è stato assegnato a una persona non adeguata e per motivi inaccettabili. Mentre Israele e l’Ungheria collaborano nella lotta contro l’antisemitismo, riconoscimenti di questo genere producono un’impressione negativa e ci indirizzano in una cattiva direzione.

Spero e desidero sinceramente che questo premio gli venga ritirato; e quanto prima sarà, tanto meglio sarà…

Ilan Mor
Ambasciatore dello Stato di Israele
Budapest, 18 marzo 2013

 

 

 

Signor Ambasciatore,

le ho già scritto una lettera un paio di mesi fa. In essa le chiedevo di aiutare noi Ungheresi a vedere in che modo si debba affrontare il problema della doppia cittadinanza nel Parlamento nazionale. Vediamo che cosa fa in caso del genere il “bastione della democrazia”, Israele! A noi non è riuscito di affrontare il problema; anzi, non è neppure lecito parlarne. Certo, non mi ha risposto e sapevo che non lo avrebbe fatto. Infatti, se mi avesse risposto, avrebbe rivelato che ciò contro cui anche lei ha protestato è una consuetudine quotidiana nel vostro Paese. Non molto tempo fa, parecchi esponenti politici israeliani hanno perduto il loro mandato, proprio perché avevano anche un’altra cittadinanza. Questo per quanto riguarda i due pesi e le due misure.

Ma non le scrivo per questo, bensì per lo scandaloso comunicato che oggi si è permesso di emettere. Lei attacca Ferenc Szaniszló, il giornalista che, per quanto riguarda la politica estera ungherese, rientra in quel numero ristrettissimo di persone che osano trattare anche argomenti tabù. Se piace o non piace a lei o a qualcun altro, se ritiene giusto o no quello che lui dice – questo è un altro paio di maniche. Ciascuno può avere una sua opinione su qualunque tema. Anche Ferenc Szaniszló. Se quest’ultimo ha detto o fatto qualcosa di illegale, di contrario alle leggi vigenti, allora vada a sporgere denuncia; nessuno glielo impedisce. Ma lei ha passato il limite, pretendendo di dare ordini,in veste di diplomatico accreditato in Ungheria, al governo ungherese. Anche lei può avere una sua opinione e chi vuole ascoltarla la ascolta; ma come osa dare ordini ad un’istituzione ungherese? Che c’entra lei con i premi che vengono assegnati in Ungheria e con coloro che li ricevono?

So bene che lei adesso se la caverà con una levata di spalle. Lei è un diplomatico di uno Stato che dispone della più potente lobby mondiale, perciò ha dalla sua parte armi, denaro, mezzi di comunicazione di massa, potere e quant’altro. Io sono soltanto un Ungherese. Per di più, secondo lei sono anche un “antisemita” e quindi non è assolutamente il caso di tenermi in considerazione. Io rispetto ogni popolo, ogni nazione; rispetto la fierezza di ogni popolo e di ogni nazione. Anche degli ebrei. Ho avuto la fortuna di incontrare personalmente il rabbino Moshe Ber Beck. La sua religiosa devozione e la sua coraggiosa ricerca della verità mi hanno impressionato molto.

Al contrario, trovo ripugnanti i tentativi di dominio mondiale di qualunque popolo o nazione. Anche quelli degli ebrei. E nel suo comportamento vedo proprio questa arroganza. Siccome all’infuori di me non esiste un solo presidente di partito che glielo dica, sarà bene che glielo dica io. Sarà bene per lei sentire anche un’opinione diversa, tra tante piaggerie. D’altronde quello che io le scrivo rappresenta l’opinione di moltissimi Ungheresi. Ne abbiamo abbastanza del fatto che qualsiasi Paese ci voglia impartire lezioni e dare ordini! In particolare non siamo disposti a riceverne da un Paese che se ne infischia altamente dei diritti fondamentali dei suoi cittadini e delle risoluzioni degli organismi internazionali, che prima delle elezioni compie la solita strage, perché laggiù è possibile guadagnare elettori in questo modo!

Infine vorrei anche dirle che non tutti, neanche nella mia patria, hanno paura di voi. Nemmeno io ho paura di voi. Può darsi che prima o poi venga colpito anch’io da un razzo, come un cane; ma nemmeno allora avrò paura nella mia patria. Prenda atto di ciò. Io non sarò mai il cane di Israele, come lo è qui ogni partito parlamentare. Ha capito? Mai! Non mi si può né comprare, né intimidire. E così siamo in molti. E sempre più numerosi. E nel momento in cui andremo al governo, Márton Gyöngyösi sarà il ministro degli esteri e Ferenc Szaniszló presiederà all’Autorità di vigilanza sui media. Quanto a lei, la spediremo gentilmente a casa. Quanto prima sarà, tanto meglio sarà!

Gábor Vona
Presidente di Jobbik
18 marzo 2013

SERBIA E KOSOVO

0
0

Intervista al prof. Dragan Mraovic* a cura di Andrea Turi

 

 

Dalle ultime dichiarazioni rilasciate da Belgrado, Pristina e Bruxelles sembra che la via che porta ad una normalizzazione nei rapporti tra Serbia e Kosovo sia stata imboccata e che l’accordo sia prossimo alla conclusione. Quali saranno gli scenari che apre questo accordo tra le due parti in causa? 

Non si tratta di una via di normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo, che inoltre non si chiama Kosovo, ma Kosovo e Metohija oppure Kosmet (abbreviazione che io utilizzerò). Sottolineo questo, perché la metà del Kosmet è la provincia di Metohija il cui nome vuole dire: “proprietà dei monasteri serbi ortodossi”. Infatti, quella zona risulta sul catasto completamente di proprietà dei monasteri serbi sin dal primo Medioevo come pure grandi parti del Kosovo, l’altra metà della provincia serba Kosovo e Metohija (la provincia serba Kosovo è chiamata solamente Kosovo dai politici occidentali che non hanno alcun rispetto della sovranità serba perché anch’io potrei nominare Sicilia o Sardegna, ricordando le loro pretese secessioniste, senza nominare l’Italia oppure parlare del Tirolo invece dell’Alto Adige, ovviamente solo se fossi un Massimo D’Alema. Ma io amo e rispetto l’Italia e una tale idiozia non mi viene neppure in mente).

Dunque, la Serbia non può normalizzare i rapporti con sé stessa in quanto il Kosmet è parte integrante della Serbia anche secondo la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1244. Dato che la provincia serba è occupata dalla NATO, si cerca da parte di Bruxelles (in ruolo di marionetta americana) e di Washington e Berlino (i veri occupanti) di legalizzare la secessione del territorio serbo. Gli scenari sono diversi da quelli di cui parlaCatherine Margaret Ashton, Baronessa Ashton di Upholland, Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea, “nobile” di basso calibro politico, in quanto lei esegue la politica del Grande Fratello e appoggia apertamente il suo beniamino Hashim Thaci – detto il “Serpente” per aver ucciso di mano propria almeno sei persone ed accusato della tratta degli organi dei serbi vivi – e continua a ricattare la Serbia e a chiedere il riconoscimento dello “staterello” albanese predato alla sua madre patria in cambio dell’adesione all’Ue. Sembra che tali ricatti s’avvicinino alla loro fine, perché la “trojka” serba composta dal presidente Tomislav Nikolic, dal primo ministro Ivica Dacic e il suo vice Alexander Vucic ha finalmente comunicato alla baronessa e al suo beniamino Thaci, proclamato terrorista nel 1988 dagli USA, che la Serbia non ha più spazio per ritirarsi e perciò non accetterà più alcun nuovo ricatto anche al costo di rinunciare all’adesione all’Ue (una loro dichiarazione fatta due giorni prima di quest’intervista). Bisogna tener presente che le cose cambiano velocemente e che io rispondo alle sue domande a metà marzo del 2013.

Comunque, gli scenari futuri potrebbero portare alla sospensione delle trattative perché la Serbia ha già concesso tutto il possibile, io penso anche oltre al possibile, a differenza degli schipetari del Kosmet (schipetara che usano ancora il passaporto serbo; insisto sul termine schipetari quando si parla del Kosmet perché tutti gli albanesi sono di etnia schipetara, ma solo quelli che vivono in Albania possono chiamarsi anche albanesi come cittadini dell’Albania mentre, quelli del Kosmet, sono cittadini della Serbia e appartengono alla minoranza linguistica della Serbia – dico linguistica per usare la furbizia italiana usata per i vostri italo-arb・eshë  ai quali il governo italiano non ha mai pensato di dare quei diritti che gli schipetari hanno in Serbia e per questo non gli permettete neppure d’essere un etnia. Secondo me, il governo italiano ha ragione e precede in tal maniera gli abissi etnici che potrebbero aprirsi nel caso contrario).

Dunque, gli scenari a breve termine prospettano una posizione di stallo per molti dei prossimi anni almeno fino a quando non ci sarà un cambio delle condizioni geopolitiche nel mondo.

La situazione attuale di stallo non soddisferà né gli appetiti albanesi né le pretese serbe. Gli albanesi (quelli dell’Albania) e gli schipetari (quelli del Kosmet, della Macedonia e dell’Epiro) continueranno a seguire il loro sogno della Grande Albania mentre i serbi rimarranno in agguato per cogliere l’attimo propizio per far reintegrare la loro culla storica, la loro madre genetica, la loro Firenze, alla Serbia, l’unica legittima e legale proprietaria di quelle terre anche secondo l’ ONU

La storia non finisce certo con laAshton; le soluzioni imposte dall’Eu e dagli Usa non saranno mai definitive. Ricordo che i serbi hanno liberato la regione del Kosmet nel 1912 dopo più di quattro secoli di occupazione ottomana. I miei figli conoscono la storia e sanno quale è il loro compito storico futuro. Se non ci riusciranno neppure loro tramanderanno il messaggio ai miei nipoti e così via sino alla nuova liberazione del Kosmet. Sono, perciò, possibili anche altre guerre nelle quali gli schipetari non hanno alcuna possibilità di vittoria senza l’appoggio della cavalleria americana che oggi si chiama NATO. Sono convinto che gli schipetari avranno prima o poi una scelta sola: reintegrarsi nello stato serbo così come avevano fatto durante la dinastia dei Nemanidi (fino al XV secolo) oppure nell’ex Jugoslavia con tutti i diritti di cittadini, dunque rinunciando ai loro metodi sanguinari di convivenza, oppure potranno tornare al loro paese madre, all’Albania attuale. Gli schipetari hanno un paese di riserva cioè l’Albania, mentre i serbi non hanno un altro paese serbo oltre la Serbia. Devono salvarlo o spariranno dalla Terra come gli antichi Chazar. La soluzione definitiva sarà quando gli schipetari e i serbi discuteranno o lotteranno (speriamo di no) liberamente senz’alcuna pressione straniera. Solo in tal caso potrebbero stabilire loro rapporti duraturi e convivere da buoni vicini.

 

 

Nonostante l’accordo venga presentato come un passo storico, si può parlare di una situazione in cui tra Serbia e Kosovo non ci sono vincitori ma solo sconfitti? 

Non ci sono innanzitutto passi storici perché non ci sono personaggi storici in Europa. Ditemi un solo nome tra i politici occidentali che potrebbe essere considerato storico. Un Obama che non si vergogna del premio Nobel per la pace? Quel banchiere Van Rompuy? La Merkel? Ditemi un solo motivo perché questa gente di cattive intenzioni potrebbe passare alla storia. Loro passeranno all’oblìo non appena spariranno dalla scena politica, ma prima di farlo ci creeranno purtroppo tanti problemi. Loro sono capaci solo di complicare le cose perché solo così possono stare a galla, fare piccole carriere ignobili, avere ricchezze enormi rubate alla gente semplice che sgobba per loro in tutta l’Europa. Ripeto, non hanno buone intenzioni e per questo non possono mai diventare personaggi storici e senza personaggi storici non ci sono passi storici.

Perdere una battaglia non vuole dire essere sconfitti in una guerra. Forse gli schipetari si sentono vincitori dato l’appoggio occidentale di cui godono. I serbi non si considerano sconfitti perché la verità sull’aggressione della NATO contro la Serbia, nascosta al pubblico occidentale, non rivela alcuna vittoria militare degli atlantici. Non capisco perché Milosevic aveva accettato l’accordo di Kumanovo?! Io sono stato contrario.

I bombardamenti non davano più alcun risultato oltre l’uccisione arbitraria di donne, bambini e vecchi e oltre la distruzione di obiettivi civili come ponti, ospedali, scuole, asili. L’aggressione terrestre era impossibile perché in una battaglia terrestre di Kosara del Kosmet nel 1999, i 15 mila albanesi entrati dall’Albania con i loro istruttori delle forze speciali inglesi, appoggiati dall’aviazione NATO e dall’artiglieria di lunga distanza che sparava dal territorio dell’Albania (la quale così fece aggressione alla Serbia), hanno subito una sconfitta tremenda mentre le forze serbe sono rimaste quasi intatte. In una quella battaglia, a momenti combattuta corpo a corpo, gli albanesi e gli inglesi hanno perso 1.500 soldati mentre i serbi non hanno registrato morti, ma solo feriti. Si prevedeva che solo in prima settimana di eventuali battaglie terrestri la NATO avrebbe perso oltre cinquanta mila soldati (la NATO aveva già approntato a Cipro ventimila bare frigorifere per tenere i cadaveri dei propri soldati nascosti a lungo dall’opinione pubblica occidentale e dai genitori di quelli ragazzi morti per niente) mentre noi avremmo perso circa venticinquemila soldati (la proporzione è di solito 3 a 1, cioè tre attaccanti morti su un difensore, ma noi non abbiamo sottovalutato la NATO e avevamo previsto un rapporto di 2 a 1).

L’opinione pubblica occidentale non avrebbe potuto appoggiare più la NATO se questa avesse perso sul campo 50.000 giovani di varie nazioni occidentali in una settimana sola e la guerra sarebbe finita. I criminali di guerra che hanno aggredito la Serbia lo sapevano e perciò hanno spinto Milosevic, non so come, a firmare l’atto che sanciva, di fatto, l’occupazione del Kosmet da parte della NATO. Forse perché lui è stato un uomo filoamericano, parlava inglese, aveva studiato in America e non all’Università di Belgrado. Insomma, io l’accusavo d’essere un’ uomo americano. A dire la verità lui ha fatto fino al 1996 tutto su ordini e secondo il disegno americani. Ha rovinato la Repubblica Srpska, i serbi della Krajina della Croazia… Invece devo riconoscere che poi, durante i bombardamenti e durante il processo del Tribunale americano dell’Aia, prima d’esserci stato ucciso, ha salvato il suo onore e l’onore della nazione.

 

 

Un’analisi effettuata da Radio Internazionale di Serbia sostiene che la domanda sostanziale cui dovremmo sforzarci di dare una risposta non sia tanto se Belgrado e Pristina siano pronte o meno a scelte politiche coraggiose ma, piuttosto, se Bruxelles (Germania in testa) e Washington siano pronte a prendere la coraggiosa decisione di spingere le autorità di Pristina ad accettare il compromesso della prospettiva europea. Pristina, quindi, non sarebbe che una pedina da muovere sullo scacchiere balcanico. È d’accordo con questa affermazione? 

La Radio internazionale di Serbia ha forse ragione. Gli schipetari ubbidiscono ciecamente all’occupante atlantico. I loro capi, proclamati nel 1998 terroristi dagli americani, Hashim Taci e Ramush Haradinaj, sanno benissimo che i servizi segreti  atlantici potrebbero portarli subito alla sedia elettrica, se solo volessero, per i delitti che hanno compiuto anche personalmente e per le enormi ricchezze accumulate con traffici di droga e con la vendita dei cuori, delle reni, dei fegati estratti ai serbi presi vivi e sani. Ma non vogliono, perché questi mostri così ricattabili ubbidiscono e tengono sotto controllo le masse schipetare, mentre gli atlantici realizzano nel Kosmet i loro programmi di occupazione delle posizioni strategiche antirusse, poi sfruttano enormi risorse minerarie gratis, e controllano anche l’Ue alla quale comunque credono poco.

Non per caso la seconda base estera americana per la grandezza e per le armi sofisticate e soprattutto per gli impianti elettronici di spionaggio è Camp Bondsteel presso Urosevac nel Kosmet. Da quel punto eccezionalmente strategico spiano tranquilli non solo l’est europeo, la parte europea della Russia, ma anche tutta l’Europa. E guarda caso la zona del Bondsteel non è stata bombardata con i proiettili all’uranio impoverito come altre 122 posizioni nel Kosmet, in cui due terzi di questi proiettili cancerogeni sono stati lanciati nelle zone di responsabilità attuale dei carabinieri italiani. Pure questo fatto testimonia dei programmi precisi degli USA prima dell’aggressione contro la Serbia tra i quali da annoverare anche la costruzione di questa base militare americana in una zona sana per i loro soldati. Gli altri soldati appartenenti ai vari eserciti europei possono tranquillamente rimanere nelle zone infette da uranio impoverito e morire di cancro com’è già successo a tanti soldati italiani che hanno fatto le loro missioni nel Kosmet.

Gli schipetari non hanno una loro politica, ma solo un loro scopo: la Grande Albania. La politica del Kosmet la fanno gli USA e Berlino che dovrebbero andarsene via se dovessero favorire la parte serba. Loro preferiscono appoggiare il genocidio dei serbi nel Kosmet offrendo agli schipetari l’illusione della Grande Albania che rinunciare ai loro piani strategici, politici ed economici. Perciò loro non hanno alcun interesse a spingere Pristina a dialogare sul serio e il dialogo di cui parlano consiste sempre e solo nel pressare serbi a fare altre concessioni. Ma sembra che siamo arrivati alla fine di questo gioco. Noi non abbiamo più alcuno spazio per qualche manovra indietro perché dietro c’è rimasto solo l’abisso della nostra nazione e nessun politico serbo avrebbe il coraggio di portarci dentro perché dovrebbe essere lui per primo a buttarcisi giù.

 

 

Il premier serbo Dacic lo scorso 12 marzo ha affermato che “Pristina non è pronta ad abbandonare la propria posizione perché ha il supporto degli Stati Uniti”. Quali sono, ad oggi, gli interessi di Washington nella regione?

Il primo ministro serbo Dacic che conosco di persona da molti anni, come pure la maggioranza dei nostri ex politici e questi attuali, non ha inventato un buco nel vaso. Secondo me doveva dirlo molto prima. Si comporta, invece, in una maniera lunatica e io non ho troppe simpatie per il modo in cui conduce le trattative con Bruxelles. Un giorno dice una cosa, un giorno un’altra. D’altro canto sembra imitare le maniere di un piccolo Napoleone. Ma non ci sono piccoli o grandi Napoleone e lui non lo sa ancora. C’è stato e ci sarà un Napoleone solo.

Gli interessi di Washington sono enormi. Se non avesse combinato la distruzione dell’ex Jugoslavia, dopo la caduta del muro di Berlino a Washington avrebbe avuto una sola soluzione: Go home! Essendo gli statunitensi tra i principali promotori dei disordini balcanici e presentandosi come l’unica alternativa capace di risolvere i problemi che loro stessi hanno creato, si sono impossessati, da filibustieri, dei diritti e dei territori che non gli appartengono calpestando tutte le leggi internazionali e umiliando le Nazioni Unite.

La politica di Washington è stata ben spiegata a noi serbi da un ufficiale americano in servizio nel Kosmet: “Noi non siamo venuti qui a risolvere i vostri problemi, siamo venuti a crearli e ad amministrarli.” Washington controlla dal Kosmet anche l’Europa, l’unica vera possibile concorrente alla potenza americana sia sul piano tecnologico, sia industriale, sia economico, sia militare. Bisogna accerchiare la Russia e ridurla ai 50 milioni di abitanti rubandole il Mar Caspio e la Siberia, le due zone più ricche di energie e di minerali del mondo. L’altopiano del Kosmet è ideale per il lancio dei missili contro la Russia, ve lo potrebbe spiegare ogni sottoufficiale italiano. Inoltre si tratta anche di un interesse americano geostrategico quello di controllare le valli lungo i corsi dei fiumi Morava e Vardar, un tratto estremamente importante strategicamente che pure i nazisti tedeschi hanno voluto controllare occupando l’ex Jugoslavia e la Grecia.

Kosmet è la zona più ricca in Europa di acque e di minerali rarissimi che servono anche per i programmi spaziali. Installandosi nel Kosmet e appoggiando la separazione del Montenegro instaurandoci, poi, il regime mafioso di Djukanovic, gli USA avranno una nuova base militare navale a Bar, nell’ex Antivari di fronte a Bari, molto superiore alle basi della NATO di Taranto o di Napoli. A Bar ci sarà una base americana e non della NATO, perché gli americani hanno bisogno anche delle proprie basi per tener sotto controllo pure la NATO.

Fino a quale dettaglio programmano i loro fini economici politici e militari lo illustrerei con il seguente esempio. A 150 chilometri a sud da Belgrado c’è la città di Kragujevac dove si producevano macchine e camion FIAT. La stessa fabbrica produceva anche le armi militari, quelle da caccia e quelle sportive. negli anni novanta del secolo scorso, un anno prima di introdurre le sanzioni all’ex Jugoslavia, gli americani avevano investito, dopo altri investimenti precedenti, sette milioni di dollari in una linea di produzione di questa fabbrica la cui qualità è insuperabile nel mondo da oltre un secolo per quanto riguarda le carabine. Questa fabbrica sta nello stesso cortile della fabbrica di automobili e della fabbrica camion e della centrale d’energia cittadina. Gli aerei della NATO hanno raso al suolo le fabbriche FIAT di macchine e di camion, lasciando gli operai della città senza lavoro e senza la centrale d’energia, lasciando inoltre la città senza riscaldamento. A poche decine di metri dalla fabbrica dei camion c’è la fabbrica delle armi. Nemmeno un proiettile l’ha colpita. È rimasta intatta. Una fabbrica delle armi che la NATO non distrugge mentre devasta i fabbricati civili vicini! Immaginate chi è stato il primo, dopo la firma della pace, ad appropriarsi di questa fabbrica? Gli USA, ovviamente, anzi ci hanno fatto investimenti pochi mesi dopo la caduta di Milosevic.

 

 

Il Presidente Nikolic ha dichiarato, invece, che l’Unione europea rappresenta la prima opzione per Belgrado ma questa rimane soltanto una delle opzioni, non un obbligo. Pensa che il futuro della Serbia sia nella casa comune europea? In caso contrario, quali sono le altre opzioni sul tavolo per Belgrado?

Bella questa metafora “la prima opzione” ma quando mai abbiamo sposato il nostro primo amore. Forse proprio per questo lo ricordiamo perché se l’avessimo sposato…

L’Ue non aveva alternativa solo per il regime precedente filoatlantico dell’ex presidente Boris Tadic. Ma solo gli imbecilli non hanno un’alternativa.

Il presidente Nikolic dice semplicemente che l’Ue non è più l’unica, perché ci sono altri mondi, per esempio la Russia o quelli eurasiatici, Cina e India. Poi quelli latinoamericani. L’Ue rimane per noi una grande realtà con la quale vogliamo collaborare al massimo possibile. Ma non può più essere l’unica. La Serbia non deve essere un paese imprigionato dall’Ue. La Serbia dev’essere un paese del mondo.

L’Europa ci diventa troppo stretta. I ricatti sempre nuovi degli eurocrati di Bruxelles rovinano l’immagine della Vecchia Signora in Serbia, ma noi serbi sappiamo di appartenere al corpo europeo cristiano, alla grande cultura nata sui pilastri della Grecia antica e della Roma antica. Ciò non deve comunque impedirci di collaborare con i nostri fratelli russi, con la Cina con la quale abbiamo sempre avuto ottimi rapporti, con l’India in ascesa, con paesi africani, come l’Angola, e con quelli latinoamericani. Per poter farlo non vogliamo associarci nel senso politico – militare né all’Ue, né alla Russia, né all’Eurasia nascente. Per poter collaborare con tutti quando c’è un interesse di entrambe le parti, dobbiamo rimanere neutrali sul piano politico e militare. Il nostro parlamento ha votato la risoluzione di neutralità del paese. Secondo me, è la miglior soluzione che rispecchia il nostro profondo senso d’indipendenza da qualsiasi padrone e di vicinanza con qualsiasi nazione sul piano economico – culturale. I primi risultati sono già visibili. Dalla Russia abbiamo avuto già un investimento nelle ferrovie e nelle strutture energetiche che supera il miliardo di dollari. Putin ci ha già messo a disposizione altri dieci miliardi di dollari per i progetti futuri. La Cina sta costruendo un ponte nuovo sul Danubio e sta investendo nelle nostre autostrade. L’India è uno dei più grandi investitori in Serbia. Gli Emirati Arabi hanno firmato da poco grandi accordi economici con la Serbia tra i quali la costruzione di sistemi d’irrigazione nella provincia autonoma di Vojvodina ricca di acque e con le terre più fertili d’Europa.

Dall’Ue invece non arrivano che ricatti umilianti e pressioni affinché rinunciamo alla nostra culla storica nel Kosovo e Metohija. Ma non solo storica. Il 70% delle nostre riserve di carbone stanno in quella zona. Poi tanti altri minerali rarissimi e le riserve ingenti di piombo, zinco, oro e argento.

La Serbia, comunque, non farà mai parte dell’Ue così per come è strutturata oggi, né della NATO che ha compiuto crimini di guerra contro il mio popolo. Fare parte della NATO sarebbe un puro masochismo, mentre con l’Ue i patti sono chiari. L’Ue dice che alla fine del processo d’adesione della Serbia all’Ue noi serbi dovremo comunque riconoscere l’indipendenza della nostra provincia Kosmet. Noi serbi non riconosceremo mai la secessione illegale della nostra provincia fatta a mano armata della NATO. Il risultato di questo dilemma sarà che l’Ue non ci vorrà più oppure noi rinunceremo all’adesione. Dunque il nostro governo fa lo struzzo per quanto riguarda quanto detto sopra solo per non far arrabbiare troppo Bruxelles e Washington, mentre questi ultimi due fanno lo struzzo perché se ne fregano dei destini dei popoli, si preoccupano solo di star bene mentre sono vivi come Luigi XIV: “Dopo di me, il diluvio!” Fanno come lo struzzo per poter parlare di “grandi progressi” inesistenti e di loro grandi successi inventati per poter vivere ancora nell’opulenza. Come in quella favola del nuovo vestito del re. Tutti vedono che Bruxelles è nuda, ma…

L’unico modo per evitare una tale situazione sarebbe la trasformazione dell’Ue da un’unione delle nazioni telecomandate dagli eurocrati di Bruxelles, dai banchieri e dagli interessi americani, in un’Europa delle nazioni sovrane indipendenti dagli Usa, senza la NATO, con un Esercito europeo e con il pieno rispetto dell’identità e della sovranità delle nazioni di una tale Europa. Un’Europa che non deve dimenticare la Russia che sta anche nell’Europa non solo geograficamente, ma anche storicamente, culturalmente e che con le proprie risorse energetiche e minerarie può approvvigionare i paesi europei con l’energia per molti secoli futuri non dimenticando anche un nuovo grandissimo mercato. Io sono contrario all’Ue delle banche e del dominio di chiunque sia, Obama o Merkel, invece di un autogoverno delle nazioni europee. Ma voterei per un’Europa delle nazioni libera e orgogliosa. Anzi, mi assocerei a tale Europa come la stragrande parte dei serbi. Un’Ue di oggi non piace alla stragrande maggioranza dei serbi.

 

 

La Serbia non riconosce il Kosovo. Il Presidente Nikolic nel momento dell’insediamento ha lanciato l’avvertimento di essere pronto a lottare per il Kosmet. Sulla base di questo, le chiedo, come giudica il comportamento delle istituzioni serbe nell’affrontare il problema Kosovo?

Con l’ex regime di Boris Tadic le nostre istituzioni si sono comportate vergognosamente offendendo l’orgoglio serbo. Tadic è una persona filoamericana che ha troppi difetti personali, per esempio, troppe amanti e figli fuori matrimonio. Gli atlantici cercano tra di noi solo le persone che hanno qualche difetto per appoggiarle perché tali persone sono manovrabili. Tadic è un narciso che intendeva la posizione del Presidente dello Stato come una possibilità di promozione personale. Da professore di liceo che non si è affermato neppure in quel ruolo, grazie alla morte tragica dell’ex primo ministro serbo Zoran Djindjic, colse un vuoto nel Partito democratico per arrivare a galla tra le due correnti del partito in lotta. Dove due litigano… Poi si è trasformato velocemente in un “messia” tragicomico che dava consigli alla nazione su tutto: medicina, salute, meccanica, politica, geografia, allevamento delle mucche, sport… Parlava delle finanze del paese e degli investimenti industriali senza mai aver assaporato l’ambiente di lavoro serio delle finanze o delle fabbriche. Faceva ridere.

Ora le cose sono cambiate anche se una parte del governo è rimasta composta da elementi del governo precedente manovrato da Tadic (la corrente di Dacic, ex portavoce di Milosevic ora il primo ministro, poi quella di Dinkic ora il vice per gli affari finanziari, un beniamino americano che nel due mila aveva conquistato la Banca nazionale serba portando di persona una mitragliatrice in mano, che aveva rovinato le banche serbe e le istituzioni di controllo finanziario serbo che funzionavano molto bene all’epoca. Insomma uno da galera nei paesi democratici. A A causa del risultato delle ultime votazioni e delle pressioni atlantiche non si poteva attuare subito una svolta determinante nel formare il nuovo governo, ma si è fatto comunque un gran passo in avanti nei confronti del governo precedente. Grazie soprattutto al Presidente dello Stato Tomislav Nikolic e al vice Primo Ministro (in sostanza il vero Primo Ministro) Alexander Vucic. Ma nel corso dell’anno si prevedono nuove elezioni anticipate oppure una gran ricostruzione del governo per eliminare i resti atlantici che mettono ancora i bastoni tra le ruote serbe e per rinforzare ancora le posizioni di Nikolic e Vucic che godono in questo momento delle simpatie della maggioranza dei serbi.

 

 

Un sondaggio condotto da B92 TV sulle opinioni della popolazione serba ha messo in evidenza come il 63% degli intervistati abbia riconosciuto come il Kosovo sia in pratica un’entità indipendente da Belgrado. Questo dato riflette una scollatura tra istituzioni e opinione pubblica oppure anche nel panorama politico esiste una convinzione mascherata che la Serbia possa soltanto salvare le proprie posizioni in Serbia senza riottenere la sovranità sulla regione?

B92 TV non è una stazione credibile. Non diffonde notizie ma cerca di creare gli eventi su cui dare notizia. È stata fondata da Soros ed è finanziata da lui e dalle fonti americane per cambiare il codice mentale dei serbi. È generalmente odiata in Serbia. È un portavoce atlantico. La notizia di cui parla lei è stata diffusa da Politika, il quotìdiano di Belgrado privatizzato dagli austriaci. Comunque nelle indagini citate da voi si dice anche che il 65% dei serbi preferisce non rinunciare al Kosmet che aderire all’Ue. Voi sapete che le indagini si fanno per soddisfare chi le ha pagate. Ci sono altre indagini in Serbia, forse esagerate anche queste, che dicono che l’85% dei serbi non accetta la NATO e che due terzi sono contro l’adesione all’Ue. Poi secondo tutte le indagini, comprese pure quelle della B92 TV, il desiderio dell’aderenza dei serbi all’Ue è ai più bassi livelli storici, cioè la maggioranza dei serbi è contraria all’adesione all’Ue. Un referendum a favore dell’adesione all’Ue oggi non è possibile perché l’Ue non è più la prima alternativa dei serbi anche se il presidente Nikolic continua a sostenerlo per ragioni diplomatiche, cioè cerca di velare la verità per danneggiare il meno possibile la Serbia e salvarla da un eventuale vendetta degli eurocrati. Le ultime indagini hanno dimostrato che anche la maggioranza dei giovani la pensa così. Mentre facevo il professore, tre anni fa, tutti i miei allievi del liceo sono stati contrari all’adesione all’Ue. Si vede che neppure dopo dodici anni di tremenda propaganda filoatlantica i cervelli dei giovani serbi sono stati plagiati e gli atlantici non sono riusciti a cambiare il codice genetico serbo.

 

 

Ultima domanda: la situazione nel nord del Kosovo è nota a tutti. Ma come è quella delle altre enclavi serbe sul territorio? Pensa che, nel caso di un accordo Belgrado – Pristina, possa scoppiare il problema delle municipalità albanesi della valle di Presevo?

La situazione dei serbi è insostenibile e sarà sempre peggiore. Si sta un po’ meglio nel nord di Kosovska Mitrovica, mentre nelle enclavi a sud c’è un inferno. Ogni giorno attacchi contro i beni e le persone serbe.

Per esempio, il 24 febbraio, nel centro della città di Kosovska Mitrovica, alle ore 23.10, i terroristi schipetari hanno lanciato una bomba sul balcone dell’appartamento al primo piano di un cittadino serbo, a poche decine di metri dalla scuola elementare San Sava. Nei giorni precedenti erano state lanciate altre due bombe contro residenze di famiglie serbe, il 20 febbraio un minibus con gli allievi serbi del paese di Suvi Do è stato accolto da lanci di sassi mentre attraversava il paese Muagere, nel quale abitano gli albanesi; nel paese di Strpce sono stati malmenati un ragazzo e un bambino di nove anni, colpevoli di essere serbi; Petar Ivanovic, di Donja Bitinja, è finito in ospedale dopo essere stato picchiato perché non voleva cantare l’inno albanese. A Kosovska Mitrovica una macchina appartenente al serbo D. J. è stata data alle fiamme nella via di Lola Ribar. Un terrorista albanese ha mitragliato la pasticceria “Fornetti” nel quartiere residenziale serbo. A metà febbraio, da un palazzo dei quartieri albanesi di Kosovska Mitrovica è stata lanciata una granata e sono stati feriti altri due ragazzi serbi. Lunedì 4 febbraio, sempre a Kosovska Mitrovica, una bomba a mano è stata lanciata contro la finestra della stanza di due bambini serbi, Milica di dieci anni e Borivoje Vucetic di tre anni. Sono finiti in ospedale ma per fortuna sono sopravvissuti. Milica ha una scheggia nell’orecchio e una nel cranio e Borivoje è stato colpito al collo, al petto e al volto. Visini insanguinati. Tutta la stanza ricoperta di schegge della bomba. I bambini hanno avuto la fortuna di trovarsi in quell’istante dietro una grossa poltrona. Ora si trovano in un ospedale di Belgrado e dicono che vorrebbero vivere nel Kosovo e Metohija, ma che in quella casa non torneranno più per la paura.

Gli schipetari distruggono sistematicamente i cimiteri, le tombe (distrutte oltre 10.000 dalla pax americana del 1999 fino ad oggi). A metà gennaio di quest’anno sono stati distrutti di nuovo vari cimiteri serbi e centinaia di tombe sono state abbattute. Il monastero Alti Decani del XIII secolo, inserito nella lista dell’Unesco, è stato salvato il 7 febbraio – per la quarta volta dal 2001 – dalla distruzione dopo l’aggressione in massa degli albanesi soltanto grazie all’intervento deciso dei carabinieri italiani, addetti alla guardia del monastero. Insomma, le poche vestigia storiche serbe del medioevo ancora in piedi nel Kosovo e Metohija sono ancora salve solo grazie al contingente Kfor inviato dall’Italia. Le altre forze, quelle tedesche, americane, danno man forte e appoggio ai terroristi. In dodici anni d’occupazione, dopo migliaia di attacchi contro i serbi, nemmeno un delinquente schipetaro è stato arrestato e processato. Dopo che le operazioni di guerra della Nato si sono concluse, ossia dopo l’occupazione atlantica della ancestrale terra serba, è stato consentito ai terroristi albanesi di espellere dal Kosovo Metohija più di 250 mila serbi, ossia due terzi di quanti ce ne erano prima della guerra, e 30 mila altri di nazionalità non albanese.

Le milizie terroristiche schipetare hanno potuto anche saccheggiare, occupare o distruggere circa ottantamila case di proprietà dei cittadini serbi, e distruggere completamente centinaia di villaggi. Hanno abbattuto o danneggiato gravemente più di 110 chiese e monasteri serbo-ortodossi, di cui molti costruiti tra il XIII e il XV secolo. Hanno dissacrato molti cimiteri serbi e distrutto monumenti di importanza storica. Tutto ciò è accaduto sotto gli occhi della comunità internazionale, e senza che alcuno dei responsabili di questi atti terribili fosse mai identificato e arrestato. Oggi i 130mila serbi rimasti continuano a vivere chiusi in piccole e grandi enclave, privati di tutti i diritti umani, come la libertà di movimento, il diritto a lavorare e a godere i frutti del proprio lavoro, il diritto a disporre di condizioni normali di educazione e di assistenza sanitaria. E dopo tutto questo Bruxelles e Washington continuano a parlare dei “progressi” del narcostaterello di schipetari della provincia serba del Kosovo e Metohija. Creano un’immagine artificiale per l’opinione pubblica occidentale per non riconoscere il disastro della loro politica.

Non esiste la valle di Presevo. La geografia non conosce questo termine come pure non conosce il termine “Balcani occidentali”. Questa è un’invenzione meglio dire una truffa americana e schipetara per formulare un concetto geografico da mettere sulla bilancia antiserba come contrappeso del Kosmet, con l’intenzione finale di unire questa zona al Kosmet e separarla dal resto della Serbia seguendo la ricetta della secessione già compiuta della provincia serba. Si tratta dei comuni di Bujanovac e Presevo e qualcuno ci aggiunge anche il comune di Medvedja. La zona si chiamava e si chiama semplicemente il sud della Serbia oppure Poljanice (“Campi” in lingua serba perché ci sono campi fertili). Fino al 2000, fino all’arrivo della NATO nel Kosmet, il termine “la valle di Presevo” non esisteva nella geografia. Non esiste neppure ora fuori della terminologia degli occupanti NATO e della minoranza etnica schipetara. Gli schipetari di questa zona sono telecomandati da Pristina. Si fanno vivi precisamente nei momenti di trattative politiche o quando bisogna alleggerire la posizione del governo fantoccio di Pristina e per questi motivi sono pronti a provocare nuovo sangue con le ricette terroristiche già sperimentate ed approvate dagli atlantici.

 

Belgrado, il 18 marzo 2013.

 

 

 

 

* Dragan Mraovic:  giornalista ed operatore economico serbo, dottore in Lingua e letteratura italiana ed in Lingua francese. Ex console jugoslavo in Italia, docente (Università di Bari) Contributi pubblicati in “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”: Intervista (nr. 2/2006, pp. 197-211), Geopolitica recente, attuale e futura nei territori dell’ex Jugoslavia (nr. 1/2007, pp. 149-162).

“XI JINPING A MOSCA: L’INCUBO DI BRZEZINSKI E KISSINGER È APPENA DIVENTATO REALTÀ”. INTERVISTA A LEONID SAVIN

0
0

Intervista a cura di Andrea Fais

 

La situazione in Siria sembra prossima ad un accordo tra le controparti. Alcuni osservatori lo considerano come una possibile nuova Jalta. La NATO non può proseguire nel sostenere il terrorismo per così lungo tempo, il governo turco rischia di diventare sempre più impopolare tra le masse e il “doppio criterio” morale occidentale in relazione al terrorismo è ora persino più lampante alla luce della recente missione militare in Mali. Per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, Washington è costretta ad abbandonare i suoi piani nel Vicino Oriente e forse sarà costretta ad accettare un compromesso con la Russia. Cosa sta accadendo?

La situazione siriana mostra ora la crisi dei piani dell’Occidente e dei suoi alleati nel Vicino Oriente. Anzitutto uno scenario libico non era possibile in virtù del veto di Russia e Cina. In secondo luogo, la Siria ha una struttura di sicurezza migliore della Libia e può contare su un’alleanza militare con l’Iran da cui ottiene notevoli rifornimenti militari. Anche la Russia ha ceduto materiale bellico alla Siria oltre a notevoli aiuti economici. In terzo luogo, è diversa l’influenza in relazione ai fattori strategici e tattici. La Libia era accerchiata su due fronti da Paesi dove la cosiddetta primavera araba era già cominciata. La Siria può fare affidamento su Hezbollah in Libano e sull’amicizia del governo iracheno.

Il problema è invece rappresentato dalla Giordania e dalla Turchia dove si trovano i campi di addestramento dei ribelli. L’ultimo tentativo dell’Occidente è stato la creazione di un Comando Generale diretto da Salim Idriss con il decisivo supporto logistico e materiale della Croazia e della Libia attraverso la Turchia, la Giordania e il Libano così come di istruttori statunitensi e britannici. Sembra che tutti i gruppi miliziani possano disporre di circa 50.000 unità e questo costituirebbe una seria minaccia. Tuttavia, l’opposizione armata non è unita e ci sono diversi gruppi terroristici al suo interno. Così, questo progetto probabilmente fallirà, passando alla storia come il “Free Syrian Army” costruito dai servizi segreti della Turchia e degli Stati Uniti. Per di più l’Occidente ormai non ha margini per quanto concerne la propaganda e l’informazione di guerra.

Dall’altro lato, il governo siriano è ancora solido sebbene siano ancora presenti ondate di attacchi terroristici e gihadisti. Al momento i miliziani hanno buone possibilità di scappare e trasferire la guerra nel Mali dove vendicarsi contro l’Occidente secolare. Non hanno opzioni in Siria. Nella prima ipotesi saranno eliminati dalle forze governative e viceversa, dopo un eventuale successo (che è quasi impossibile), saranno sostituiti da pragmatici novizi che diventeranno i fantocci dell’Occidente. In ogni caso, la questione non chiama in causa un compromesso con la Russia, ma semplicemente il riconoscimento dei principi del diritto internazionale. E parlando di doppio standard, cosa dovremmo dire delle guerre dei cartelli della droga in Messico e in Colombia? Soprattutto in Messico, ai confini con gli Stati Uniti, e con gli aiuti forniti a Felipe Calderon da Washington? Migliaia di uomini e donne sono stati uccisi negli ultimi anni. In questa situazione Mosca ha un vantaggio primario. E anche la Cina.

 

 

La Russia e la Cina hanno giocato un ruolo determinante al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il loro veto ha impedito una guerra quasi certa e le conseguenze catastrofiche che questa avrebbe avuto nella regione. Durante l’ultimo vertice dei primi ministri dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai a Bishkek, il vicepresidente afghano Karim Khalili ha richiesto il sostegno della Struttura Regionale Anti-Terrorismo dell’Organizzazione per il 2014, quando la coalizione occidentale ISAF abbandonerà il Paese. L’alleanza Mosca-Pechino sarà capace di neutralizzare il terrorismo e realizzare un vero piano di pacificazione dell’Afghanistan?

La Russia e la Cina stanno già facendo molto nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Inoltre, la Cina sicuramente farà il suo ingresso in questo Paese con le sue enormi capacità finanziarie, fondamentali per la ricostruzione e lo sviluppo. Dal momento che la Cina si muove secondo altri principi per quel che riguarda le politiche finanziarie e del prestito, i suoi sforzi avranno successo dopo l’attività disastrosa del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e delle società transnazionali occidentali. Anche l’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (CSTO) guarda all’Afghanistan, soprattutto in relazione al traffico di droga. Il terrorismo è un fenomeno duplice. In primo luogo ha natura politica. Se la politica locale cambierà complessivamente, non ci sarà spazio per le attività terroristiche. Molti esperti occidentali lo dimenticano. In questo caso, abbiamo bisogno di capire molto chiaramente che i principi “occidentocentrici” legati ai concetti di democrazia parlamentare e di diritti umani non funzioneranno mai in Afghanistan! Una società tradizionale come l’Afghanistan ha bisogno di un altro modello. Se parliamo di terrorismo inoltre dobbiamo tenere in conto che è un fenomeno di portata globale e la sua interconnessione è determinante. Dobbiamo esaminare tutti i possibili collegamenti, nodi e scali per individuare i centri ideologici, le fonti di finanziamento, i campi di addestramento e i nascondigli. L’Afghanistan è compreso tra il Pakistan, dove c’è un’analoga attività militante, e alcune repubbliche ex-sovietiche a maggioranza islamica. Dall’altro lato, c’è anche l’Iran che può giocare un ruolo determinante nella lotta contro il terrorismo e l’estremismo. Ovviamente, quando le forze statunitensi abbandoneranno l’Afghanistan ci sarà una sindrome da combattimento per qualche tempo ancora. Ma dopo il caos seguirà comunque l’ordine.

 

 

I Salafiti arabi non sono i soli terroristi all’interno del mondo islamico. L’estremismo wahhabita mette in pericolo anche la Russia e la Cina specie a causa dell’attrazione che riesce ad esercitare su alcuni tatari della Crimea, su alcuni ceceni, su alcuni daghestani, su alcuni uiguri e su alcuni dungani. La manipolazione che queste sigle operano ai danni del vero Islam è ancora capace di coinvolgere molti giovani, come sottolineato dal presidente uzbeko Islom Karimov alcuni anni fa in relazione ai disordini di Andijan. Come sono percepiti i musulmani in Russia? Come “stranieri” o come “patrioti”? 

Sì, negli ultimi anni il wahhabismo è dilagato in diversi Paesi. Non solo in Asia, in Nord Africa e nel Vicino Oriente, ma anche in Europa e in Russia. L’Islam tradizionale in Russia non ha origini salafite. Il wahhabismo una setta salita al potere in Arabia Saudita col sostegno dell’Impero Britannico. Sul piano geopolitico osserviamo semplicemente la prosecuzione del Grande Gioco [la sfida tra Russia zarista e Gran Bretagna nel XIX secolo, ndt] nel XXI secolo, dove un ruolo ancora più attivo viene svolto dall’Arabia Saudita e dal Qatar (senza dimenticare che Al-Jazeera è stata creata con il sostegno britannico, soprattutto nella realizzazione di servizi speciali!). Queste petromonarchie sono ovviamente coinvolte nella guerra contro la Siria (sebbene rappresentino diversi punti di vista nel conflitto: il Qatar vuole fare tabula rasa, mentre l’Arabia Saudita è interessata a mantenere intatta la base infrastrutturale del Paese). Tornando alla Russia, posso dire che l’Islam qui presente è sunnita, stanziato nella Repubblica del Caucaso Settentrionale, nel Tatarstan e nel Bashkortostan, nella regione del fiume Volga. I due principali madhhab [scuole giuridico-religiose, ndt] sono quello hanafita e quello sciafeita. Tuttavia gli azeri (in Russia circa due milioni) sono per lo più sciiti. Nel Caucaso ci sono ordini sufici e confraternite (la Naqshbandiyya e la Qadiriyya sono le più famose) che si oppongono ai salafiti. Gli ordini sufici sono formati su base etnica, ma l’influenza wahhabita è presente anche nel Caucaso. Molti giovani aderiscono a queste sette perché non c’è bisogno di studiare e apprendere così tanto come nella tradizione sufica. E i salafiti sono sostenuti dall’Arabia Saudita con ingenti finanziamenti e con agevolazioni per il Pellegrinaggio a Mecca. Alcuni daghestani mi hanno detto che è molto facile sapere chi è sostenuto dai Sauditi. E non dall’apparenza o dal vestiario, ma dall’automobile! La ricchezza è l’arma dei Sauditi e molti poveri caucasici aderiscono al wahhabismo per arricchirsi. Come possiamo definire tutto questo? Religione in cambio di denaro o reclutamento sotto l’insegna del credo? Oltre ai militanti radicali, in Russia c’è un altro progetto alienante, che è l’”Islam soft” di Fethullah Gülen. Questi ha raccolto una rete di adepti della setta Nurjullar nelle repubbliche caucasiche, in Siberia, a Mosca e a San Pietroburgo. Ma questo movimento ora è fuori legge. La Turchia è ovviamente coinvolta in questa trama e ha utilizzato il movimento gulenista per scopi di infiltrazione. In sostanza l’idea principale è vecchia come il mondo: preparare una propria élite nei Paesi stranieri e dopo molti anni prendervi il potere. Questo tipo di “Islam soft” è prevalentemente panturchista. Credo che l’Islam radicale come progetto politico (Emirati del Caucaso) e gli sforzi di Gülen falliranno in ogni caso.

 

 

Cosa pensi della nuova dottrina strategica della NATO stabilita nel Maggio 2012? Credi che la cosiddetta Smart Defense rappresenti un obiettivo realistico e possibile o che invece sia soltanto l’ultimo tentativo dell’Occidente di non ammettere il declino dell’egemonia strategica statunitense e di non alzare “bandiera bianca” in tal senso?

Dobbiamo comprendere molto chiaramente che la NATO non è soltanto un’alleanza difensiva contro un nemico inesistente, ma anche un potente strumento degli Stati Uniti in Europa e all’estero. Per definizione, ad esempio la NATO non può esistere in Afghanistan e nella nuova dottrina vediamo un’idea di NATO globale che implica una dominazione globale del Pentagono con i suoi alleati europei. La parola “smart”, inoltre, è legata alla politica estera degli Stati Uniti. Joseph Nye e i suoi colleghi hanno proposto questa definizione per la nuova dottrina nordamericana ben prima della prima elezione di Obama. Non erano interessati a chi fosse il nuovo presidente, ma hanno sviluppato quest’idea per il nuovo capo. La Smart Defense è soltanto l’integrazione di hard e soft power, nel senso che le guerre e la brutalità continueranno al fianco di progetti paralleli di sorveglianza, interferenza, propaganda, manipolazione e cyberpolitica. Tuttavia, per l’Unione Europea il problema è costituito dai fondi a disposizione e dalle prospettive di innovazione tecnologica. In ogni caso, ogni singolo Paese è interessato ad ottenere una preferenza e i membri della NATO che hanno una propria industria difensiva sono intenzionati soltanto a fare affari dalla vendita di sistemi d’arma, equipaggiamenti e così via. Il progetto promosso qualche tempo fa in materia militare dal Gruppo di Visegrád [formato nel 1991 da Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia, ndt] è un altro esempio dello scetticismo nei confronti della NATO.

Penso che il tentativo di espansione dell’Alleanza Atlantica continuerà perché è la sola possibilità di integrare altri Paesi europei e non-europei nel proprio campo e di stabilire una dipendenza politica e tecnologica sui nuovi membri. La Russia è molto sensibile a questa espansione e pronta ad avviare contromisure adeguate. Oltre alla propria riorganizzazione e modernizzazione militare, stiamo aumentando l’esportazione di armi e altri progetti approvati pian piano nel quadro della CSTO e della SCO. Credo che anche nel quadro del gruppo dei BRICS avverranno processi analoghi in relazione alla sicurezza regionale, anche perché tutto ciò è stato ufficialmente annunciato all’interno della concezione di partecipazione della Russia nell’organizzazione, sancita dal presidente Putin alcuni giorni fa.

 

 

Sergeij Shoigu è uno dei personaggi più apprezzati in Russia per via della sua longeva attività al Ministero per le Situazioni di Emergenza. Dopo lo scandalo legato alla società Oboronservice, è diventato il nuovo ministro della Difesa. Le sue prime visite sono state in Cina e in Kazakhstan, ed inoltre ha avuto un positivo incontro ufficiale con il Partito Comunista di Zjuganov nello scorso mese di dicembre. Questi possono essere considerati segnali di un cambiamento nell’approccio strategico del governo russo? 

I cambiamenti stanno già avvenendo. La nuova dottrina di politica estera della Russia richiama chiaramente l’idea del multipolarismo. Un grande problema è ancora rappresentato dalla lobby liberale presente nel governo, che lavora per gli interessi dell’oligarchia globale e prova ad introdurre orientamenti atlantisti nel Cremlino. Molti liberali già sono diventati conservatori, perché è per loro più “pratico” ora che tutti capiscono chi è il Signor Putin e che Medvedev era soltanto un “trucco” per gli interlocutori occidentali. Tuttavia, siamo ancora sotto l’attacco dell’egemonismo occidentale che opera nel nostro Paese attraverso i rappresentanti della quinta colonna e della borghesia nazionale (che tradizionalmente è la base per la rivolta contro il cesarismo, per dirla con Antonio Gramsci). La manipolazione dei media è compresa nel programma come strumento di destabilizzazione. I conflitti già descritti nelle repubbliche del Caucaso possono essere innescati da potenze esterne, inoltre. L’Unione Eurasiatica ovviamente è un duro colpo per gli Stati Uniti. I politici e gli strateghi nordamericani sono spaventati anche dalle relazioni sino-russe, che tuttavia si sono già sviluppate e consolidate. Dopo la visita di Xi Jinping a Mosca nuovi accordi sono già stati sottoscritti ed entrambe le parti hanno confermato gli sforzi comuni nel piano di stabilizzazione del mondo. L’incubo di Brzezinski e Kissinger è appena diventato realtà.

 

 
 

 

 

*Leonid Savin è direttore editoriale della rivista russa “Geopolitika” (www.geopolitica.ru), membro del Centro di Studi Conservatori presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Statale di Mosca, collaboratore del portale “Strategic Culture Foundation” (http://www.strategic-culture.org) e direttore amministrativo del Movimento Internazionale Eurasiatico.

IMPERIALIAM ȘI SUBDEZVOLTARE ROMÂNIA POSTCOMUNISTĂ ȘI LUMPEN-DEMOCRAȚIA

0
0

Lumpen-democrația luminează lumea din periferia sistemului mondial modern numai că,lumina ei este întocmai celei date de un opaiț ce contrastează orbitor cu lumina policandrelor de cristal din centrul metropolitan.
 

 
Potrivit teoriei sistemului mondial, elaborată de sociologul american Immanuel Wallerstein, mondializarea sistemului distributiv de la plata tributului la un mecanism economico-financiar de extragere a plusprodusului în ”piața liberă mondială”reprezintă principalul eveniment al istoriei din ultimii 600 de ani. Începuturile sistemului mondial sunt legate de nașterea și evoluția imperialismului. Istoria devenirii imperialiste cunoaște patru cicluri fiecare durând în medie 150 de ani.Fiecare etapă istorică este urmată de războaie ale declinului care ruinează economia și ridică la rang de lider un nou centru și o nouă metropolă. Cea de-a patra putere imperială prezentă este cea a Statelor Unite care ocupă poziție dominantă la cârma sistemului după 1917.

Sub forma colonialismului, protoimperialismul apare după anul 1450, primele semne de consolidare fiind vizibile odată cu descoperirea Americii în anul 1492. Epoca marilor descoperiri, o expansiune geografică și colonială, s-a datorat capitalului genovez care își face simțită prezența încă de la începutul sec.al XIV-lea în portul Lisabona din Portugalia.Exploratorii lumii noi de peste mări sunt motivați de febra aurului iar conchistadorii comit masacre abominabile în rândul populațiilor aborigene. Colonialismul se definește drept o formă exclusivistă și antagonistă a unei puteri iar imperialismul modern informal este o formă inclusivistă și neantagonistă de expansiune pașnică folosind mecanisme și metode economice de dominație. Colonialismul a fost și o mișcare migraționistă stimulată de către un centru de putere în scopul înlocuirii sau lichidării unor populații indigene, a transferului de bogății și a comerțului cu sclavi dinspre colonie către metropolă. Neoimperialismul informal actual determină valuri de migrații inverse, dinspre periferie spre centru. Relațiile de dependență și dominație din cadrul sistemului mondial fac parte din scenariul imperialismului modern,un neoimperialism atipic care folosește ca strategie mecanisme și pârghii economice și financiare.

Noul imperialism este considerat de sociologul Giovanni Arrighi drept un ”imperiu informal”. Distincția dintre vechiul și noul imperialism constă în aceea că vechiul imperialism era orientat spre un control politic și militar al resurselor de energie și materii prime de peste mări. Aceste resurse indispensabile pentru menținerea și accelerarea procesului de dezvoltare economică au alimentat industria militară de tehnică și armament asigurând supremația metropolei în lupta pentru hegemonie mondială. În imperialismul formal rivalitatea dă naștere la concurență, la o luptă pentru supremație și război. Noul imperialism informal nu mai generează conflicte,statele lumii aflându-se într-o altfel de concurență, cea economică, a liberului schimb din care totdeauna va ieși învingătoare metropola reprezentată de marile monopoluri ale lumii care dețin ponderea capitalului și puterea. O astfel de concurență cu centru a semiperiferiei și periferiei, este una inegală.Chiar în formă schimbată, ceea ce contează în definirea imperialismului de orice fel este, potrivit socialistului George Lichtheim,relația de dominație și supunere. Economicul este o nouă armă atipică eficace în războiul pentru hegemonie asupra lumii. Dezvoltarea ca și subdezvoltarea este hotărâtă de cei care dețin puterea acestei lumi iar destinul omenirii este legat tot de cei care dețin controlul asupra mijloacelor financiare și materiale ale lumii. În trecut ca și în prezent scopul marilor puteri a fost și este dominația,doar metodele se schimbă. Un exemplu ni-l oferă situația României.

La 1 ianuarie 2007, România a aderat la Uniunea Europeană, un eveniment așteptat de majoritatea românilor cu speranță și încredere. Procedurile de preaderare au lăsat impresia că României i se face un mare favor, poate cel mai mare, după sfârșitul dictaturii comuniste. Aderarea a fost îmbrăcată în haine de gală și prezentată drept un panaceu universal menit să redreseze situația economiei aflată,după evenimentele din 1989, într-un rapid proces de degradare.

Dar nu a fost așa.În culisele de putere și în planurile politicii euroatlantice realitatea, necunoscută românilor, era cu totul alta.România trebuia să urmeze pașii care i se impuneau pe motivul sincronizării cu politicile U.E. și a unei compatibilități ca viitoare țară membră. Tranziția spre economia de piață,în fapt o tranziție spre necunoscut, a fost o tactică propagandistică menită să susțină distrugerea economiei.Tranziția, prelungită aberant până astăzi, ține loc unui program de dezvoltare care s-a dovedit a fi o ”dezvoltare a subdezvoltării”. Europa nu avea nevoie de o țară în care industria și agricultura să funcționeze la parametrii europeni și care să întărească sistemul ei economic ci de o țară săracă, consumatoare, o piață de desfacere pentru țările dezvoltate care să nu producă și să nu exporte nimic. În România de azi este încurajată și plătită cu bani puțini, la limita subzistenței, nemunca. Aderarea ar fi trebuit să fie una a respectării drepturilor tuturor statelor membre indiferent de poziția sau trecutul acestora. Pentru România și Bulgaria regimul politic impus de uniune avea să fie altul, unul discriminatoriu. Cele două țări membre, aflate la periferia sistemului unional, au fost considerate state ”second hand ”, un fel de debara din dos a sistemului unional. În scurt timp, ele au devenit un debușeu al produselor de proastă calitate pe care țările occidentale le refuză, o groapă de gunoi a Uniunii Europene în care sunt depozitate reziduurile de toate felurile, o bază de transfer al capitalului autohton către marile companii transnaționale și o sursă de materii prime,în special fier vechi, rezultat din devastarea și lichidarea industriei comuniste în care a fost înglobată munca poporului român în aproape o jumătate de secol de dictatură. Prin cedări succesive de suveranitate, România a căpătat statutul nedorit de stat colonial, un stat satelit și nu unul cu drepturi depline al Uniunii Europene.

Politica puterii în relația cu Statele Unite și U.E.este una nefastă și executorie,ce amintește de perioada ocupației bolșevice de după 23 august 1944. Comisarii trupelor de ocupație ale Uniunii Sovietice sunt înlocuiți acum cu altfel de comisari, ai Uniunii Europene. Nimic benefic nu mai poate fi întreprins, inițiativa proprie este blocată și toate activitățile, în special cele privind alocarea fondurilor bugetare pentru dezvoltare sunt strict monitorizate. Orice abatere este sancționată drastic.Guvernanții au statut de guvernatori iar puterea nu le aparține decât în mică parte. Clasa politică este una servilă, interesată de propria îmbogățire și are un rol nefast pentru societatea românească. Partidele au o singură orientare, proeuropeană și proamericană. Guvernul execută ordinele venite de la Consiliul Uniunii Europene, FMI și Banca Mondială.Parlamentul este o anexă a legislativului european și dă legi în funcție de politica și interesele UE. Justiția aplică noile legi și coduri de legi impuse iar unde acestea nu sunt actualizate sau în concordanță cu legea comunitară, în actul de justiție intern se aplică cu prioritate dreptul Uniunii Europene. Odată cu subordonarea directă și necondiționată față de centrul de putere decizional de la Bruxelles, România pierde atributul de stat suveran și independent, pe care statul român, chiar și în dictatură, și-l păstrase cu mari sacrificii. Uniunea Europeană joacă rolul malefic al metropolei din teoria sistemului mondial și a dependenței, lansată de sociologii Immanuel Wallerstein, Andre Gunder Frank și Samir Amin, o teorie sociologică americană promovată de Școala de la Binghamton și de Grupulul de la CEPAL. Cei mai mulți dintre sociologii români consacrați, care dețin în prezent funcții în sistemul de putere, consideră, în termeni elevați, că România se află pe un drum bun și că ”tranziția”prelungită este un fapt inerent pentru o țară care, prin schimbarea de regim, păstrează nostalgic încă o ”grea moștenire” a centralismului etatic comunist. Numai că, acum, statul este unul neputincios iar din moștenirea comunistă, după douăzeci și doi de ani de democrație, nu a mai rămas nimic.Totul a fost distrus atât în industrie cât și în agricultură sau a fost vândut pe nimic pe motivul asigurării de la o zi la alta a subzistenței unui popor înfometat. Nimic nu s-a construit în acești ani de liberalism sălbatic asemănători domniei fanariote. Reacția statului nu a fost una de asigurare a protecției sociale prin înființarea de locuri de muncă, cum era firesc, ci de permanente și masive disponibilizări ale forței de muncă active, de înrobire și îndatorare a populației prin cele mai severe taxe și impozite din Europa. Și aceasta, pentru a asigura menținerea și prosperitatea organismului financiar mondial, a Fondului Monetar Internațional și a Băncii Mondiale.Aspectul României ”moderne” este unul dezolant, ca după bombardament. Construcțiile și halele industriale abandonate și devastate în mai toate localitățile țării dau impresia unui cataclism nuclear iar populațiile au părăsit masiv zonele foste industrializate migrând din disperare spre țări ale Europei occidentale. Alți sociologi români consideră că lipsa unui cadru legislativ adecvat a determinat stagnarea și regresul economic și social.

După părerea acestora, starea de anomie în care se găsește societatea românească contemporană reprezintă efectul social al încercării eșuate de a construi o economie de piață cu mentalități și atitudini specifice comunismului. Se apreciează că nimic nu se poate edifica pe un fundament al nisipurilor mișcătoare și că orice s-ar face,rădăcinile arborelui democrat-liberal rămân comuniste și își iau seva din fundamentul sistemului comunist, care tinde să renască din propria cenușă precum pasărea Phoenix. Guvernările marionetă ce se succed la putere par să nu țină cont de o astfel de teorie. Acum, după ce au epuizat tot ceea ce se mai putea vinde, epigonii au dispus scormonirea pământului și a fundului mării în căutare de noi resurse de energie și materii prime dar nu pentru industria românească, în fapt inexistentă.În goana lor după înavuțire, exploatarea resurselor strategice este înstrăinată către mari companii transnaționale care au în vizor în primul rând aurul românesc. Acest pământ mirific continuă să aibă resurse nebănuite dar, conform teoriei fataliste, nu noi românii, locuitorii acestor pământuri, suntem cei care trebuie să beneficiem de aceste daruri ale lui Dumnezeu, ci străinii.”Munții noștri aur poartă, noi cerșim din poartă-n poartă”. În tot acest timp, sociologi români, precum cei la care am făcut referire, transferă principiile teoriei fataliste promovate de Emil Durkheim și Robert Merton în actualitate, evident o actualitate postcomunistă, dând soluții de supraviețuire a indivizilor din spațiul carpato-danubiano-pontic numai dacă adoptă cele trei tipuri de conduite, descrise de Merton: conformismul, ritualismul și retragerea. Altfel spus, trebuie să ne supunem orbește democrației ca în fața unei fatalități, să ne întoarcem la plugul de lemn și să ne ascundem în grote sau să ne retragem spre alte zări de soare pline eliberând locul care așteaptă să fie populat de oameni mai ”dibaci” și cu bani, pentru care acest spațiu geografic este un adevărat rai. Cel mai periculos și mai pronunțat fenomen social care pune în evidență impactul distructiv democrato-liberal traumatizant asupra României este cel al dezrădăcinării populațiilor prin politica de încurajare a migrației.

Depopularea României a atins cote alarmante, nemaiîntâlnite. Există un exod de mari proporții, asemănător plecării în robie care rupe practic structura noologică a sistemului social. Fatalismul ca și anomia sunt caracterizate și determinate de lipsa unor valori sociale comune autentice, de absența unui ideal național, chiar mesianic, de clivajul modernism/tradiționalism și de impunerea forțată a unui mod de existență străin spiritului românesc. În prezent nimic din ceea ce leagă o societate și o armonizează nu este promovat. Tot ceea ce se întreprinde este făcut în scopul dezintegrării sistemului social și disoluției statului național unitar.

Integrarea europeană este pentru România o dezintegrare la nivelul sistemului social și etatic românesc. Dezvoltarea, în fapt inexistentă pe toate planurile, este o ”dezvoltare a subdezvoltării”. Evoluția(?!), un recul șocant și traumatizant care aruncă România înapoi în istorie în epoca feudală târzie. Disperarea celor rămași în țară și care refuză să plece îi împinge pe aceștia din urmă de la oraș către sat în speranța supraviețuirii prin cultivarea pământului. Lipsa mijloacelor, însă, face ca această ocupație să rămână, la început de mileniu III, una rudimentară în care este folosită munca fizică și animalele de tracțiune. În aceste condiții agricultura românească rămâne una arhaică, de subzistență. Nu împărtășesc în niciun fel teoriile fataliste despre societate și om iar anomia, ca formă a dezordinii și dezintegrării sociale în absența legii, o abordez cu prudență. Starea prezentă a societății românești nu se datorează lipsei unui cadru legislativ ci din contră a unei abundențe de norme haotice și contradictorii edictate nu numai de puterea legislativă îndrituită să facă legile, ci și de guvern, printr-o confuziune aberantă între legislativ și executiv și o încălcare grosolană a separației puterilor în stat. Mai mult, prin acapararea puterii și influența politică exercitată asupra celorlalte puteri în stat, președintele conduce România spre dictatură, în mod paradoxal, o dictatură a unui regim democrat. Puterea alunecă în România spre așa numitul ”prezidențialism”. În aceste condiții este firească starea de repulsie și revoltă a cetățenilor României față de democrație, atâta timp cât ”puterea poporului”este exercitată împotriva poporului de către o structură oligarhică instaurată după 22 decembrie 1989 și divizată în două structuri de partid care alternează la putere, lăsând impresia existenței unui cadru democratic. Mai mult, prin măsurile luate, conducerea de stat este una antinațională favorizând acțiunile șovine, iredentiste și revanșarde care urmăresc dezintegrarea statului național unitar. Nu lipsa legilor este cauza unei inevitabile disoluții a statului ci lipsa voinței politice de a da legiile pe care poporul le așteaptă și care să se concretizeze într-o redresare a economiei, a nivelului de trai și o asanare morală a societății.

Există un aparat suprastatal cu rol de cenzor și care monitorizează întreaga activitate a societății,inclusiv structurile politice de putere democrate din România,care nu este altul decât Uniunea Europeană în strânsă legătură cu Statele Unite.Acestea din urmă își motivează intervenția în treburile interne prin”interesele” pe care le au și le apără în zonă.În aceste condiții este imposibilă o altă politică de urmat decât cea a celor două structuri hegemonice de putere,care își asigură supremația și dominația în Europa și în lume prin forța armată a singurului bloc militar existent care este NATO. Pierderea independenței și suveranității României este în primul rând un rezultat al prăbușirii sistemului comunist în 1989 și al dezintegrării Uniunii Sovietice în 1991.Sfârșitul războiului rece și desființarea Tratatului de la Varșovia la 1 iulie același an,a făcut posibilă hegemonia Statelor Unite la nivel european iar statele foste comuniste și-au pierdut practic independența intrând în sfera de influență americană și fiind obligate să urmeze planul de măsuri ultrasecret semnat de către Mihail Gorbaciov și George Bush la Malta în cadrul summitului bilateral din zilele de 2-4 decembrie 1989.Rusia a pierdul în acești ani cursa pentru supremație în lume și pentru apărare.Lumea a devenit din bipolară unipolară,fapt ce a permis Statelor Unite să hotărască singură asupra destinelor omenirii și să devină practic jandarmul mondial de temut pentru toate statele și națiunile lumii.Acest lucru îi permite să practice pe lângă un imperialism clasic și un imperialism modern,să ocupe politic,economic sau militar,state suverane și independente din Europa, Asia sau Africa. Practic,evenimentele în derulare în plan internațional după 1990,demonstrează cu prisosință că ne aflăm din punct de vedere geopolitic într-o nouă etapă de reconfigurare a hărții politice și administrative a lumii.

Ofensiva militarismului imperialist american se duce concomitent pe mai multe fronturi,urmărind în special ocuparea țărilor și a zonelor bogate în resurse energetice și a celor importante ca poziție strategică pentru continuarea și relansarea de noi ofensive în valuri ce au drept scop înfrângerea oricăror rezistențe politice și militare,indiferent de mărime sau potențial și, în final, asigurarea hegemoniei mondiale definitive. Au fost vizate, în parte ocupate, în special statele exportatoare de petrol precum Iran, Iraq, Siria, Libia care întrețineau sau întrețin încă legături economice cu Rusia și China și de unde acestea din urmă își procură necesarul de țiței pentru susținerea producției industriale.O eventuală ocupare a Iranului,de pildă, ar afecta grav economia Chinei care înregistrază în prezent un curs ascendent și nu pare să fie afectată de criza mondială. Această situație posibil critică este dată de faptul că cea mai mare parte din importurile de petrol ale Chinei provin din Iran,China fiind dependentă de petrolul acestei țări.Prin embargoul asupra exporturilor,prin presiunile politice repetate și amenințările cu agresiunea militară asupra Iranului, Statele Unite urmărește să blocheze accesul Chinei la resurse cu implicații directe asupra dezvoltării economiei și industriei de apărare.Țările ocupate,cum este și cazul României,unde se poate vorbi de o ocupație politică și economică,devin țări ”aliate”și sunt obligate să lupte și să dea tributul lor de sânge în teatrele de război americane pentru slujirea unor interese străine. Spuneam că nu sunt susținătorul teoriilor fataliste dar nici a conspirațiilor de niciun fel însă,războiul este unul în derulare care urmează pașii și etapele unui plan prestabilit și urmărit cu tenacitate.Războiul de agresiune actual nu mai este unul clasic ci asimetric și neconvențional care încalcă normele de drept internațional și nu respectă rezoluții ale Organizației Națiunilor Unite.Acest organism pe care îl consider desuet și caduc din punct de vedere juridic,și-a epuizat rolul pe scena politică internațională cu atât mai mult cu cât este finanțat de Statele Unite și implicit face politica acestei superputeri.

Vă propun în continuare o scurtă analiză sociologică în care România democrată de azi face obiectul cercetării epistemologice în domeniul sociologiei politice. Acest studiu de caz care readuce în actualitate ideea stratificării mondiale și a sistemului distributiv neoimperialist la scară globală este legat de teoria sistemului mondial și a dependenței.Reamintesc că,după 1989,țara noastră cunoaște o situație economică și socială deplorabilă și că se află într-un accelerat proces de degradare a structurilor economice și sociale și a vieții politice.
Neîncrederea în clasa politică și în democrație,în fapt o falsă democrație,se accentuează de la o zi la alta.Un fapt revelator este rezultatul înregistrat la referendumul pentru demiterea Președintelui României din 29 iulie 2012 când 7,4 milioane de români cu drept de vot s-au pronunțat pentru demiterea acestuia. Președintele actual în funcție este principalul pion în relația de subordonare cu Statele Unite,Uniunea Europeană,FMI și Banca Mondială.Relația diplomatică este una de pasivitate servilă și de executare necondiționată a dispozițiilor primite de la reprezentanții acestor mari puteri.Starea de înapoiere în care se găsește țara,un rezultat al politicii aberante a regimului democrat de ”dezvoltare a subdezvoltării” riscă să arunce România centrifugal din periferia sistemului mondial și european în rândul țărilor din lumea a treia sau să se dezintegreze ca stat național unitar,o primă fază constituind-o regionalizarea.Recentele și numeroasele manifestări violente de stradă antiregim din Grecia și Bulgaria, soldate cu demisia guvernului, demonstrează că situația critică din România nu este singulară și nu se datorează unor cauze interne proprii ci este determinată în mod direct de politica la nivelul sistemului mondial actual, care impune și întreține această stare ca mijloc de dezvoltare și bunăstare a centrelor metropolitane prin transferul de capital de la periferie către centru.

Potrivit teoriei lui Immanuel Wallerstein asupra sistemului mondial modern, o tetralogie asupra nașterii și expansiunii lumii moderne publicată în 1974,larg dezbătută și de alți teoreticieni ai globalismului, se constată o stratificare a lumii în centre,semiperiferii și periferii.Acest model de sistem al lumii moderne este viabil datorită unui punct de convergență care este centrul sistemului și care are rolul unui factor sistematizator. Centrul sistemului este locul cu cea mai mare putere.Această teorie comportă permanente adăugiri și reconsiderații,însăși sistemul fiind într-o dinamică permanentă. Fundamental,teoria rămâne însă valabilă și se constituie într-un punct de plecare al cercetării situației prezente în lume.Ea vine,de pildă,în sprijinul demascării inconsistenței statului minimal,o anexă liberală a sistemului mondial modern,care înlocuiește în periferie statul social, negând tocmai atributul care justifică prezența și rațiunea de a fi a statului în societate.Aplicând principiul liberalismului exacerbal a lui ” laissez faire” și ”laissez passer”, statul minimal este un rezultat al abandonului social, un stat neputincios, condamnat să supraviețuiască și să depună mărturie despre vremurile din urmă ale propriei lui dezintegrări. Amputat de pârghiile de suveranitate el va sucomba în cele din urmă la confluența cu doctrina marxistă care trâmbița, ca ultim fapt eschatologic pământean, dispariția statului în urma încheierii misiunii sale istorice și decretarea raiului pământean,în fapt sfârșitul istoriei. Până la atingerea acestui punct final al umanității, statul minimal, ca o lanternă roșie, slujește interesul sistemului mondial modern ca un veritabil ”paznic de noapte”. Dacă la centrul sistemului mondial se practică un ”keynesianism” intervenționist reglator,menit să asigure măsurile necesare echilibrului, dezvoltării și bunului mers al societății prin aportul coordonator direct al statului, în periferie statul este împiedicat să intervină în mecanismul pieței libere care se dezvoltă anarhic datorită prezenței marilor monopoluri transnaționale care dețin ponderea capitalului și controlul. Dirijismul etatic este înlocuit în statele din periferia sistemului de un control sever exercitat de organismele financiare europene și mondiale, Fondul Monetar Internațional și Banca Mondială. Mecanismul autoreglator cunoscut al cererii și ofertei este grav perturbat devenind inoperant. În aceste condiții statul minimal este un stat util centrului sistemului mondial asigurând starea de subdezvoltare a periferiei pe care,paradoxal,o reprezintă.Poziția statului periferic în societate este secundară, neimportantă, mergând până la excluderea acestuia dintr-o astfel de raționalitate.

România, până în 1989, era o țară în curs de dezvoltare, caracterizată ca o “societate multilateral dezvoltată”, cu o industrie proprie, care se găsea la limita superioară a semiperiferiei sistemului mondial modern. Această poziție favorabilă i-a permis să înregistreze constant indici de creștere economică,să reinvestească prin reducerea uneori severă a consumului și să-și asigure independența energetică. În decurs de numai câțiva ani a fost achitată în întregime datoria externă a României, un fapt nemaiîntâlnit dar care s-a constituit astfel într-un precedent periculos pentru sistemul financiar mondial, care își vedea periclitate sursele de îmbogățire și deconspirate mecanismele oculte de pauperizare a populațiilor și statelor lumii ,însăși rațiunea de a fi.România comunistă a făcut un joc politic și economic abil profitând de poziția de intermediar semiperiferic între metropolele centrului și țările subdezvoltate dar bogate în resurse,aflate în periferia sistemului mondial modern.Statul român intermedia înainte de 1989 conflicte politice ce păreau de nesoluționat,în spiritul dreptului legitim internațional și al promovării păcii în lume, construia adevărate punți de legătură între Occident și Orient, între țările lumii arabe sau africane, în Orientul Mijlociu, între Palestina și Israel. Politica externă a României făcea însă notă discordantă cu interesele internaționale ale marilor puteri care urmăreau să obțină beneficii prin promovarea unei politici de dominație și asuprire asupra altor state și nu prin liber schimb și avantaje reciproce.

După executarea lui Nicolae Ceaușescu,legăturile cu țările în curs de dezvoltare și din lumea a treia s-au rupt iar datoriile acestora,ca urmare a investițiilor făcute de țara noastră în contrapartidă, nu au mai fost recunoscute și nici recuperate.În scurt timp, ca urmare a politicii prădalnice a noului regim democrat,care a inițiat o dură ofensivă de distrugere și demolare a tot ceea ce poporul român construise sub regimul comunist, România a pierdut poziția câștigată în sistem și a plonjat brusc și iremediabil din semiperiferie la periferia sistemului. Teoria dependenței și subdezvoltării promovată de André Gunder Frank și cea a ”acumulărilor incapacităților dobândite” pe care le semnalează Samir Amin se verifică și în cazul României.Dacă în centrul sistemului financia mondial,reprezentat de FMI și Banca Mondială și de cele două metropole care asigură controlul politic și economic, Statele Unite și Uniunea Europeană,calitatea sistemului mondial modern este un factor de evoluție și dezvoltare,periferia aceluiași sistem, în care se găsește România,face obiectul impus al periferialității,suburbanității și pauperizării. Sistemul este evolutiv în centrul său metropolitan și devolutiv prin transferul de bunuri și capital într-un singur sens,respectiv de la periferie către centru. Din punct de vedere al ”dezvoltării”periferiei sistemul este involutiv. În plenitudinea lui sistemul mondial modern este sublim pentru metropolitani dar la periferie sublimul lipsește cu desăvârșire, așa după cum ridiculiza sistemul social,cu un umor fin, marele nostru dramaturg, I.L.Caragiale.

Așadar, sistemul mondial actual are un caracter dual: progresiv și pozitiv la centru vs regresiv și negativ la periferie.Sociologul american amintit conchide că efectul de subdezvoltare adus de expansiunea sistemului mondial,în cazul nostru de expansiunea Uniunii Europene prin politica de primire de noi membri,nu este în fapt un beneficiu sau o”dezvoltare durabilă”, cum încearcă să ne inducă în eroare propaganda unională, ci o ”dezvoltare a subdezvoltării”. Situația economică critică prin care România trece, în special în perioada scursă după aderare, dovedește fără dubiu că ne aflăm în situația unui drenaj de capital către exterior cu destinația precisă a metropolei. Plusprodusul, atât cât se obține, în loc să fie reinvestit în țară este scos afară sub formă de prebendă și transferat în băncile străine sau sunt achitate dobânzi și rate ale împrumuturilor către FMI și Banca Mondială. Valoarea datoriei externe acumulate de România în perioada ”binefacerilor” sistemului democrat se ridică în prezent la 100 de milioane de euro fără posibilități viabile de rambursare ceea ce va permite marilor bancheri ai lumii să ceară recuperarea creanțelor prin vânzarea imobiliară de părți din teritoriu,așa cum s-a întâmplat în Grecia,unde au fost emise pretenții de cedare a unor insule precum Corfu.Iată așadar fața și mecanismul noului imperialism.

Legislația modificată în acest sens este deosebit de permisivă străinilor care pot cumpăra și vinde părți din teritoriu românesc, statul român fiind obligat, în accelași timp, să se supună hotărârilor instanțelor internaționale și europene privind execuția silită în cazuri extreme de insolvabilitate a statului român. Recentele preocupări ale Parlamentului și Guvernului privind noua împărțire teritorial-administrativă pe regiuni va ușura procedura înstrăinării de terenuri și va favoriza, prin transferul de atribuții către centrele regionale,autonomia teritorială și disoluția statului național unitar român.La momentul de față statele cu suveranitate limitată, aflate în periferia sistemului sau în suburbia uniunii,cum este cazul României,sunt văzute doar ca tip de structură organizațională în cadrul sistemului unic. Legile sunt unice și statele membre sunt obligate să se supună legislației comunitare unice. Teoria globalizării nu respinge teoriile regionale, ci chiar le reclamă.Sistemul mondial modern devine compatibil cu felul de organizare și coordonare a regiunilor rezultate din fragmentarea statelor naționale și chiar se poate vorbi de o ușurare a relației centru metropolitan-regiune. În acest sens, sistemul mondial somează regiunile să se organizaze conform teoriei stratificării mondiale sau a sistemului distributiv mondial care, după teoria marxistă, nu este nimic altceva decât ”acumularea mondială a capitalului”. Legea ”deficitului ontologic progresiv”a proceselor metropolitane spre marginile de expansiune dezvăluie o realitate dură și anume că la periferie sistemul se manifestă doar ca suburbialitate,o periferializare condiționată fără de care centrul nu se poate dezvolta și nici menține la nivelul de bunăstare materială și spirituală din prezent. Este de prisos să mai adaug că o astfel de repartiție injustă a rezultatului muncii oneste menține în periferie un nivel de cultură și civilizație mediocre care influențează în mod direct structura și funcționarea societății,educația,știința și morala.

Potrivit lui A.G.Frank și Johns Hopkins,expansiunea sistemului mondial generează un fenomen denumit ”dependență”,o stare economică, politică și socială care ascunde de fapt și întreține dominația centrului sistemului mondial față de periferie.Dependența este un rezultat al principiilor și mecanismelor liberale moderne ce promovează libera circulație a capitalului străin,libera concurență de pe poziții inegale și economia de piață favorabilă transferului plusprodusului de la periferie către centrul sistemului.Pentru înțelegerea mai clară a mecanismului de transfer al capitalului și de pauperizare a statelor din periferie, A.G.Frank introduce două concepte: ”lumpen-dezvoltare”și”lumpen-burghezie”. Termenul de ”lumpen”provine din limba germană, este polisemantic cu sens peiorativ și se traduce prin declasat, decăzut, degradant. Lumpen-burghezia reprezintă o clasă din centrul social al periferiei care își face apariția odată cu schimbarea de regim și care beneficiind de avantaje garantate de centrul metropolitan se constituie în instrumentul principal prin care este asigurată dominația și transferul de capital de la periferie către centru. Vilfredo Pareto prezintă importanța ”subeconomiilor redistributive” în transgresarea și translatarea frontierei sistemului mondial.
Acestea sunt constituite anume pentru a favoriza subordonarea economiilor naționale mecanismelor de funcționare a economiei mondiale. Formele pe care le îmbracă subeconomiile redistributive sunt: „comerțul de speculă, capitalismul prădalnic, comerțul cu monedele, enclavele economice, subeconomiile industriilor pentru export, economiile de plată a datoriilor, economiile de război și militare, economiile pentru produse de lux”. Aceste subeconomii sunt dirijate și protejate în periferia sistemului de către ”lumpen-burghezie”. Oligarhia democrată se identifică cu lumpen-burghezia și este o clasă privilegiată care deține puterea politică și economică în periferie cu sprijinul politic și în interesul puterii metropolitane din centrul sistemului mondial modern.

În România gruparea oligarhică, constituită după lovitura de stat din 22 decembrie 1989 din fosta nomenclatură comunistă și structura superioară a securității statului comunist,iar mai târziu și din prosperi oameni de afaceri și bancheri, este împărțită în grupul celor care dețin puterea politică prin alternare la guvernare și clientela politică, care deține de fapt puterea economică și financiară în statul periferic. Această lumpen-burghezie românească nu este una omnipotentă și nici nu reprezintă organizarea corporatistă a societății românești, ea intermediază numai transferul capitalului autohton și a plusprodusului către marile corporații și monopoluri aflate în centrul sistemului mondial modern. Ea joacă rolul unor adevărate elevatoare de capital dinspre periferie către centru. În acest scop au fost create trusturi și companii transnaționale,un adevărat suprasistem economic redistributiv.Politica economică de dependență și dominație forțată duce la ”lumpen-dezvoltare” adică o ”dezvoltare a subdezvoltării”. Relația cu metropola generează sărăcie la periferie. Decapitalizarea statelor dominate reprezintă funcția caracteristică a neoimperialismului modern care este, în principal, unul economic favorizat de economia de piață și libera circulație a capitalurilor și nu doar un militarism imperialist. Statul din periferie este unul democrat,un garant al libertăților și drepturilor cetățenești. Dreptul suprem al omului este dreptul la viață,însă statul minimal nu este preocupat de viața cetățenilor săi.În condițiile mizere de sărăcie,impuse periferiei de către metropolă,speranța de viață scade vertiginos iar în centrul sistemului crește. Am considerat necesar ca această formă de organizare politică a societății în periferia sistemului mondial modern,în fapt o politică a subdezvoltării,care mimează democrația autentică din centrul sistemului occidental, să poarte un nume. Acesta nu putea fi altul decât ”lumpen-democrație”, adică o democrație declasată prin falsitate ca și cei care o promovează. Lumpen-democrația luminează lumea din periferia sistemului mondial modern numai că, lumina ei este întocmai celei date de un opaiț ce contrastează orbitor cu lumina policandrelor de cristal din centrul metropolitan. Democrația din metropolă ajunge în periferie total schimbată, distorsionată, schimonosită, unde ia forma unei dictaturi nu a poporului ci în numele poporului și împotriva poporului. Acest fel de democrație se exercită în statul periferic în mod tiranic și absolut fără niciun control din partea poporului care deși deține principala pârghie a democrației,care este votul, nu poate schimba decât guverne trecătoare, prometropolitane și nu regimul democrat.

Toate guvernele care s-au succedat la putere în România postcomunistă, indiferent de orientare sau doctrină politică, au făcut jocul nefast al politicii sistemului mondial și al marii finanțe mondiale. Lumpen-burghezia românească, constituită în forma unei oligarhii politico-economice adoptă orientări și politici care corespund imperativelor metropolei. Mimetismul politic este starea caracteristică periferiei sistemului mondial modern iar democrația se supune legii deficitului ontologic progresiv dinspre centru către periferia sistemului. Lumpen-democrația reprezintă o formă de organizare și conducere politică a societății din periferia sistemului mondial modern, în care puterea este exercitată de o grupare oligarhică cu sprijinul politic al metropolei, în scopul asigurării dominației și transferului capitalului și plusprodusului dinspre periferie către centrul dominant al sistemului mondial.

 

 

 

Referințe bibliografice
1. Immanuel Wallerstein, Sistemul mondial modern, Editura Meridiane, București, 1994
2. André Gunder Frank, Lumpen-bourgeoisie et lumpen-développement, Maspéro, Paris, 1971
3. Ilie Bădescu, Geopolitica noului imperialism, Editura Mica Valahie, București, 2012
4. Ilie Bădescu, Istoria sociologiei, Editura Eminescu, București, 1996

L’AMERICA COLONIALE: ALCUNI ASPETTI ECONOMICI

0
0

In un’intervista da me rilasciata all’illustre politologo Anaud Imatz per una rivista parigina di storia, alcune mie risposte mi sono sembrate incomplete per quanto riguarda l’aspetto economico dei tre secoli di dominazione spagnola in America. Per tal motivo ho deciso di redigere il seguente testo.

 

 

È noto che Cristoforo Colombo approdò sulle spiagge di Santo Domingo nel 1492 e che per 20 anni lo sfruttamento dell’America e degli americani è stata dura e crudele. È famoso il sermone del 21 dicembre 1511 di frate Antonio de Montesinos nel quale lo stesso accusa le autorità spagnole (“tutti siete nel peccato mortale e in esso vivete e morite a causa della crudeltà e della tirannia che avete usato nei confronti di queste innocenti persone”) e richiama l’attenzione del re e del governo spagnolo sulla situazione di sfruttamento degli indios americani, contraria agli espressi ordini di Isabella la Cattolica e inerenti la protezione della popolazione nativa.

Nei successivi 40 anni, fino alle assemblee di Valladolid nel 1550/51, la Spagna ha fatto lo sforzo più grande mai realizzato un popolo nella storia dell’umanità: scopre, conquista, colonizza e organizza politicamente ed economicamente un territorio di 20 milioni di chilometri quadrati.

Teniamo presenta la data delle assemblee di Valladolid in modo emblematico, perchè rappresentano il culmine di un processo di discussione sui giusti diritti che ha la Spagna sull’America e la condizione degli indios. In verità vennero analizzati i progetti o i modelli da applicare in America. Così Ginés de Sepúlveda sostenne che l’indio non è intrinsecamente negativo ma è la sua cultura a deviarlo. La conquista ottiene un fondamento morale. In contrapposizione Las Casas sostenne che le tradizioni indigene non sono più crudeli di quelle presenti nella Spagna del passato.

Si palesa anche il progetto di Pedro de Gante e delle sue scuole e quello di Vasco de Quiroga e delle sue città ospitali, che considerano l’America e i suoi indios come una sorta di paradiso terrestre. Infine abbiamo il progetto per l’America di Francisco de Vitoria e della sua scuola di Salamanca con teologi del calibro di Domingo Soto e Melchor Cano che cercano un’organizzazione giuridica dell’America e inaugurano il diritto internazionale pubblico.

Quest’ultima è la posizione adottata da Carlo V, che tra l’altro fu l’unico imperatore nel mondo che fece emergere seriamente e con determinazione il tema della giustezza dei suoi titoli di modo che, stando a Barcellona, era sul punto di rinunciare all’America.

Secondo il professore colombiano Luis Corsi Otálora, esperto in storia economica, l’America fu per la Spagna una “sangria economica”. Ma al di là degli investimenti puntualmente calcolati e stabiliti dal professor Otálora, vedremo come i fatti storici non la descrivono in questi termini[1].

La Spagna utilizzò in America il sistema del monopolio commerciale, con il quale si presentò come esclusiva titolare del commercio con l’America, ma non rappresentò mai la dipendenza commerciale dell’America verso la Spagna traducendosi nel gran paradosso economico americano.

Perchè l’America fu, da poco meno che dal principio della conquista e colonizzazione, autarchica. Si limitò a se stessa nella produzione alimentare e industriale.

Durante il regno di Filippo II si ridusse al minimo il potere marittimo spagnolo con il disastro dell’Armata Invincibile nel 1588. Si produce un secondo paradosso. La Spagna, la potenza mondiale dell’epoca, rimase senza marina per difendere le sue colonie e allo stesso tempo si evidenzia l’inizio del potere degli inglesi come “ i conquistatori dei mari”.

Questa perdita di potere marittimo spagnolo generò la crazione del regime dei “galeoni”, grandi navi che molto segretamente partivano, generalmente, da un porto unico (Santo Domingo nell’Atlantico o Manila nel Pacifico) ad un’altro (generalmente, Cádiz).[2]

Fu la struttura che incontrarono le autorità spagnole per difendere il traffico commerciale tra le colonie e le metropoli dalle azioni dei pirati inglesi, olandesi e danesi che infestavano i mari.

Tale riduzione del commercio ispanoamericano a una sola flotta annuale di galeoni ridusse involontariamente la dipendenza dell’economia americana dalla Spagna.

Alla difficoltà del trasporto si unì un’altra causa che fu la massiccia importazione di oro americano che produsse nel mercato spagnolo un incremento smisurato il valore della merce, ma così come l’oro era in poche mani, la fame e la poverertà si generalizzavano nella stessa Spagna.

Tuttavia, gli economisti spagnoli dell’epoca pensarono che l’innalzamento del prezzo delle merci fosse dovuto all’aumento dei prodotti spagnoli per l’America, con la quale limitarono l’esportazione all’indispensabile. Inizia l’America ad essere autosufficiente per soddisfare le necessità del mercato interno grazie alla moltiplicazione delle industrie.

Come ha affermato lo studioso Alfonso López Michelsen, che diventò presidente della Colombia: “La pace, la cultura e il progresso del nostro continente durante i secoli XVI, XVII e XVIII furono il frutto dell’intervento di Stati anti-individualisti in tutte le accezioni del termine[3]

 

 
 

L’imperialismo inglese e l’indipendenza americana.

Dalla metà del XVIII secolo i prodotti americani entrarono in competizione con i prodotti inglesi, ma con la Rivoluzione Industriale (l’impiego della macchina a vapore nella produzione delle merci e nel settore tessile su tutti) fece accrescere la produzione e a costi inferiori, di modo che l’unica necessità era sviluppare un mercato di consumo.

Nel 1783 l’Inghilterra riconosce come Stato indipendente gli Stati Uniti, che fissano tariffe doganali protezioniste per le loro industrie, cosicché, rispetto all’America, all’Inghilterra non resta che l’America Latina come potenziale mercato di consumo in cui collocare i suoi prodotti.

Dall’inizio del XVII secolo iniziò la penetrazione o lo smembramento dell’impero spagnolo in america da un punto di vista esclusivamente militare, ma tali azioni, in generale, furono rifiutate. La disfatta più ampia si ottenne con l’invasione da parte di Cartagena delle Indie (Colombia) nel 1741, quando l’ammiraglio Vernon, con una formidabile armata di 186 imbarcazioni (60 in più dell’Armata Invincibile), 2000 cannoni e 24600 combattenti, fu sconfitto da Blas de Lezo con 6 imbarcazioni e 3600 uomini e il forte di San Felipe. Gli inglesi persero 10000 uomini e 1500 cannoni. Ci furono 7500 feriti. Una ventina di imbarcazioni rimasero inutilizzate e molte furono incendiate a causa della mancanza di personale.

Nel 1805 si ebbe la sconfitta navale franco-spagnola di Trafalgar, che consegnò i mari nelle mani degli inglesi. Nel 1806 e nel 1807 si tentò la conquista militare di Buenos Aires, ma ancora una volta furono sconfitti. Nel 1807 diventò ministro britannico  della guerra Robert Stewart, che affermò: “ci si deve avvicinare come commercianti e non come nemici”.

A causa della guerra di Indipendenza della Spagna contro i francesi, venne firmato nel 1809 il trattato Apodaca-Canning, che fece ottenere alla Spagna l’appoggio militare inglese in cambio di agevolazioni concesse agli inglesi per il loro commercio in America.

Nel giugno del 1809 fu completato il porto di Buenos Aires delle navi inglesi completo di mercati e il vicerè Cisneros e Mariano Moreno (mentore dell’indipendenza argentina) in rappresentanza dei proprietari terrieri, aprirono il porto americano al libero commercio con l’Inghilterra.

Le conseguenze furono la distruzione dell’artigianato e dell’industria locale, il progressivo impoverimento della popolazione, la dichiarazione di un’indipendenza fittizia e l’interminabile guerra civile. In definitiva, il passaggio dal feudalesimo ispanoamericano all’imperialismo inglese.

 



[1] Corsi Otálora, Luis: Bolivar: impacto del desarraigo, Ed. Tercer mundo, Bogotá, 1983. Cfr. anche Independencia hispanoamericana ¿espejismo trágico?, Santiago de Tunxa, 2009

[2] Cfr. José Javier Esparza La gesta española, Ed. Áltera, Barcelona, 2007

[3] Löpez Michelsen, Alfonso: El Estado fuerte, Ed. Populibro, Bogotá, 1966, p. 17


L’AMERICA LATINA DAVANTI ALLA SFIDA DELL’ENERGIA SOSTENIBILE

0
0

Il 2012 è stato designato “anno dell’energia sostenibile per tutti” dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la quale ha colto l’occasione per richiamare l’attenzione della comunità internazionale sul tema del rispetto dell’ambiente e dello sviluppo energetico sostenibile[1].

L’obiettivo che la comunità internazionale si è proposta di raggiungere nel corso dei numerosi vertici che si susseguono da circa un ventennio[2] è quello di garantire l’accesso energetico a tutti gli abitanti del pianeta[3]. Sebbene la diffusione dell’energia elettrica su scala mondiale ed il rispetto dei parametri internazionali sanciti nelle diverse Convenzioni internazionali sull’ambiente possano sembrare realtà inconciliabili, l’utilizzo di forme di energia sostenibili può rappresentare un valido strumento per risolvere i problemi legati alla crescente povertà nel mondo, alla crisi finanziaria mondiale ed alla futura mancanza di risorse per il sostentamento dell’intero pianeta[4].

La crisi finanziaria, che sta colpendo in particolare i Paesi occidentali, può costituire un’occasione per un punto di svolta verso un nuovo modo di utilizzare le risorse disponibili a livello globale. Il rapido sviluppo economico di alcuni Stati che si affacciano nello scenario internazionale, quali nuovi protagonisti dell’economia mondiale, può infatti rappresentare per l’Europa e per l’Italia[5] l’opportunità per aprirsi a nuovi mercati.

La crisi economica, che dal 2008 non accenna a diminuire, sta mettendo in difficoltà in particolar modo le economie dei Paesi europei. Trattandosi di una crisi prevalentemente finanziaria, analizzando il bilancio degli Stati occidentali emerge la presenza di uno scompenso nelle cd. attività detenute e un aumento delle passività. Tale situazione appare invece invertita per quanto riguarda i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) che stanno accumulando riserve di valute straniere “forti”, come ad esempio i dollari americani, e al contempo registrano un afflusso di capitali dall’estero, con una conseguente crescita di investimenti diretti esteri e una riduzione del proprio indebitamento pubblico[6].

Oltre ai cinque Stati facenti parte dei Brics, tra le zone del mondo maggiormente interessate dal grande sviluppo a livello economico dei nostri giorni, vi sono i Paesi dell’America latina. E’ opportuno ricordare che questi ultimi stanno vivendo un periodo particolarmente favorevole non solo per quanto riguarda l’aspetto economico, ma anche per quanto concerne il consolidamento delle istituzioni democratiche all’interno dei singoli Stati. Grazie all’economia florida, le disuguaglianze dovute alla diversa distribuzione del reddito tra gli abitanti di numerosi Paesi dell’America latina stanno venendo via via attenuandosi a favore di un contesto di maggiore stabilità socio-economica[7]. Tale scenario geopolitico appare in netta contrapposizione con quanto sta avvenendo nei Paesi occidentali nei quali l’economia appare stagnante e dove le disuguaglianze nel reddito appaiono sempre più accentuarsi con la prosecuzione della crisi.

L’area sudamericana rappresenta oggi una delle regioni nelle quali lo sviluppo economico ha raggiunto livelli ragguardevoli e verso la quale si stanno orientando gli investitori dei Paesi occidentali. Il Brasile è senz’altro lo Stato che tra i Paesi dell’America latina ha svolto la funzione di principale attore nel mercato globale. Anche se la produzione non ha registrato un aumento costante[8], le prospettive di crescita economica rimangono comunque notevoli grazie alla domanda interna in continua crescita, a causa dell’aumento del reddito pro capite che ha visto coinvolta gran parte della popolazione brasiliana[9].

Oltre al Brasile, anche il Cile sta muovendo i primi passi nell’economia mondiale, si tratta infatti del primo Stato andino ad essere stato ammesso all’Ocse[10]. Gli interventi legislativi volti ad incentivare la libertà d’impresa e a snellire la burocrazia hanno permesso al Paese di diventare uno dei principali interlocutori sud americani nel contesto mondiale.

Appare opportuno sottolineare come alcuni Paesi dell’area sudamericana, che negli anni passati hanno conosciuto grandi difficoltà di tipo socioeconomico e proprio a causa di ciò sono considerati più vulnerabili agli attacchi speculativi, non hanno avvertito effetti minimamente paragonabili a quelli verificatisi nel continente europeo a causa dell’attuale crisi[11].

Se analizziamo le cause che hanno contribuito allo sviluppo economico dei Paesi sud americani, possiamo affermare che quest’ultimo è stato favorito in gran parte dai progressi che sono stati effettuati in vari settori dell’economia e non da ultimo, in quello energetico. Grazie all’estensione territoriale di alcuni Stati e allo sviluppo delle conoscenze tecnologiche, avvenuto in particolar modo in Messico e Brasile, si è proceduto ad una diversificazione energetica che ha portato all’utilizzo di forme di energia rinnovabili[12].

Secondo i dati registrati dall’agenzia delle Nazioni Unite ECLAC (Economy Commission for Latin America and the Caribbean), grazie alle energie rinnovabili prodotte nell’area sudamericana, si è prodotto l’equivalente di 1.284.164,0 milioni di barili di petrolio all’anno. Il principale produttore di energie rinnovabili è il Brasile, seguito da Messico, Venezuela, Colombia, Argentina e Cile. Tra le fonti di energia rinnovabili, il Brasile, l’Uruguay e l’Argentina hanno investito in particolar modo sul biocarburante. Inoltre, accanto alla produzione di biocombustibili, anche le risorse idriche hanno costituito un valido contributo per la produzione di energia alternativa[13]. In particolare, il Brasile ha sostenuto alcune tra le più innovative iniziative private nel settore grazie a finanziamenti pubblici, i quali hanno permesso di realizzare un progetto complessivo in cui si prevede un aumento di circa 25.000 MW della capacità di fornitura di energia idrica del Paese.

Oltre ai biocombustibili e all’energia idroelettrica, gli Stati sud americani stanno investendo sulla geotermia: alcuni Paesi, grazie alla loro collocazione geografica nella zona conosciuta come “anello di fuoco”, situata nell’Oceano Pacifico e nella quale si trovano la maggior parte dei vulcani del mondo, stanno pensando di sfruttarne l’enorme potenziale per la produzione di energia geotermica.

In conclusione, la produzione di energia alternativa e gli investimenti legati alle infrastrutture messi in atto presso alcuni Stati dell’America latina per rilanciare l’economia, associati alle risorse naturali presenti nel continente sud americano, potrebbero rappresentare un florido mercato per molte delle aziende europee ed italiane impegnate nella produzione di energia, come peraltro sta accadendo con Eni ed Enel[14].

Saper cogliere l’opportunità di investire in Paesi che hanno ancora molto da offrire sul piano energetico grazie alle risorse presenti sul territorio potrebbe significare dare inizio ad una politica economica volta al rispetto dell’ambiente, alla riduzione delle disuguaglianze sociali in aree del mondo nelle quali non vi è accesso all’energia ed al contempo, raggiungere alcuni dei cd. obiettivi del millennio promossi dalle Nazione Unite come ad esempio, garantire la sostenibilità ambientale e sradicare la povertà estrema. Inoltre, gli Stati di tutto il mondo si sono impegnati a perseguire tre obiettivi legati all’ approvvigionamento energetico entro il 2030[15]. In particolare, essi saranno tenuti a favorire l’accesso universale ai moderni servizi energetici e raddoppiare sia la quantità di energia prodotta da fonti rinnovabili, sia il tasso globale di miglioramento dell’efficienza energetica.

Alla luce di quanto esaminato appare chiaro che per uscire dalla crisi gli Stati europei saranno chiamati a scegliere l’innovazione e a trovare nuovi mercati nei quali operare. Solo attraverso una visione del futuro rivolta verso nuove frontiere e basata sulla piena collaborazione di imprese, istituzioni e governi nel rispetto dell’ambiente e dell’uguaglianza sociale sarà possibile raggiungere i risultati che gli Stati si sono impegnati a raggiungere. Gli obiettivi che ci si è proposti di conseguire a livello mondiale saranno realizzabili unicamente attraverso il superamento dei limiti imposti dal nostro sistema economico ed emersi sotto forma della crisi, tuttora irrisolta, che sta mettendo a dura prova gli Stati occidentali dal 2008 sino ad oggi.

 

 



[1]Le campagne promosse dalle Nazioni e da altre organizzazioni internazionali per promuovere l’utilizzo dell’energia sostenibile hanno avuto successo grazie anche alla collaborazione di numerosi Stati. Per avere maggiori informazioni sulle attività delle Nazioni Unite si rimanda al sito web: www.sustainableenergyforall.org/actions-commitments.

[2]Ultimo in ordine di tempo è il meeting sull’ambiente tenutosi dal 20 al 22 giugno 2012 a Rio de Janeiro (Brasile). Si rimanda al sito internet delle Nazioni Unite: www.uncsd2012.org

[3] Si legga in proposito la nota del Segretario Generale delle Nazioni Unite del 31 luglio 2012, intitolata Sustainable Energy for All: a Global Action Agenda, A/67/175, consultabile al sito internet: www.unric.org/it/component/content/article/14-economic-and-social/27798-anno-internazionale-dellenergia-sostenibile-per-tutti-2012

[4] La dottrina si è occupata ampiamente del tema dello sviluppo sostenibile. In particolare sul tema si ricordano il contributo di Filippo Salvia, Ambiente e sviluppo sostenibile, “Riv. giur. Ambiente”, 1998, p. 235 e ss., Mauro Politi, “Tutela dell’ambiente e “sviluppo sostenibile”: profili e prospettive di evoluzione del diritto internazionale alla luce della conferenza di Rio de Janeiro”, in AA.VV., Scritti degli allievi in memoria di Giuseppe Barile, Cedam, Padova, 1995, p. 447 e ss.

[5] Si segnala in proposito l’opera di Alessandro Colombo, Ettore Greco (a cura di), La politica estera dell’Italia, Edizione 2012, Collana Iai/Ispi”, 2012.

[6] Per approfondimenti si rimanda a AA.VV., BRICS: i mattoni del nuovo ordine, in Eurasia, Rivista di Studi Geopolitici, XXIV, 3-2011 e AA.VV., Paolo Quercia e Paolo Magri (a cura di), I Brics e noi, L’ascesa di Brasile, Cina, Russia e India e le conseguenze per l’occidente, ISPI, 2011.

[7] Illuminanti sono le parole pronunciate dal Segretario Generale dell’OCSE, Ángel Gurría, nel 2010 in merito alla situazione della classe media in America Latina: “A growing and vibrant middle class is a sign of good economic prospects in Latin America. However, Latin Americans in the middle of the income distribution still face serious hurdles in terms of purchasing power, education and job security. These groups still have some way to go to be fully comparable to the middle classes in more advanced economies”.

[8] Vedi ad esempio, il terzo trimestre del 2011.

[9] Per approfondimenti sull’economia brasiliana si rimanda al sito dell’OCSE: www.oecd.org/brazil/. Inoltre, si leggano Annabelle Mourougane, Mauro Pisu, Promoting Infrastructure Development in Brazil, OECD Economics, Department Working Papers, No. 898, 2011, OECD Publishing consultabile alla pagina web: www.oecd-ilibrary.org/economics/promoting-infrastructure-development-in-brazil_5kg3krfnclr4-en e Jens Arnold, Raising Investment in Brazil, OECD, Economics Department Working Papers, No. 900, OECD Publishing, 2011, pubblicato al sito internet: www.oecd-ilibrary.org/economics/raising-investment-in-brazil_5kg3krd7v2d8-en.

[10] Si rimanda al sito internet ufficiale dell’OCSE, nel quale è possibile reperire informazioni sullo stato economico attuale del Cile: www.oecd.org/chile

[11]Un esempio in tal senso è dato dall’Argentina la quale, in contro tendenza rispetto agli altri Stati sud americani, non ha registrato una crescita economica tale da far pensare ad uno sviluppo del Paese stabile e duraturo, ma ha raggiunto e mantenuto nella capitale Buenos Aires una media di crescita economica annua pari all’8%. Si legga inoltre, il rapporto dell’OCSE dal titolo Latin American Economic Outlook 2013
SME Policies for Structural Change
, Economic Commission for Latin America and the Caribbean, OECD Publishing , 11 Jan 2013.

[12] Si legga Manlio F. Coviello, Juan Gollán y Miguel Pérez, Las Alianzas Público-Privadas en Energías Renovables en América Latina y el Caribe, CEPAL, 2012, consultabile in formato PDF al sito internet www.eclac.org/publicaciones/xml/3/46743/Lcw478e.pdf.

[13] Riguardo alla produzione di energia idroelettrica in Cile si legga il report dell’ECLAC, dal titolo: Análisis de la Vulnerabilidad del Sector Hidroeléctrico Frente a Escenarios Futuros de Cambio Climático en Chile, CEPAL, 2012, consultabile in formato PDF al sito intenet: www.eclac.org/publicaciones/xml/0/49060/AnalisisDeLaVulnerabilidad.pdf

[14]Per approfondimenti si rimanda al sito dell’Eni nella parte relativa alla sostenibilità: www.eni.com/it_IT/sostenibilita/sostenibilita.shtml e a quello dell’Enel per le notizie relative agli investimenti in Sud America: www.enel.com/it-IT/media/news/con-enel-cresce-la-capacita-energetica-in-sud-america/p/090027d981a1ac4e

[15]Si veda il sito internet delle Nazioni Unite dedicato agli obiettivi del millennio e consultabile alla pagina web: www.un.org/millenniumgoals/

DIECI ANNI FA, LA SECONDA GUERRA DEL GOLFO

0
0

Dieci anni fa, esattamente il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti, insieme con la Gran Bretagna, davano inizio alla Seconda Guerra del Golfo. A nulla valse l’opposizione della Francia, della Russia e della Cina, gli altri tre membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (un’organizzazione che confermò di non essere, né di poter essere, un autentico “attore geopolitico”, in grado cioè di far valere una propria visione politica, o se si preferisce in grado di far valere il punto di vista della comunità internazionale anche contro la volontà di quella che oggi è la potenza predominante). Peraltro, gli Stati Uniti, consapevoli di poter contare a priori sul sostegno del circo mediatico occidentale, aggirarono ogni ostacolo inventandosi che Saddam possedeva armi di distruzione di massa e accusando il regime iracheno addirittura di complicità nell’attentato dell’11 settembre 2001. Fu quindi facile per gli Stati Uniti sostenere la necessità di una guerra preventiva contro l’Iraq, onde garantire la sicurezza della comunità internazionale, nonostante che già allora fosse evidente sia che Washington stava accusando l’Iraq senza alcuna prova, sia che l’attentato dell’11 settembre aveva fornito l’occasione a Washington di intervenire militarmente in Afghanistan, con il pretesto di distruggere il gruppo terroristico di Al Qaeda, guidato dal saudita Osama Bin Laden.

Ben altro, infatti, era il vero obiettivo degli Stati Uniti, che, come ebbe a rivelare, nel 1998, l’ex direttore della Cia, Robert Gates, avevano cominciato ad appoggiare l’opposizione al governo di Kabul perfino prima dell’intervento sovietico; un’operazione che, secondo Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza del presidente Jimmy Carter, aveva avuto «l’effetto di attirare i russi nella trappola afghana» (1). Né sfuggiva agli statunitensi che l’Afghanistan è da sempre un crocevia fondamentale tra Cina, India, il Medio Oriente e l’Europa. Un “territorio” ancora più importante dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, dato che la fine del bipolarismo offriva agli Stati Uniti la possibilità di raggiungere lo scopo che almeno da un secolo tentavano (e tentano tuttora) di conseguire. Ovverosia l’incontrastata supremazia globale, basata su una dittatura di mercato “non evidente”, benché reale, in quanto celata, più o meno bene, dalla foglia di fico della “democrazia liberale” e “veicolata” dall’american way of living. Di conseguenza, da un lato, era essenziale per gli Stati Uniti liquidare tutto ciò che poteva ostacolare la formazione di una nuova società di mercato in funzione di una globalizzazione contraddistinta dalla “colonizzazione mercantile” di ogni mondo vitale e di ogni ambito sociale. Dall’altro, però gli Usa dovevano ridefinire gli equilibri mondiali in una prospettiva “americanocentrica”, sia mediante una ristrutturazione della Nato, al fine di ancorare definitivamente l’Europa all’Atlantico (un compito reso estremamente meno difficile dal tradimento della sinistra europea e dal fatto che l’oligarchia tecnocratica e “affaristica” del Vecchio continente poté sfruttare la riunificazione della Germania per mutare “in radice” il significato  politico dell’Unione Europea), sia mediante il controllo diretto del “cuore” dell’Eurasia.

Non sorprende allora la decisione di aggredire l’Iraq di Saddam Hussein, tanto più se si considera la relativa facilità con cui gli statunitensi avevano vinto la Prima Guerra del Golfo nel 1991. Una vittoria che pareva dar ragione a quegli analisti che ritenevano che l’aviazione e la superiorità tecnologica consentissero agli Stati Uniti di imporre la propria volontà a qualunque nemico, trascurando l’importanza dei “fattori culturali” (che invece si devono sempre tenere in considerazione, e proprio sotto il profilo politico-militare, come insegna la storia militare) e delle caratteristiche, non solo fisiche ma anche geopolitiche, di un determinato “territorio”. Comunque sia, anche se la Seconda Guerra del Golfo terminò nel giro di tre settimane, gli Stati Uniti, dopo la caduta del regime di Saddam, ancora una volta, come in Corea e soprattutto in Vietnam, furono incapaci di far sì che scopo politico e obiettivo militare fossero convergenti. E con il passare degli anni questa “forbice” continuò ad allargarsi, tanto da indurre Obama ad ordinare un ignominioso ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq.

Nondimeno, l’esercito nordamericano si è lasciato dietro una spaventosa scia di sangue, una catena orrenda di crimini e violenze di ogni specie, che hanno causato centinaia di migliaia di vittime che si sommano alle vittime causate dall’embargo imposto dall’Onu dopo la Prima Guerra del Golfo, e che provocò conseguenze gravissime per la popolazione civile, in particolare bambini e malati privi di medicine. Sarebbe però del tutto errato interpretare il ritiro dell’esercito statunitense dall’Iraq come una rinuncia della potenza capitalistica predominante ai suoi progetti di egemonia mondiale, ché anzi gli Usa sono ancor più decisi ad impedire che si possa dar vita ad un autentico “ordine multipolare” e devono necessariamente controllare il maggior numero di “posizioni dominanti”, sotto l’aspetto geostrategico, in vista della sfida con la Cina. Del resto, non è certo un caso che, da circa due anni, in Siria si combatta una durissima guerra che vede contrapporsi all’esercito della Repubblica araba socialista della Siria – ed al popolo siriano fedele ad Assad – delle bande armate e dei gruppi di islamisti, che comprendono numerosi mercenari e terroristi stranieri, finanziati e supportati dalle “petromonarchie” del Golfo (ma sarebbe più corretto denominarle “petrodittature” del Golfo). Ossia da Paesi che sono tra i principali alleati dello Stato nordamericano, che sembra essersi reso conto che non può fare tutto da solo e che deve cedere delle “quote di potere” ad alcuni gruppi “subdominanti” , al fine di evitare i pericoli derivanti da una “sovraesposizione imperiale”.

In sostanza, siamo in presenza di una nuova strategia che si fonda su un “approccio indiretto” anziché sullo scontro frontale, e che quindi  può rischiare di “giocare la carta” dell’islamismo contro l’Islam (2) (e la stessa eliminazione di Bin Laden si dovrebbe interpretare in questo senso). D’altronde, è noto che in ogni Paese vi sono delle divisioni di carattere etnico, religioso, sociale o ideologico che è possibile sfruttare, per favorire rivoluzioni colorate o per promuovere delle rivolte armate “eterodirette” o comunque guidate “dall’esterno”. Gli esempi purtroppo non mancano, basta pensare alla “primavera araba” in Egitto, alla ribellione dell’oligarchia islamista bengasina contro la Giamahiria di Gheddafi o alla rivolta contro il regime di Assad. Mutatis mutandis, lo scopo è sempre il solito, cioè «cambiare il regime di uno Stato avversario od occupare un territorio straniero, finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati». (3). E lo spiega chiaramente il documento strategico del Pentagono del 30 settembre 2001, secondo cui gli Stati Uniti devono intervenire ogni volta che vi sia «la possibilità che potenze regionali sviluppino capacità sufficienti a minacciare la stabilità di regioni cruciali per gli interessi statunitensi», e in particolare qualora vi sia «la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse». (4)

In definitiva, il fallimento politico-militare in Iraq (e pure quello in Afghanistan, dove gli statunitensi devono usare i droni per combattere dei nemici fortemente radicati in un territorio che conoscono perfettamente, anche se possiedono solo “archi e frecce” per opporsi alla gigantesca macchina bellica della Nato) ha convinto Washington a considerare l’occupazione di un territorio solo come l’extrema ratio e a delegare ad altri “attori” la funzione di rappresentare gli interessi degli Usa nelle diverse aree del pianeta. Il che però fa aumentare il rischio di dipendere da personaggi come il “petrodittatore” del Qatar o da loschi figuri come Hashim Thaci, il “boss” dello Stato “mafioso” del Kosovo (5). Ne consegue che facilmente gli eventi possono prendere una direzione imprevista, dal momento che, facendo leva su “quinte colonne” per destabilizzare un Paese o anche per far cadere un regime amico, ma di cui non ci si fida più (anche semplicemente perché considerato non più “utile” o troppo debole e corrotto), è inevitabile che si rischi di perdere il controllo della situazione. Non si deve dimenticare però che gli Stati Uniti hanno una notevole esperienza in questo genere di “operazioni”, sia pure in un continente distante dall’Eurasia. Ci riferiamo naturalmente all’America Latina, il cosiddetto “cortile di casa” degli Usa. Tanto che quando George W. Bush, dopo l’attentato dell’11 settembre, dichiarò  guerra al “terrorismo internazionale”, George Monbiot (editorialista del “Guardian” e docente universitario) ebbe a scrivere che il presidente degli Usa avrebbe dovuto prima di tutto dichiarare guerra proprio agli Stati Uniti, dato che da decenni gli Usa gestivano un campo di addestramento terroristico – denominato, fino al gennaio 2001, “Scuola delle Americhe” – che a partire dal 1946 aveva addestrato oltre 60000 poliziotti e soldati dell’America Latina, tra i quali parecchi “illustri” torturatori, assassini, dittatori e terroristi del continente americano. (6)

D’altra parte, la gigantesca macchina da guerra statunitense (o, se si preferisce, “occidentale”) comprende una miriade di “quinte colonne”, tra cui si devono annoverare non poche Ong e soprattutto i media mainstream. Sono stati infatti questi ultimi ad essere “in prima linea” al fianco dei militari statunitensi in Iraq (facendo apparire, nel migliore dei casi, la guerra d’aggressione degli Usa e le stragi di civili iracheni come una questione su cui era ed è possibile avere punti di vista diversi – sempre che, s’intende, non si osi dubitare della bontà della “missione” degli Usa nel mondo, dato che secondo i media occidentali è indubbio che gli statunitensi spendano centinaia di miliardi dollari ogni anno unicamente allo scopo di difendere la democrazia e i diritti umani in ogni angolo del globo). E sono i media occidentali, che ora sono “in prima linea” contro la Siria di Assad, ad avere svolto un ruolo decisivo anche nell’aggressione contro la Serbia (il bombardamento “democratico” della Nato contro la Serbia, al quale diede il suo contributo pure l’Italia di Massimo D’Alema – uno dei tanti “compagni italiani” convertitisi al servilismo filo-atlantico” – s’iniziò il 24 marzo del 1999, esattamente quattordici anni fa) e nel (fallito) golpe del 2002 in Venezuela. (7) “Legioni” di gazzettieri e intellettuali al servizio dell’oligarchia occidentale, sempre pronti ad usare “due pesi e due misure” e capaci di inventarsi dittatori che massacrano la propria gente ma che non si vergognano – pur di favorire la “reazione”, adesso che Chavez è scomparso – di non ricordarsi che, quando Chavez, nel 1992, con altri ufficiali bolivariani tentò di fare un colpo di Stato, al potere vi era “un tale” Carlos Perez. Vale a dire il politico venezuelano che aveva portato il suo Paese al disastro sociale ed economico – seguendo un “modello neoliberista”, non molto dissimile da quello che oggi viene imposto dalla cosiddetta “troika” (Ue, Bce e Fmi) – e che non aveva esitato a ordinare di sparare contro il proprio popolo (fonti ufficiali parlano di 200 morti, ma probabilmente furono più di 2000), ribellatosi perché stava letteralmente morendo di fame.

Tuttavia, né l’azione dei vari “scagnozzi” degli Usa né l’accanimento dei media occidentali contro l’America Latina di Chavez, di Morales o della Kirchner hanno potuto impedire il diffondersi e il rafforzarsi nel continente americano di una concezione e di una prassi politica decisa a contrastare la prepotenza degli Stati Uniti. Come non hanno potuto aver ragione né della “resistenza” della Siria di Assad né di quella dell’Iran di Ahmadinejad e degli ayatollah. Sotto questo aspetto, l’umiliazione inflitta alle truppe statunitensi in Iraq (e in Afghanistan) “gioca” a vantaggio di chi continua a battersi contro gli Usa e la dittatura di mercato, traendo profitto dalla riluttanza degli Stati Uniti ad impegnarsi in un altro conflitto. Si può dunque affermare che l’aggressione contro l’Iraq, indipendentemente dalle critiche che si possono (e si devono) rivolgere al regime di Saddam Hussein, è diventata, in un certo senso, il simbolo della tracotanza degli Usa e di quella dei gruppi di interesse che gli Usa difendono e rappresentano, nonché della “miseria”, umana e intellettuale, dei loro zelanti servitori, pagati profumatamente per giustificare le ingiustizie peggiori e i delitti più efferati. La tragedia dell’Iraq è diventata insomma il simbolo della barbarie atlantista, della volontà di potenza di uno Stato talmente ebbro di violenza e di perversioni, da ritenere l’intero pianeta una sorta di “oggetto-sé” (per usare un termine tecnico della psicoanalisi). Ma la tragedia dell’Iraq, proprio come quella del Vietnam o quella dell’Afghanistan, ha confermato – al di là di ogni altra considerazione, per quanto corretta possa essere – che un Paese non disposto a farsi colonizzare può sempre “farcela”. E’ una lezione che numerosi Paesi sembrano avere ben appreso, a cominciare dalla Siria, ma che pare invece essere quasi del tutto ignorata in Europa, al punto che non è forse azzardato pensare che anche per questo motivo il Vecchio continente stia precipitando nel baratro di una crisi che, non a caso, non è tanto una mera, ancorché gravissima, crisi economica, quanto piuttosto una crisi (geo)politica, sociale, economica e culturale.

 

 

 

1) “Le Nouvel Observateur”, Parigi, n.1732, 15/1/1999.

2) Al riguardo si veda L’islamismo contro l’Islam?, “Eurasia”, 4/2012.

3) Manlio Dinucci, Sotto il corridoio afghano, “il manifesto”, 18/10/2001.

4) ”Quadrennial Defense Review”, 30/7/2001 (notare la data di pubblicazione).

5) Si veda l’ottimo articolo di William Engdahl, http://www.eurasia-rivista.org/la-bizzarra-strategia-di-washington-sul-kosovo-potrebbe-distruggere-la-nato-giocare-con-la-dinamite-e-la-guerra-nucleare-nei-balcani/15205/.

6) Vedi Massimo Bontempelli e Carmine Fiorillo, Il sintomo e la malattia, Editrice C.R. T., Pistoia, 2001, p. 81 e ss .

7) Un documento di notevole valore, a tale proposito, è il video “La Rivoluzione non sarà teletrasmessa” che «mostra nei dettagli tutte le fasi della manipolazione mediatica svolta dalle cinque tv private venezuelane e il ruolo decisivo della massiccia reazione popolare che impedì il progetto oligarchico-statunitense» (http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Unique&id=6746).

 

“PER UN CASCO DI BANANE”. LIBERTÁ E REALPOLITIK

0
0

Nel suo Esportare la libertà. Il mito che ha fallito (2007), Luciano Canfora sostiene che la propagazione dei valori universali della libertà e della democrazia non è possibile. Storico dell’antichità e filologo classico, Canfora è uno degli studiosi più autorevoli a livello internazionale nel campo degli studi dell’antichità classica. Tuttavia egli si dedica anche allo studio della storia contemporanea, con una particolare attenzione alla dimensione politica. Il problema principale che si frappone fra i valori e la loro realizzazione è costituito dagli interessi degli stati che si fanno paladini del processo di esportazione. Come spiega chiaramente Canfora, fino a questo momento gli stati che si sono mossi in difesa di altre realtà in balia di conflitti hanno agito solamente quando entravano in gioco fattori politici ed economici che potevano essere utilizzati a loro vantaggio. Fatto ancor più grave, le potenze che scendono in campo a fianco di coloro che vengono fatti oggetto di soprusi si nascondono dietro la bandiera della salvaguardia della libertà per legittimare quelle che sono nella maggior parte dei casi meri atti di conquista. Canfora sostiene quindi una tesi realpolitica nei confronti dell’esportazione della democrazia. Il realismo politico concepisce la politica come una «…lotta che ha come fine il potere e come mezzo la forza»1.

Nonostante sia un “ismo”, non possiamo parlare del realismo politico come una ben precisa ideologia, date le diverse sfaccettature che lo caratterizzano. Inoltre il realismo nasce proprio come critica alle ideologie che, secondo i realisti, non fanno che distogliere l’attenzione dalle necessità primarie che devono governare lo stato e chi ne è a capo. La politica è una lotta fra realtà e apparenza e il realismo si preoccupa di far convergere questi due ambiti diversi per ottenere la sopravvivenza dello stato, dando maggiore importanza però alla dimensione pratica della politica. Questa tesi pone le sue basi nella generale sfiducia nutrita dai realisti nei confronti dell’uomo e del principio di eguaglianza che dovrebbe eliminare ogni distinzione e appianare ogni divergenza. L’uomo è considerato come intrinsecamente dedito alla ricerca del benessere personale anche a  scapito di quello dei suoi simili. Allo stesso modo gli stati devono dedicarsi alla ricerca delle condizioni della loro sopravvivenza senza preoccuparsi eccessivamente di mantenere la pace e la collaborazione a livello internazionale. La natura relativa di tutte le creazioni dell’uomo, anche a livello ideale, costringe in uno stato di relatività anche quelle conquiste che sono da sempre considerate come intoccabili e universali, come la giustizia, la legge e perfino la stessa ragione umana. Le basi della filosofia politica sono così scardinate e cedono il passo ad un approccio alla politica che si basa sull’osservazione scientifica del passato e del presente al fine di elaborare le condizioni che garantiscano la sopravvivenza di una comunità. Nell’analisi storica del realista politico hanno grande spazio anche il caso e i bisogni primari degli esseri umani.

La conseguenza più immediata di questo approccio è la delineazione di uno spazio riservato alle relazioni internazionali dominato dall’utilizzo della guerra come unico strumento per garantire la sicurezza e la pace. Di conseguenza le ragioni addotte per giustificare gli interventi militari, come l’esportazione della libertà, sono in realtà motivazioni di facciata atte a mascherare il proprio desiderio di supremazia. Il realismo politico esiste da sempre, anche se molti ne ignorano le dinamiche o credono che ogni intervento militare sia giustificato sul piano ideologico o addirittura trovi in esso le sue ragioni profonde. Già con le Storie di Tucidide, all’interno delle quali trova un posto di grande rilievo la narrazione quasi integrale della guerra del Peloponneso, si delineano le linee guida del realismo politico, così come sopra elencate. Si deve poi a Niccolò Machiavelli il merito di aver sollevato quel velo di ragioni ideologiche addotte per legittimare un’azione di forza che spesso e volentieri non sono nient’altro che pura e semplice ipocrisia. Machiavelli ci svela senza compromessi il lato “demoniaco”2 del potere, invertendo, in politica, l’importanza gerarchica tra apparire ed essere, a favore del primo. L’arte della dissimulazione e la scaltrezza diventano essenziali, seppur sempre al servizio della stabilità dello Stato. La separazione della politica dalla religione e dalla morale è senz’altro un dato che ci permette di comprendere alcuni meccanismi che governano la politica, i quali, senza una buona dose di cinismo, risulterebbero preclusi alla nostra analisi. Con l’avvento della modernità si è tentato di eliminare, peraltro senza successo, la visione politica imposta dal realismo che, fino a quel momento, aveva dimostrato quasi sempre di poter offrire una valida spiegazione delle dinamiche politiche, come Machiavelli ci illustra nel Principe3. Dal Seicento in poi infatti, anche se la periodizzazione è come sempre molto approssimativa, si è tentato di costruire dottrine politiche che poggiassero sulla razionalità e sull’intelletto, al fine di giungere all’eliminazione dei conflitti interni ed esterni allo stato. L’economia di stampo mercantilista che proprio in quel periodo cominciava a diventare la principale fonte di arricchimento incoraggiava fortemente lo sviluppo di una comunità pacifica e priva di quei conflitti che, anche a livello internazionale, avrebbero danneggiato gravemente il commercio. Proprio in quest’ambito assistiamo alla rinascita delle idee cosmopolite ad opera di Kant e altri pensatori prima e dopo di lui. Sebbene l’approccio realista sia stato a più riprese criticato anche severamente, non possiamo liquidarlo come appartenente ad epoche definitivamente superate, data la sua capacità di adattamento ai diversi contesti e alle diverse epoche storiche. Spesso le ideologie vanno in crisi e per vari motivi vengono abbandonate, mentre il realismo politico trova sempre terreno fertile nel quale mettere radici.

A conferma di questa tesi Canfora ci mostra come la storia spesso e volentieri veda trionfare gli interessi pratici sugli ideali. Esportare la libertà  si apre proprio con un riferimento alla guerra del Peloponneso, combattuta tra Sparta e Atene tra il 431 e il 404 a. C. Dato che Atene aveva da tempo riunito le città alleate in un lega sulla quale esercitava un vero e proprio dominio, gli Spartani, per dare maggior forza sul piano ideologico alla loro causa e provocare la defezione del maggior numero possibile degli alleati di Atene, che poco gradivano il giogo, si presentarono come i restauratori della libertà delle città greche. Quanto poco veritiera fosse questa propaganda ci viene rivelato dal caso della rivolta antiateniese dell’isola di Samo, scoppiata nel 441 a. C. Gli Ateniesi avevano scatenato una repressione violentissima, tanto che si può parlare di una vera e propria guerra, durata quasi due anni. Sparta avrebbe avuto l’opportunità di intervenire ma, giudicando i tempi non ancora maturi per intraprendere un’azione militare, non mosse un dito in difesa degli abitanti di Samo. Ciononostante l’iniziativa degli Spartani di presentarsi come liberatori della Grecia dall’imperialismo di Atene ebbe successo, tantoché le defezioni ricominciarono in massa dopo l’inizio della guerra. Dopo la fine della guerra però fu evidente che era ormai impossibile far coincidere la propaganda con la politica di potenza attuata dagli Spartani. Una situazione paradossale si era già venuta a creare nelle fasi finali della guerra. Infatti gli Spartani erano risultati vincitori grazie al supporto finanziario dell’impero persiano, tradizionale nemico della libertà delle città greche. La libertà della Grecia fu comperata con l’oro persiano. Quando le contraddizioni tra ideali e interessi sono così evidenti, anche il più solido degli imperi è destinato a cadere, così come accadrà a Sparta, che verrà sconfitta non molto tempo dopo la fine della guerra dalla superiorità navale dei persiani, sotto il comando, ironia della sorte, di un generale ateniese. Questa celebre guerra costituisce un efficace paradigma per comprendere come i valori della libertà e, con riferimento al presente, della democrazia, vengano sempre meno quando non coincidono con più stringenti interessi di tipo economico o politico. Da questo punto di vista la storia successiva alla lotta fra Sparta e Atene è un lungo elenco di soprusi compiuti in nome della libertà.

Di questo lungo percorso di mistificazioni un altro momento cardine è rappresentato dalla Rivoluzione francese. La decisione di portare la libertà ai popoli di tutta Europa con le armi si sarebbe tramutata in una guerra di conquista, soprattutto dopo che la Francia rivoluzionaria diventerà l’Impero francese. Anche qui la contraddizione in termini è evidente, tanto che, col passare del tempo, in tutti i paesi “liberati” dalle armi francesi, una vasta parte della popolazione percepirà sempre più la presenza dei “liberatori” come una nuova forma di sottomissione. Anche in questo caso gli ideali hanno ceduto il passo agli interessi della potenza vincitrice. Questo principio sarà applicato in tutto il suo cinismo il 17 aprile 1797, quando Bonaparte, allor generale del Direttorio e vincitore della campagna d’Italia, cederà quella che ormai era diventata la repubblica di Venezia all’Austria per suggellare la pace (trattato di Campoformio)4. La figura di Napoleone, già agli albori di quella che sarebbe diventata la sua rapida ascesa al potere, rappresenta la personificazione dei principi che riassumiamo sotto la definizione di Realpolitik. Egli seppe sfruttare a suo vantaggio la diversità delle situazioni, dimostrando una notevole maestria nel rafforzare la sua persona nel corso delle diverse fasi della rivoluzione. Proprio in nome di questo cinismo realpolitico egli fu il più importante artefice del passaggio dalla Rivoluzione all’Impero. Ed è stato infatti il realismo di Napoleone e di coloro che ne avevano sostenuto l’ascesa a piegare gli ideali della rivoluzione francese e a trasformarla in ciò che aveva tentato di distruggere5. Finché gli fu possibile continuò a dar credito alla sua immagine di “spada della rivoluzione”, anche a seguito dell’instaurazione dell’Impero. Chi, a giudizio di Canfora, aveva compreso prima del tempo l’inquietante paradosso insito nella guerra di liberazione e le conseguenze a cui esso avrebbe portato, fu Maximilien Robespierre. Ancora non era a capo del comitato di salute pubblica, al momento del voto sull’ingresso in guerra egli si pronunciò contro questo proposito proclamando: «L’idea più stravagante che possa nascere nella testa di un uomo politico è quella di credere che sia sufficiente per un popolo entrare a mano armata nel territorio di un popolo straniero per fargli adottare le sue leggi e la sua costituzione. Nessuno ama i missionari armati; il primo consiglio che danno la natura e la prudenza è quello di respingerli come nemici»6. Parole a dir poco profetiche, non solo per quanto riguarda gli esiti della rivoluzione ma anche per la storia successiva, inclusa quella recente.

La storia si sarebbe ripetuta anche per quanto riguarda la “liberazione” dell’Europa dell’Est dal dominio della Germania nazista ad opera dell’armata rossa di Stalin durante la Seconda guerra mondiale. La triste fine degli stati “liberati̕” fu quella di passare dal dominio tedesco a quello sovietico. Un posto d’onore a questa rassegna di aggressioni compiute in nome della libertà è riservato da Canfora al ruolo che gli Stati Uniti hanno avuto e continuano ad avere nello scacchiere internazionale dal secondo dopoguerra ad oggi. Proprio con la fine della seconda guerra mondiale si afferma definitivamente il predominio di USA e URSS su gran parte del mondo. Il periodo che seguirà di lì a poco e che si sarebbe concluso con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 sarà, a ragione, definito guerra fredda. Le esigenze dei singoli stati risultarono spesso sacrificate da coloro che avevano in mano le redini di quello che possiamo definire il “grande gioco”7 della geopolitica all’epoca della guerra fredda. La condotta degli Stati Uniti in ambito internazionale è esemplare nel dimostrare come la diffusione della libertà e della democrazia siano per lo più armi retoriche alle quali fare affidamento per dare maggior forza ad un intervento militare o per delegittimare le operazioni della potenza rivale che si accinge a compiere la stessa operazione. Già nel 1947 il presidente Harry Truman annunciava la sua omonima dottrina, secondo la quale gli Stati Uniti dovevano operare su scala globale con tutti i mezzi a loro disposizione per evitare la diffusione del comunismo. A questa teoria si aggiunse poi negli anni ’50, sotto la presidenza di Dwight Eisenhower, la teoria del roll back, ossia del “ributtare indietro” il comunismo, elaborata dal segretario di stato John Foster Dulles. Appoggiandosi a quella che possiamo definire una vera e propria fobia del comunismo e di una sua costante minaccia all’Occidente, si pensi alla “caccia alle streghe” del senatore Mac Carthy, gli Stati Uniti, nella ricostruzione di Canfora, si adoperarono per estendere la loro egemonia, in modo diretto o indiretto, sulla quasi totalità del globo, adoperandosi per instaurare governi a loro fedeli e accondiscendenti anche rispetto alla loro politica economica. Un’altra forma di “aiuto” a popolazioni impegnate nella lotta per la libertà era quella di rifornire di armi e di aiuti di altro genere coloro che si ribellavano alla penetrazione comunista, come nel caso dei talebani dell’Afghanistan, oppure che dovevano eliminare una realtà sgradita, come nel caso dell’Iraq di Saddam, armato dagli americani per logorare l’Iran rivoluzionario dell’ayatollah Khomeini. Ironia della storia: gli alleati del momento nella lotta al comunismo e al fondamentalismo diventeranno i nemici di domani.

Quello che, a giudizio di Canfora, spesso si dimentica, è che coloro i quali si definiscono e vengono definiti paladini della libertà si sono in passato adoperati per instaurare vere e proprie dittature militari, preferite alla democrazie autonome, perché più facili da controllare. Il caso del colpo di stato in Cile ad opera del generale Pinochet contro il governo liberamente eletto di Salvador Allende è uno dei tanti esempi che dimostrano che la democrazia non è sempre stata ritenuta dai governi americani la migliore e più conveniente forma di governo ̒da esportare̕. Un esempio forse ancora più tragico di questo modus operandi è costituito, negli esempi addotti da Canfora, dal rovesciamento del governo legittimo del presidente Arbenz Guzmán in Guatemala ad opera dei mercenari di Castillo Armas, inviati nel 1954 su ordine del presidente Eisenhower. Perché si era arrivati a tanto? La motivazione principale era costituita dal fatto che il Guatemala ostacolava la politica della United Fruit Company, potentissima multinazionale statunitense attiva già da fine Ottocento in America Latina ed impegnata nell’esportazione di frutta. La libertà fu di fatto venduta ”̒per un casco di banane̕”. Dopo la fine dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti sono, come è noto, diventati una superpotenza solitaria. Privi di un loro pari al quale rendere conto in caso di azioni militari e diplomatiche troppo azzardate e privi della minaccia di una guerra atomica, la politica estera americana ha mutato la forma ma non la sostanza dei suoi interventi. Senza la necessità di operare sotto mentite spoglie, come spesso era accaduto durante la guerra fredda, dove era la CIA a dover intervenire in modo da evitare una crisi diplomatica con l’URSS, gli americani sono stati in grado di impiegare liberamente le loro truppe ovunque se ne fosse sentito il bisogno.

Risulta però inutile la censura o la disapprovazione per la condotta attuale della politica estera statunitense, dato che essa non opera niente di diverso da quello che in tutto il mondo e in tutte le epoche si è sempre fatto, ossia agire secondo i propri interessi. Le operazioni di state-building compiute in Afghanistan e Iraq dagli statunitensi sono solamente la prosecuzione più raffinata di una politica imperialistica da sempre perseguita dagli Stati Uniti e da altre potenze prima di loro. Naturalmente anche ai giorni nostri ogni intervento acquista maggior vigore agli occhi di chi deve supportarlo se ammantato di una serie di ragioni più o meno valide (la salvaguardia dei diritti umani, una possibile minaccia alla sicurezza, ecc.), generalmente accettate dall’opinione pubblica. Negli Stati Uniti, in particolare, a seguito degli attacchi alle torri gemelle è stata realizzata una campagna mediatica volta a inculcare nella mente di ogni cittadino americano la necessità di combattere il terrorismo, anche con l’uso della forza militare. Il caso degli Stati Uniti è particolarmente interessante, perché dopo la seconda guerra mondiale essi sono stati identificati come i portatori dei valori della libertà e della democrazia. Una buona parte degli americani e della classe dirigente, percepisce il proprio paese come l’unica realtà in grado di diffondere la democrazia in tutto il mondo. Questa idea è derivata in parte dall’assunto che gli Stati Uniti siano l’espressione più compiuta della democrazia liberale, data la loro origine rivoluzionaria. Dall’altra parte, la mentalità di stampo prettamente imperialistico affermatasi dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, ha portato nel corso del tempo la maggioranza dell’opinione pubblica a considerare gli interessi dell’America come gli interessi del mondo intero8. Sembra quasi che ci si sia dimenticati, sottolinea Canfora, che le rivoluzioni in senso autoritario scoppiate in America Latina erano state sostenute nella maggioranza dei casi proprio dagli esportatori della democrazia per antonomasia. Le autorità statunitensi hanno ripetutamente sostenuto la necessità di impegnarsi nella risoluzione di conflitti esterni giustificandola come un’azione volta alla diffusione dei valori della democrazia liberale. In questo modo però si è contribuito a imprimere nella mente dell’opinione pubblica l’inscindibilità fra intervento armato ed esportazione della democrazia9. Da un certo punto di vista l’idea stessa di esportare la libertà e la democrazia con le armi è quanto mai un paradosso: le armi sono strumenti usati per imporre con la forza la volontà dei vincitori ai vinti, dai quali difficilmente può nascere un paese veramente libero.

La prospettiva dell’esportazione della democrazia attuata in modo totalmente disinteressato subisce un altro duro colpo se pensiamo che questa ed altre operazioni sono state legittimate attraverso quella che possiamo definire una vera e propria manipolazione dell’opinione pubblica attraverso l’uso massiccio dei mezzi di informazione, responsabili della diffusione di notizie falsificate, come il possesso di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq. L’allora presidente in carica George W. Bush Jr. aveva ammaliato l’opinione pubblica mondiale delineando l’esistenza di un fantomatico “asse del male” che univa Iraq, Iran e Corea del Nord in un’alleanza simile a quella che univa Germania, Italia e Giappone durante il secondo conflitto mondiale. Quindi cosa è cambiato dai tempi della guerra condotta da Sparta in nome della libertà dei greci? Purtroppo molto poco. Sono cambiati i mezzi propagandistici e gli scopi presunti, ma la sostanza è rimasta invariata.  
                                                                     
Adottando la visione di Canfora arriviamo ad una totale eliminazione del principio di sovranità. Seguendo la visione delle relazioni internazionali e della natura dello stato stesso dettate dalla Realpolitik, la sovranità di uno stato esiste solamente se è salvaguardata dalla forza delle armi. In definitiva se assumiamo il punto di vista di Canfora, del resto ampiamente condiviso in ambiti diversi nell’analisi politica contemporanea, riconosciamo come impossibile la realizzazione pratica dell’idea che è alla base degli interventi umanitari.

Nel lungo braccio di ferro tra idealismo e realismo, che ha caratterizzato tutta la storia dell’umanità, secondo Canfora è quest’ultimo a prevalere. Qualsiasi possibilità di portare la democrazia in modo totalmente disinteressato, risulta pertanto negata. Sembra quasi che Machiavelli abbia vinto una volta di più nel disegnare una politica sgombra da ideali o princìpi, alla mercé del più forte. Risulta chiaro che una politica internazionale modellata sul principio dell’interesse dei singoli stati e sulla forza militare non può che portare allo scontro tra potenze e al fallimento di qualsiasi disegno cosmopolita. Il realismo inoltre, data la sua attenzione pressoché esclusiva alla conservazione dello stato, è poco incline ad imbarcarsi in ambiziosi progetti di nation-building e di esportazione di istituzioni democratiche in altri paesi, avvicinandosi, anche se solo parzialmente, ad un approccio di stampo conservatore per quanto riguarda la politica estera. Con ciò non vogliamo sostenere l’esistenza di una connessione tra conservatorismo e realismo, ma solo sottolineare che  il realista tende, talvolta, ad avvicinarsi al modus operandi di un conservatore, dato il suo intento primario, ossia la cura e l’integrità dello stato. Proprio il progetto cosmopolita è una delle proposte riprese in epoca illuminista per superare il realismo e cercare invece una collaborazione fra stati basati sulla loro uguaglianza e sui vantaggi a tutti i livelli che possono derivare da una loro coesistenza pacifica. Tuttavia, adottando una visione realpolitica delle relazioni internazionali non si rischia si cadere in uno stato di anarchia totale, dato che i rapporti di forza fra i vari stati portano necessariamente ad una gerarchizzazione degli stati nello scacchiere internazionale. Se diamo credito alla trattazione polemica ma raffinata di Canfora non ci resta quindi che abbandonare ogni velleità idealista e non pensare più a esportare la democrazia, almeno preservando la sostanza, e non soltanto le forme ipocrite, della buona fede e del rispetto dei diritti dei popoli.

 

 

 

 

 

 

1. Pier Paolo Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari, 1999, p 19.

2. Per una disamina più approfondita del rapporto fra politica e morale cfr. Gerhard Ritter, Il volto demoniaco del potere, Il Mulino, Bologna, 1997.  Machiavelli stesso sarà a lungo etichettato come un essere demoniaco, tanto che in Inghilterra lo si conoscerà per lungo tempo come, the old Nick, uno dei nomignoli attribuiti al diavolo.

3. Niccolò Machiavelli, Il principe, Mondadori, Milano, 1994.

4. Avvenimento che turberà profondamente molti intellettuali che fino a quel momento avevano appoggiato senza riserve le conquiste francesi, tra i quali Ugo Foscolo.

5. Riprendiamo qui l’immagine suggestiva che compare nel libro di Jean Jacques Chevallier Le grandi opere del pensiero politico (Il Mulino, Bologna, 1998). L’autore suggerisce che dopo la Rivoluzione francese e la Rivoluzione d’Ottobre lo Stato, inteso come la macchina statale, anziché soccombere sotto i colpi della rivoluzione si è rafforzato e perfezionato, cfr. p. 419.

6. Luciano Canfora, Esportare la libertà. Il mito che ha fallito, Mondadori, Milano, 2007, p.20.

7. Mi servo di un’espressione di Peter Hopkirk, che è anche il titolo di un suo celeberrimo libro. Sebbene Hopkirk parlasse di grande gioco della politica riferendosi all’espansione coloniale dell’Ottocento e in particolare agli scontri tra russi e inglesi per il controllo dell’Afghanistan penso che l’espressione sia ancora efficace per descrivere le dinamiche che sono alla base della politica internazionale.

8. Cfr. intervista a Christopher J. Coyne e Tamara Cofman Wittes, originariamente apparsa sul “Cato Policy Report” del gennaio/febbraio 2008.

9.Cfr. Eric Hobsbawn, The dangers of exporting democracy, originariamente apparso su “The Guardian” del 22 gennaio 2005.

10. Cfr. Tucidide, La Guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003.

GUINEA BISSAU: DA NARCOSTATO A STATO FALLITO?

0
0

La primavera del 2012 è stato un periodo molto convulso per l’Africa Occidentale: poche settimane dopo il colpo di Stato in Mali, vi è stato un importante sconvolgimento politico in Guinea Bissau. Il Paese, che da lunghi anni vive una situazione di instabilità, ha visto emergere in modo brutale le posizioni dell’élite militare. Infatti nel Paese si stava cercando di mettere in pratica delle politiche volte a ridimensionare il ruolo storico dei vertici dell’esercito che, per lungo tempo, hanno avuto voce in capitolo nelle scelte politiche della Guinea Bissau. Nel momento in cui queste nuove politiche stavano mettendo a repentaglio lo status quo, si è scatenata la reazione violenta dell’esercito che ha preso in mano le sorti del paese proprio nel momento in cui si stavano tenendo le elezioni presidenziali, in seguito alla morte prematura del Presidente Malam Bacai. Il Paese oggi rischia di essere un nuovo esempio di Stato fallito, contraddistinto dalla mancanza di un potere politico capace di affrontare i problemi che fin dall’indipendenza pregiudicano il benessere dei suoi cittadini1. La corruzione ed il traffico di stupefacenti determinano una situazione di sottosviluppo economico e sociale che fanno sì che il Paese sia uno dei più poveri al mondo.

Fin dal momento della sua indipendenza, l’ex colonia portoghese ha subito il ruolo dominante dei militari senza poter limitare in alcun modo il loro peso nelle scelte, non solo politiche, ma anche economiche2. Nel 1999, le Nazioni Unite decisero di dar vita alla missione UNOGBIS, per affrontare tre ordini di problemi. In primis doveva essere risolta la crisi politica che perdurava ormai da un lungo periodo e che aveva portato ad una cronica incapacità nella risposta alle richieste della popolazione; in secondo luogo le condizione di vita precarie della popolazione, che nel 1999 superava di poco il milione di individui; infine, le difficoltà incontrate dai governi nel tentativo di regolamentare l’economia del paese. La mancanza di uno sviluppo economico era anche dovuta alla mancanza, o quasi, di una classe imprenditoriale che potesse sfruttare le risorse umane e naturali di cui è dotato il territorio3. Per queste ed altre ragioni, gli obiettivi della missione delle Nazioni Unite riguardavano la possibilità di garantire una pace stabile e duratura. Le Nazioni Unite volevano far sì che questo percorso andasse avanti a tappe forzate e che si concludesse con lo svolgimento delle elezioni presidenziali. Questa missione fu messa in piedi anche perché vi era il rischio che l’instabilità politica potesse espandersi nei paesi confinanti, tra i quali Guinea-Conakry e Senegal. L’Africa Occidentale rappresenta da sempre un’area strategica, non solo per la presenza  di risorse naturali, ma anche perché fornisce basi strategiche al controllo di un territorio densamente popolato. Alla scadenza del primo mandato della missione UNOGBIS fu presentata una relazione che esponeva i risultati ottenuti, tra i quali le elezioni presidenziali tenute proprio nel 1999, e sottolineava la necessità di una profonda riforma delle forze armate.

Nella primavera del 2012, più precisamente nel mese di aprile, Carlos Gomez Junior si apprestava a diventare il nuovo presidente dopo aver vinto nettamente il primo turno delle elezioni sfiorando il 49% dei voti e staccando nettamente il secondo candidato, Kumba Yala, fermatosi al 23%. Benché la vittoria fu netta, non avendo raggiunto il 50% più uno dei voti, non poté evitare il ballottaggio e quindi dover continuare una dura campagna elettorale. Nonostante gli osservatori internazionali non abbiano riscontrato irregolarità nelle fasi del voto, quasi tutti i candidati alle elezioni hanno manifestato il loro dissenso parlando di veri e propri brogli. Proprio per questo motivo Kumba Yala aveva manifestato l’intenzione di voler boicottare il secondo turno delle elezioni chiedendo ai suoi sostenitori di non presentarsi alle urne, tale scelta è stata motivata dall’idea che erano stati messi in essere dei brogli volti a favorire l’elezione dell’allora Primo Ministro Gomez Junior. Nella notte del 12 aprile (il secondo turno delle elezioni si sarebbe dovuto tenere il 29 dello stesso mese) un commando militare ha occupato la capitale Bissau ed ha arrestato il Presidente ad interim Pereira e anche lo stesso Gomez, prendendo in mano il potere. Nelle ore immediatamente successive al golpe si pensava che l’intervento dei militari potesse essere una risposta all’accusa di brogli e quindi un tentativo volto ad evitare un crescendo di violenza per le strade di Bissau. Effettivamente la motivazione non fu questa, infatti i golpisti non sovvertirono il normale processo democratico in seguito alle accuse di brogli da parte degli oppositori di Gomez, ma bensì perché accusavano quest’ultimo di aver sancito segretamente un accordo con un Paese straniero, cioè con l’Angola. Accordo che, a detta dei golpisti, pregiudicavano la sovranità nazionale a favore dei militari angolani già presenti nel paese da diverso tempo poiché facenti parte della MISSANG, una missione angolana volta a fornire supporto alle forze di sicurezza della Guinea Bissau. L’esercito non aveva mai accettato la presenza di militari stranieri all’interno dei confini del Paese e l’ormai scontata elezione di Gomez Junior avrebbe potuto consolidare la presenza straniera, nonostante il governo dell’Angola avesse chiarito in più occasioni la volontà di voler interrompere questa missione, proprio perché fortemente osteggiata da alcuni partiti politici4.

La missione del governo angolano nasceva proprio come risposta a quella necessità di rivedere il ruolo dell’esercito all’interno della sfera politica guineana più volte sottolineata non solo dalle Nazioni Unite ma anche dalle organizzazioni regionali africane. Tra queste organizzazioni bisogna sicuramente citare l’ECOWAS l’organizzazione economica dell’Africa Occidentale, che sta avendo un ruolo importante nella soluzione della crisi in Mali, e anche la Comunità dei Paesi lusofoni (CPLP)5.  Proprio quest’ultima organizzazione, di cui fanno parte le ex colonie portoghesi ed il Portogallo stesso, si era preposta l’obiettivo di fornire sostegno alla Guinea Bissau per cercare di operare una ristrutturazione dell’esercito6. I dati riguardanti la corruzione ci consegnano una realtà che non può essere migliorata solo attraverso un ridimensionamento di quello che è il ruolo dell’esercito, bensì appare evidente che il Paese necessita di tutta una serie di riforme che modifichino profondamente l’assetto istituzionale7. Una situazione caratterizzata da alti tassi di corruzione, soprattutto nelle forze di polizia, dovuto principalmente al fatto che, oggi, la Guinea Bissau rappresenta un vero e proprio snodo commerciale della droga tra America Latina ed Europa. Gran parte degli stupefacenti prodotti nelle regioni andine prima di giungere nel mercato europeo (principalmente Spagna, Regno Unito ed Italia) passano proprio per la Guinea Bissau. I narcotrafficanti internazionali prediligono quest’area proprio per la mancanza di forze di controllo che in qualche modo possano ostacolino la loro azione e per la, già citata, diffusa corruzione. La pratica della corruzione è solamente una concausa poiché le forze di polizia guineane non dispongono dei mezzi e delle risorse che possano permetterli di contrastare efficacemente questi traffici illeciti8.

Il traffico internazionale di droga in Africa Occidentale perdura ormai da decenni e non riguarda solamente l’ex colonia portoghese, le rotte passano anche per la Guinea, ex colonia francese, e per il golfo del Benin. Le rotte scelte dai narcotrafficanti si adeguano in base al cambiamento degli equilibri e proprio per questo motivo il recente colpo di Stato in Guinea Bissau ed in Mali hanno fatto si che questi due territori siano tra quelli più allettanti. Le merci che passano per questa regione non sono solamente stupefacenti ma anche armi e uomini, soprattutto nella fascia saheliana. La morfologia del territorio, caratterizzato dalla presenza di insenature, piccole isole e numerose baie, rende tutt’altro che agevole il lavoro delle forze preposte al controllo doganale e alla lotta al contrabbando. Proprio a livello doganale che si inserisce la cattiva pratica della corruzione che rende inefficace lo sforzo dei governi in questa difficile lotta, dato il fatto che i contrabbandieri, grazie agli introiti della vendita delle droghe, dispongono di mezzi e tecnologie superiori rispetto alle forze preposte al controllo. Per questo ci si riferisce alla Guinea Bissau come un vero e proprio narcostato, cioè un Paese dove l’economia è influenzata pesantemente dal traffico di droga e dove il potere politico poco può nella lotta contro questi traffici illeciti. Tutto ciò comporta importanti conseguenze sia sul piano economico ma anche su quello sociale poiché l’economia illegale può arrivare a superare quella legale. Per questi motivi il PIL pro capite della Guinea Bissau è tra i più bassi al mondo, secondo i dati del’FMI si piazza 167esimo posto senza superare i 1200 dollari per cittadino. Dati che contrastano con le potenzialità di cui è dotato il Paese, non solo perché è ormai nota la presenza di giacimenti di gas e petrolio al largo delle sue coste, ma proprio per l’estensione delle coste che oltre a rappresentare una risorsa per poter sviluppare l’industria ittica fungono anche da approdo per quei Paese che non hanno uno sbocco sul mare. Proprio per queste potenzialità la Cina ha rinforzato i rapporti con la Guinea Bissau e, più in generale, con i Paesi membri della CPLP, riducendo i dazi doganali sia per le importazione che per le esportazioni. L’interesse cinese da un lato può rappresentare una potenzialità, ad esempio nella costruzione di infrastrutture, potrebbe contribuire ad aumentare i tassi di corruzione se non vengono portare avanti delle politiche volte a ridurre questa pratica9.

A un anno dal colpo di Stato, la Guinea Bissau vive una situazione di forte incertezza e di ancor più profonda instabilità politica. L’ECOWAS, insieme all’Unione Africana, sta cercando di delineare un percorso che porti alle elezioni ma che, nelle varie tappe di avvicinamento, possa rinforzare le fragili istituzioni statale così da evitare che proprio la chiamata alle urne diventi occasione di scontro tra l’élite militare ed i partiti, come già avvenuto in passato10. Questa situazione determina un forte peggioramento della situazione economica dato che non arrivano investimenti dall’estero, ritenuti troppo rischiosi soprattutto alla luce della crisi economica, e dato che l’opinione pubblica e la comunità internazionale concentra le sue attenzione nella crisi in Mali. Proprio la contemporanea congiuntura politica nel Sahel tende a diminuire la possibilità da parte delle Nazioni Unite, ma anche dell’Unione Europea, di poter fornire un sostegno valido ad aiutare la stabilizzazione nel Paese. Per questo motivo quello che avverrà nei prossimi mesi potrebbe essere un buon ambiente di prova per le organizzazioni regionali interessate, come l’ECOWAS e anche la CPLP, che potrebbero trovare una giusta armonia di interessi capace di portare allo svolgimento delle elezioni. Nel momento in cui ci sarà la chiamata alle urne, sarà necessario ed importante la presenza di osservatori esterni da parte delle più importanti organizzazioni governative in modo tale da mettere al riparo dagli attacchi di brogli il partito che dovesse ottenere la maggioranza dei voti. Una volta raggiunto tale obiettivo potrebbero giungere nel Paese degli investimenti esteri capaci di essere uno stimolo per l’economia e, anche grazie al sostegno delle ONG, si potrebbero studiare dei piani che possano sostenere la nascita di una classe imprenditoriale locale11. Imprenditori che hanno bisogno di essere formati e puntare su diversi settori come, ad esempio, sull’agricoltura, cercando di operare una diversificazione della produzione che, in passato, è stata legata alla produzione solamente degli anacardi. La scelta della monocoltura, cioè coltivare principalmente un solo prodotto, determina dei grossi rischi poiché nel momento in cui la domanda di quel bene dovesse calare ed il prezzo dello stesso si riducesse in modo repentino questo potrebbe determinare grosse perdite economiche. Inoltre per poter sviluppare la produzione agricola è necessario dotarsi di un know-how e di un certo livello di tecnologia che limiti i rischi legati ai periodi di siccità.

 

 

 

 

 

 

1.Patrick Chabal, A History of Postcolonial Lusophone Africa, Hurst&Co., Londra 2002

2. David Stephen, Guinea Bissau coup: military plays politics to defend own power, African arguments, 23 aprile 2012

3. Carlo Lopes, Etnia, Stato e rapporti di potere in Guinea-Bissau, GVC, Lisbona 1982

4. Patricia Ferreira, State-Society relations in Angola, FRIDE, Lisbona 2009

5. A.O. Enabulele, Reflections on the ECOWAS Community Court Protocol and the Constitutions of Member States, “International Community Law Review”,  n.12/2010 p.115

6.Birgit Embalo, Civil–military relations and political order in Guinea-Bissau, “Journal of Modern African Studies”, n. 2/2012, pp. 253-281

7. M.P. Temudo, From the margins of the State to the presidential palace: the Balanta case in Guinea Bissau, “African Review”, n.2/2009

8. Demas R.R., Moment of truth: development in sub-saharan Africa and critical alterations needed in application of the foreign corrupt practices act and other anti-corruption initiatives, “American University International Law Review”, 26/2011, p.340

9. Patricia Gomes, Cina e Stati Uniti in Guinea Bissau: tra cooperazione e politica dell’assistenza, Guinea Conacry: dall’isolamento internazionale all’interesse delle grandi potenze, Meridione Sud e Nord nel Mondo, “Meridione” 2008 n.3/2012, p.86

10. Barry Munslow, The 1980 Coup in Guinea Bissau, “Review of African Political Economy” n.21/1981, pp.109-113

11. Aizenman, J., N. Marion, Policy Uncertainty, Persistence and Growth, “Review of International Economics” n. 1/1993, pp. 145–163

INTERVENTO A “LA NOTTE DI RADIO1″

0
0

Il 22 marzo scorso è andato in onda all’interno del programma radiofonico “La notte di Radio 1″ (nell’occasione interamente dedicato a Cipro, in virtù delle recenti vicende che hanno sconvolto la vita socio-economica dell’Isola) un intervento di Federico Capnist, collaboratore del sito di “Eurasia” e autore di un articolo relativo alla “questione Cipriota”. L’intervento – pur nella sua brevità – ha riguardato sia la perdurante occupazione britannica ed i suoi effetti negativi sulla vita nell’Isola, sia la forte presenza russa, oggi diventata anche fisica al di là di quella economico-finanziaria. L’intervista è disponibile, a partire dal minuto ’39, al seguente collegamento: Cipro

“RADIKAL ANDERS”

0
0

Fabio Falchi, contributor of the review “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici” has been interviewed by Manuel Ochsenreiter about the political movement “5 stars”, which has won 22.55% of the votes in the last Italian general elections. Here the English translation of the interview, which has been published in the last issue of the German magazine “Zuerst!” (4/2013) under the title “Radikal anders”.

 

 

Mr. Falchi, the German social democrat candidate for the chancellors position, Peer Steinbrück, called Silvio Berlusconi and Beppe Grillo “clowns”. Let´s talk about Grillo – is he really a “clown”? 

Beppe Grillo, is a comedian and blogger involved in politics since 2009. In a few years he has built up a new movement, “MoVimento 5 Stelle” ,from nothing, exploiting in an intelligent way the potential of Internet (the candidates of “MoVimento 5 Stelle” were chosen by party members through an online primary), but also conquering the squares, which traditionally belonged to the political left (on 22 February 2013, a large crowd of people attended the last meeting of Beppe Grillo in Piazza San Giovanni, in Rome). “MoVimento 5 Stelle” is composed of simple citizens joined together by hatred for the corruption and poor governance of the traditional parties. So, at the general election, last February, the civic “MoVimento 5 Stelle” won 25.55% of the vote for the Chamber of Deputies (and 23.79% of the vote for the Senate). Now it is the first party (even if it is not the first coalition) in the Chamber of Deputies. Apart from any other consideration, it is evident that Grillo is a clever politician, not a “clown”, and there is nothing to laugh about the success of “MoVimento 5 Stelle”.

 

 

German mainstream media sees in Beppe Grillo a “danger for the EU”, because he refuses the European currency. Is that right?

We do not know exactly what Grillo and “MoVimento 5 Stelle” think about “european currency” but we know that they think that european currency is not the solution of the “Eu problem” but it is “part” of this problem. We know that the danger of “Eu” is “Eu”, because “Eu” cannot or does not want to combat the dominance of financial markets. It seems that Grillo wants a referendum on the European currency, but a referendun cannot abolish an international treaty. Of course, it is important that Grillo clarifies as soon as possible his ideas about this problem, that, in the first place, is a (geo)political problem, not a mere economic problem – and we must remember that many european countries, members of “Eu”, have not European currency; in any case, there are “technical solution”, such as two euros (“northern euro” and “southern euro”, on the basis of a solidarity pact), or back to the “European snake”, or a real political and monetary “Eu” changing the role of the European Central Bank (that seems longa manus of financial markets in Europe) ad so on. The question is that “this Eu” cannot survive, Grillo or not Grillo. And many observers think that “Italy ship”, rebus sic stantibus, is expected to arrive in Piraeus! We must take into account the failure of “austerity” to understand the “phenomenon Grillo”.

 

 

What can you say about the MoVimento 5 Stelle? Is it a movement of the political right or left? Is it a real opposition party? 

“MoVimento 5 Stelle” is neither moviment of political rigth nor left. Moreover, now political right and political left are two sides of the same coin.There are differences, but these differences are not very important. But, even if it is not fascist, or better neo-fascist moviment, it is true that Grillo has not not specific ideological roots and many observers consider “MoVimento 5 Stelle” as a demagogue and “populist” movement. Nevertheless, Grillo and his many supporters protest against financial speculation, the installation of Nato military bases and Italian military missions abroad. And Grillo had the courage to criticize Israel and defend the reasons of Iran. So, only if these political positions are the basis for the policy of the “MoVimento 5 Stelle” , this new moviment will be a real opposition party.

 

 

Will Grillo have influence on politics in Italy in future? Do you rate that positive or negative – and why?

“MoVimento 5 Stelle” is likely to deflate quickly, if it does not “grow” from political point of view. Criticizing the ruling class is different from being a ruling class. As you know, there are also many “doubts” about Gianroberto Casaleggio, co-founder of “MoVimento 5 Stelle”, of which he is called “guru”. In the next few weeks or in the next few months these doubts will disappear. However, considering the Italian situation and that all other comparable parties are blackmailed by the financial markets it is positive this “caos”. And we know that financial markets “speak English”. It is no coincidence tha United States want an economic Nato to strengthen relationship between the United States and Europe. Indeed, this would be the death of Europe. But we cannot prevent it with the actual (Italian and European, with few execeptions) ruling class. In this perspective, in my opinion, “MoVimento 5 Stelle” is  not so much important. But “if” a new political movement should get out from this “caos”, a political force able to counter financial markets and the aberrant power politics of United States, then we could say that the success of “MoVimento 5 Stelle” is “not negative”. From a realistic point of view it is unlikely that “MoVimento 5 Stelle” can be such a political force (that seems very far from “Eurasian weltanschauung” and Grillo unfortunately does not seem to be an “Italian Chavez”) . But, it is not impossible that “something” hinders “euro-atlanticst mincer”. In effect, also in other european countries are growing so called “populist” (but not neo-fascist) movements. Also they have not a clear political theory (yet), but they seem to place at the center of the political debate people’s problems and that it is absurd that a State depends on the financial markets. Therefore, we should be “pragmatic” about all these movements. In this case, it is fair to say, without being vulgar, that the end could justify the means.

 

I CONFLITTI NEL CAUCASO E LA STABILITÀ DELLA RUSSIA. SABATO 6 APRILE A TRIESTE

0
0

Il Centro Studi Eurasia-Mediterraneo (www.cese-m.eu) organizza sabato 6 aprile alle ore 17:30 presso la Libreria Internazionale La Fenice in via Battisti 6 (Galleria Fenice) aTrieste il convegno “I conflitti nel Caucaso e la stabilità della Russia”.

Lorenzo Salimbeni, Presidente del CeSE-M, introdurrà l’incontro analizzando i separatismi presenti nella regione del Caucaso, a partire dalla Cecenia, spesso eterodiretti e collusi con le reti del terrorismo internazionale jihadista, vero e proprio fattore di destabilizzazione utilizzato a proprio uso e consumo dai competitori internazionali di Mosca in questo ed altri scenari.

L’analisi passerà quindi al cosiddetto “Estero vicino” della Russia, in particolare alle ex repubbliche sovietiche caucasiche, con Mauro Murgia (sociologo e Presidente dell’Associazione Italia-Abkhazia), il quale, partendo dall’aggressione georgiana nei confronti dell’Abkhazia nell’estate 2008, ne descriverà gli antefatti, ma anche e soprattutto l’attuale stato dei colloqui e dei tentativi di mediazione. A tal proposito, verrà presentata la pubblicazione “Abkhazia”, che, ripercorrendo la storia e le vicende del piccolo Stato, fornisce anche preziose indicazioni per investitori economici ed operatori internazionali.

Filippo Pederzini, collaboratore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” (www.eurasia-rivista.org) relazionerà altresì sulla vicenda del Nagorno Karabagh, enclave armena in Azerbaijan, nonché tipico esempio di quei cosiddetti “conflitti congelati” che costellano lo scacchiere dell’ex URSS: da questo caso esemplare l’intervento spazierà sulla manipolazione dell’informazione finalizzata alla diffusione di un sentimento russofobico funzionale ai progetti delle potenze occidentaliste.  

 

  Caucaso_Russia
 

http://www.cese-m.eu/cesem/2013/03/convegno-i-conflitti-nel-caucaso-e-la-stabilita-della-russia-sabato-6-aprile-a-trieste/  


LA COREA DEL NORD DICHIARA LO STATO DI GUERRA

0
0

L’agenzia di stampa statale nordcoreana KCNA informa, citando un comunicato ufficiale, che la Corea del Nord ha dichiarato lo stato di guerra con la Corea del Sud

 
 
La Corea del Nord ha annunciato che risolverà tutte le questioni in sospeso tra le due Coree, come in tempo di guerra. “Questa è la fine dello stato di non pace e di non guerra in cui si trovava la penisola coreana”, recita la dichiarazione. “Tutte le azioni del governo, dei partiti politici e delle organizzazioni saranno ora valutate considerando che il nostro paese è in guerra con la Corea del Sud”, recita la dichiarazione sottolineando che questa “decisione importante” del leader nordcoreano Kim Jong-Un costituisce un ultimatum alle “forze ostili” ed è un passo decisivo verso il perseguimento della giustizia. L’esercito della Corea del Nord rimane in attesa di un ordine di Kim Jong-Un, che ha ordinato di prepararsi per un possibile attacco missilistico. La dichiarazione avverte che la Corea del Nord scatenerà una rappresaglia senza pietà nel caso di un atto di provocazione da parte degli USA o della Corea del sud. Questo venerdì le forze armate della Corea del Sud hanno registrato un aumento dell’attività delle basi missilistiche della Corea del Nord, dopo la firma del leader nordcoreano Kim Jong-Un di un piano strategico di preparazione delle truppe, che ordina alle unità missilistiche di tenersi pronte a lanciare in qualsiasi momento un attacco contro gli USA. Pochi giorni fa le autorità della Corea del Nord hanno inviato a quelle del Sud una notifica di telefonica di sospensione dei collegamenti con la linea del “telefono rosso”, attraverso la quale i due paesi mantengono contatti militari d’emergenza, finché il Sud non abbandoni il suo atteggiamento ostile. La tensione nella penisola coreana, è aumentata dopo l’adozione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di nuove sanzioni contro la Corea del Nord, in risposta al suo terzo test nucleare; si era acutizzato ancor prima che si sapesse, che la Corea del Sud e gli Stati Uniti  stanno impiegando nell’area bombardieri strategici B-52 e sottomarini nucleari nelle esercitazioni militari congiunte realizzate nella regione. Pyongyang ha definito questo fatto una “provocazione imperdonabile”.

 

 

(Traduzione di Marco Nocera da RT Español) 

INTERVISTA A FABIO FALCHI SUL MOVIMENTO CINQUE STELLE

0
0

La rivista tedesca “Zuerst!” ha pubblicato nel n. 4/2013 un’intervista con Fabio Falchi, redattore di “Eurasia”, sul fenomeno del movimento dei “grillini”. Qui di seguito la traduzione italiana.

 

 

Zuerst!: Peter Steinbrück,il candidato della Spd alla cancelleria, ha definito Silvio Berlusconi e Beppe Grillo due “clown”. Parliamo di Grillo – è davvero un “pagliaccio”?

Fabio Falchi: Beppe Grillo, è un comico e blogger impegnato in politica dal 2009. In pochi anni ha  costruito il “Movimento 5 Stelle” (M5S) dal nulla, non solo sfruttando in modo intelligente la potenzialità di Internet (i candidati del M5S sono stati scelti tramite delle primarie on line), ma anche riuscendo a conquistare le “piazza”, che tradizionalmente apparteneva alla sinistra (il 22 febbraio scorso, cioè due giorni prima delle elezioni politiche, un enorme numero di persone ha partecipato alla manifestazione del M5S in Piazza San Giovanni, a Roma). Il M5S è infatti composto da semplici cittadini uniti dal disgusto e dalla ripugnanza per la corruzione e il malgoverno dei partiti tradizionali.

Orbene, alle elezioni politiche il M5S  ha ottenuto 25,55% dei voti per la Camera dei deputati (e il 23,79% dei voti per il Senato) e ora è il primo partito (anche se non la prima coalizione) alla Camera dei deputati. A parte ogni altra considerazione, è evidente quindi che Grillo è un politico intelligente, non un “pagliaccio”, e che non vi è nulla da ridere riguardo al successo del M5S, che invece si deve considerare molto seriamente.

 

 

Zuerst!: I principali media tedeschi vedono in Beppe Grillo un “pericolo per l’UE”, perché egli  rifiuta la moneta europea. E’ così?

Fabio Falchi: Non sappiamo esattamente che cosa Grillo e il M5S  pensino riguardo all’euro,  anche se si può sostenere che ritengono che l’euro non sia la soluzione del problema della UE, bensì “parte” di questo problema. D’altronde, noi sappiamo che il pericolo dell’UE è la stessa UE, dato che l’UE non può o non vuole opporsi alla (pre)potenza dei mercati finanziari.

Sembra comunque che Grillo voglia un referendum sulla moneta unica europea, anche se un referendum non può abrogare un trattato internazionale. E’ importante allora che Grillo chiarisca al più presto le sue idee in merito a questo problema, che, in primo luogo, è un problema (geo)politico, non un mero problema economico – e non dobbiamo dimenticare che molti Stati dell’UE non sono membri di Eurolandia. Inoltre non mancano soluzioni “tecniche”: due euro (un euro per il Nord Europa ed un euro per Sud Europa, sulla base di un patto di solidarietà), oppure ritornare al cosiddetto ” Serpente europeo” o una vera e propria Unione politico-monetaria , cambiando il ruolo della BCE (che però sembra essere la longa manus dei mercati finanziari in Europa) e così via. Ma la vera questione è che “questa Ue” non può sopravvivere, Grillo o non Grillo. E molti osservatori pensano che la “nave Italia”, rebus sic stantibus, sia destinata ad arrivare al Pireo!

Dobbiamo dunque prendere in considerazione il fallimento della politica di austerità, imposta dalla UE, se vogliamo capire il “fenomeno Grillo”.

 

 

Zuerst!: Che cosa si può dire del M5S? E’ un movimento di destra o di sinistra? E si tratta di un vero e proprio partito di opposizione? 

Fabio Falchi: Il M5S non pare essere né di destra né di sinistra. Del resto, ormai  destra e sinistra sono due facce della stessa medaglia. Vi sono delle differenze, ma non sono molto importanti. D’altra parte, anche se il M5S non è un movimento fascista o meglio neo-fascista, è pur vero che Grillo non ha precise “radici ideologiche” e che per questo molti osservatori ritengono che il M5S sia un movimento “demagogico”  e “populista”. Tuttavia, Grillo e molti dei suoi sostenitori sono contro la speculazione finanziaria, contro la presenza di basi militari della Nato e contro le missioni militari italiane all’estero. E Grillo ha avuto pure il coraggio di criticare Israele e di difendere le ragioni dell’Iran. Sicché solo se queste posizioni saranno a fondamento della visione e della prassi politica del M5S, questo nuovo movimento potrà essere un vero e proprio partito di opposizione.

 

 

Zuerst!: Avrà Grillo una reale influenza sulla politica italiana ? Se ciò accadesse, sarebbe positivo o negativo – e perché? 

Fabio Falchi: Il M5S rischia di sgonfiarsi rapidamente, se non “crescerà” dal punto di vista politico. Criticare la classe dirigente è naturalmente ben diverso dall’essere una classe dirigente. Com’è noto, ci sono anche molti “dubbi” circa Gianroberto Casaleggio, co-fondatore (e da alcuni definito addirittura “guru”) del M5S. Nelle prossime settimane o nei prossimi mesi questi dubbi dovrebbero sparire. Comunque sia, considerando la situazione italiana e il fatto che tutti gli altri partiti sono  ricattabili da parte dei “mercati”, questo “caos” pare positivo. Inoltre, si sa che i mercati finanziari “parlano inglese”. Non a caso gli Stati Uniti vogliono una NATO economica allo scopo di rafforzare le relazioni tra gli USA e l’ Europa. Di fatto, ciò equivarrebbe alla fine dell’Europa. Ma non possiamo impedirlo con l’attuale classe dirigente italiana (ed europea, tranne poche eccezioni). In questa prospettiva, a mio parere, non è tanto importante il M5S, in quanto tale. Ma se un nuovo movimento politico dovesse nascere da questo “caos” – una forza politica in grado di contrastare i mercati finanziari e la politica di potenza degli Stati Uniti – allora potremmo senza dubbio sostenere che il successo del M5S non è negativo. Se si deve essere “realisti”, si deve però riconoscere che è improbabile che tale forza politica possa essere il M5S (che, tra l’altro, pare essere assai distante da una “Weltanschauung” eurasiatista – e difficilmente, purtroppo, Grillo può essere considerato un “Chavez” italiano ).

Eppure, non è impossibile che adesso “qualcosa” possa ostacolare il “tritacarne euro-atlantista”. In effetti, anche in altri Paesi europei stanno “crescendo” dei movimenti cosiddetti “populisti” (non neo-fascisti). Si tratta di movimenti che non si basano (almeno per ora) su una salda e chiara dottrina politica, ma tendono a mettere al centro del dibattito politico i problemi delle persone “in carne ed ossa” e a mettere l’accento sul fatto che è assurdo che uno Stato dipenda dai “mercati”. Di conseguenza, si dovrebbe essere “pragmatici” per quanto concerne il giudizio su tutti questi movimenti. In definitiva, è lecito affermare, senza essere “volgari”, che in questa situazione il fine giustifica i mezzi.

THE WESTERN USE OF ISLAMISM

0
0

In his famous book The Clash of Civilizations Samuel Huntington affirms that the true problem of western world is not the Islamic fundamentalism, but Islam itself. The American ideologist explains that Islamis a strategical enemy of the West, because the confrontation between the two is an existential conflict between secularist values and religious ones, Human Rights and Divine Rights, Democracy and Theocracy. Therefore, until Islam remains Islam and the West remains the West, the conflict will mark their mutual relations.

Huntington’s assertion indicates not only the strategical enemy of the West, but also its tactical ally, that is the Islamic fundamentalism. However in 1996, when The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order was published, such a tactical alliance was already existing.

An Arabian ex-ambassador, who had been accredited to the United States and Great Britain, writes: “It is a fact that the USA have stipulated alliances with the Muslim Brothers in order to expel the Soviets from Afghanistan and that since then the USA have courted the Islamist current, supporting its propagation through the Muslim world. Towards the Islamists, most of western States have followed the example of their major ally and have adopted an attitude going from the benevolent neutrality to the resolved connivance” (1).

The western support to the so-called Islamic integralism or fundamentalism did not start in Afghanistan in 1979, where six month before the Soviet intervention the US intelligence had begun to aid the Afghan guerrilla (as the ex director of CIA Robert writes in his book From the Shadows). This support dates back to the fifties and the sixties of the last century, when Great Britain and USA, considering the Nasserian Egypt as the main obstacle to the western hegemony in the Mediterranean region, gave their aid to the Muslim Brothers. A son-in-law of the movement’s founder, Sa’id Ramadan, who created an important Islamic centre in Munich, received money and instructions from the CIA agent Bob Dreher. According the project explained by Sa’id Ramadan to Arthur Schlesinger Jr.: “When the enemy is armed with a totalitarian ideology and served by regiments of devoted believers, those with opposing policies must compete at the popular level of action and the essence of their tactics must be counter-faith and counter-devotion. Only popular forces, genuinely involved and genuinely reacting on their own behalf, can meet the infiltrating threat of Communism” (2).

The exploitation of the Islamist movements useful to the Atlantic strategy did not finish with the Red Army’s retreat from Afghanistan. The aid granted by Clinton’s administration to the Bosnian and Kosovar separatism, the US and English support to wahhabi terror in Caucasian region, Brzezinski’s patronage to fundamentalist movements in Central Asia, the intervention in Libya and Syria are episodes of a war waged against Eurasia, in which the North Americans and their allies have turned to the Islamist collaboration.

Rachid Ghannouchi, who in 1991 received George Bush’s praise for the role he had played in mediating the agreement among the Afghan factions, has tried to justify the Islamist collaborationism, sketching ad idyllic picture of the relations between the USA and the Muslim world. Speaking with a French journalist who asked him if he considered the North Americans more conciliatory than Europeans towards the Muslims, the founder of An-Nahda replied in the affirmative, because “an American colonialism never existed in the Muslim countries; no Crusades, no war, no history”; moreover, Ghannouchi recalled the common struggle of North Americans, Britains and Islamists against the bolshevist enemy (3).

 

 

The “noble salafist tradition”

As an Italian orientalist writes, the Islamist current represented by Rachid Ghannouchi “refers to the noble salafist tradition of Muhammad Abduh and has had a more modern version in the Muslim Brothers’ movement” (4).

To return to the pure Islam of the “pious ancestors” (as-salaf as-salihin) and to make a clean sweep of the tradition originated by the Quran and the Prophet’s Sunnah in the course of the centuries: this is the program of the reformist current whose starters were Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897) and Muhammad Abduh (1849-1905).

Al-Afghani, who in 1883 founded the Salafiyya Society, in 1878 had been initiated in a Masonic lodge of Scottish rite in Cairo. He introduced his disciples into the Masonry; among them, Muhammad Abduh became the Mufti of Egypt in 1899 with the consent of British authorities.

“They deserve all the encouragement and support which can be given to them. They are the natural allies of the western reformer” (5). This explicit acknowledgment of the role played by the reformers Muhammad Abduh and Sir Sayyid Ahmad Khan (1817-1889) was given by Lord Cromer (1841-1917), one of the main architects of British imperialism in the Muslim world. Indeed Ahmad Khan stated that “the British domination in India is the most beautiful thing ever seen by the world” and that “it is not islamically lawful to rebel against the English until they respect Islam and the Muslims are allowed to practise the religion”, while Muhammad Abduh transmitted the rationalist and scientist ideas of the West to the Muslim milieu. According to Abduh, in the modern civilization there is nothing contrasting with Islam (he identified the jinns with the microbes and was persuaded that Darwin’s evolutionist theory is contained in the Quran); hence the necessity of revising and correcting the traditional doctrine, submitting it to the judgment of the reason and welcoming the scientific and cultural contributions of the modern thought.

After Abduh, the leader of the Salafist current was Rashid Rida, who after the end of the Ottoman Caliphate planned the birth a “progressive Islamic party” being able to create a new Caliphate. In 1897 Rashid Rida had founded a review, “Al Manar”, which was diffused in the Arabian world and also otherwhere; after Rida’s death, its publisher was another representative of Islamic reformism, Hasan al-Banna (1906-1949), the founder of the Muslim Brothers.

While Rashid Rida theorized the birth of a new, reformed Islamic State, in the Arabian Peninsula was born the Saudi Kingdom, ruled by another reformist ideology: Wahhabism.

 

 

The Wahhabi sect

The name of the Wahhabi sect comes from the patronymic of Muhammad ibn Abd al-Wahhab (1703-1792), a follower of the Hanbali school who became enthusiastic over the texts of the literalist jurisprudent Taqi ad-din Ahmad ibn Taymiyya (1263-1328). An interpreter of Quranic symbols from an anthropomorfic viewpoint and a mortal enemy of Sufism, Ibn Taymiyya was frequently accused of heterodoxy and has deserved the definition of “father of Salafist movements” (6). Following his teachings, Ibn Abd al-Wahhab and the Wahhabis condemned as idolatric polytheism (shirk) the faith in the intercession of prophets and saints, so that they considered “polytheist” (mushrik) also the devout believer invoking the Holy Prophet or praying God next to the shrine of a shaykh.

The Wahhabis attacked the holy towns of Shiites, sacking their mosques; after taking possession of Mecca and Madina, they demolished the tombs of Companions and martyrs and even violated the grave of Prophet Muhammad; they banned the initiatic organizations and the Sufi practises, abolished the celebration of the Holy Prophet’s birthday, extorted money from the pilgrims, suspended the Pilgrimage to the Holy House of God, issued the oddest and queerest prohibitions.

After being defeated by the Ottoman army, the Wahhabis separated supporting two rival dynasties (Saud and Rashid) and during a century their civil wars covered with blood the Arabian Peninsula, until Ibn Saud (1882-1953) changed the condition of the sect. Being supported by Great Britain, which in 1915 had instaured official relations with him and had made the Sultanate of Najd a “quasi protectorate” (7), Ibn Saud occupied Mecca in 1924 and Madina in 1925. This way he became “King of Hejaz and Najd and its dependencies”, according to the title decerned to him by Great Britain in Jeddah’s treaty of May 1927.

“His victories – a famous orientalist writes – have made him the most powerful sovereign in Arabia. His dominions reach Irak, Palestine, Syria, Red Sea and Persian Gulf. His prominent personality has imposed itself through the creation of the Ikhwan, i.e. the Brothers: a brotherhood of activist Wahhabis that English Philby has called ‘a new Masonry’ ” (8).

The quoted Philby was Harry St. John Bridger Philby (1885-1960), the organizer of the Arabian anti-Ottoman revolt, who “in Ibn Saud’s court occupied the seat of the deceased Shakespeare” (9), as hyperbolically wrote another orientalist. This new Shakespeare exposed his project to Winston Churchill, George V, Baron Rothschild and Chaim Weizmann: a Saudi kingdom usurping the custody of the Holy Places (traditionally due to the Hashemite dynasty) would be able to unify the Arabian Peninsula and to control the seaway Suez-Aden-Mumbay on behalf of England.

After the Second World War, during which Saudi Arabia had observed a pro-English neutrality, the British patronage was gradually replaced by the North American one. On March 1st 1945, on the board of the Quincy, Roosevelt had an historical meeting with Ibn Saud, who “has ever been a great admirer of America, preferred by him to even to England” (10), as proudly observed by a fellow-countryman of the US President. Indeed since 1933 the Saudi monarchy had granted the oil concession to Standard Oil Company of California and since 1934 the US company Saoudi Arabian Mining Syndicate held the monopoly of the gold digging and mining.

 

 

The Muslim Brothers

In order to contain the nasserian panarabism, the baathist national-socialism and – after the Islamic Revolution in Iran – the shiite influence, the neo-royal family of Saud needed an “International” as support for its hegemony in the Muslim world. Therefore the Muslim Brothers put at the disposal of Riyad their militant network, which was strengthened by Saudi funds. “After 1973 the improving incomes deriving from the oil market are assigned to Africa and to the Muslim communities in the West, where a not well established Islam run the risk of opening the door to the Iranian influence” (11). However the synergy between the Wahhabi monarchy and the movement founded by Hasan al-Banna (1906-1949) is based on a common ideological ground, because the Muslim Brothers are “direct heirs, even if not always strictly faithful, of Muhammad Abduh’s salafiyyah” (12) and bear in their DNA the tendency to accept the modern western civilization, with all the due reservations.

Tariq Ramadan, Hasan al-Banna’s grandson and representative of the reformist Muslim intelligentsia, interprets the thought of the movement’s founder: “Like all the reformists who preceeded him, Hasan al-Banna never demonized the West. (…) The West has permitted the mankind to make great strides since the Renaissance, with the beginning of a wide process of secularization (a positive contribution, considering the speciality of Christian religion and clerical institution)” (13). The reformist intellectual remembers that his grandfather, performing the activity of school teacher, drew his inspiration from the most recent pedagogical theories of the West and reports a significant passage written by him: “From the western schools and their programs we must take the constant interest for the modern education, their way of facing the requirements and the preparation to learning (…) We must take advantage of all that, without being shy: science is a right of everyone” (14).

The so-called “Arabian Spring” has proved that the Muslim Brothers, supported by USA in Libya, in Tunisia, in Egypt and in Syria, are willing to accept those western ideological main points which – as Huntington has underlined – clash with Islam. The Egyptian party “Freedom and Justice”, born on the initiative of the Brotherhood and controlled by it, appeals to the Human Rights, champions the democratic doctrine, supports the capitalist economy, does not refuse the loans of the international usurocratic institutions. The Muslim Brother become Egyptian President has studied in USA, where he was assistant lecturer at the California State University; two of his children are American citizens. He has immediately declared that Egypt will observe all the treaties stipulated with other countries (included the Jewish State); he has paid his first official visit to Saudi Arabia and has declared his will of strengthening the Egyptian relations with Riyad; he has proclamed an “ethic duty” the support to the armed opposition struggling against the Syrian government.

If the thesis upheld by Huntington about Islam and Islamism needed a proof, it seems that it has been given by the Muslim Brothers.

 

 

 

 

 

1. Rédha Malek, Tradition et révolution. L’enjeu de la modernité en Algérie et dans l’Islam, ANEP, Rouiba (Algeria) 2001, p. 218.

2. http://www.american-buddha.com/lit.johnsonamosqueinmunich.12.htm

3. “- Les Américains vous semblent-ils plus conciliants que les Européens? – A l’égard de l’islam, oui. Il n’y a pas de passé colonial entre les pays musulmans et l’Amérique, pas de croisades; pas de guerre, pas d’histoire… – Et vous aviez un ennemi commun: le communisme athée, qui a poussé les Américains à vous soutenir… – Sans doute, mais la Grande-Bretagne de Margaret Thatcher était aussi anticommuniste…” (Tunisie: un leader islamiste veut rentrer, 22/01/2011; http://plus.lefigaro.fr/article/tunisie-un-leader-islamiste-veut-rentrer-20110122-380767/commentaires).

4. Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 137.

5. Quoted by Maryam Jameelah, Islam and Modernism, Mohammad Yusuf Khan, Srinagar-Lahore 1975, p. 153.

6. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989, p. 126.

7. Carlo Alfonso Nallino, Raccolta di scritti editi e inediti, Vol. I L’Arabia Sa’udiana, Istituto per l’Oriente, Roma 1939, p. 151.

8. Henri Lammens, L’Islàm. Credenze e istituzioni, Laterza, Bari 1948, p. 158.

9. Giulio Germanus, Sulle orme di Maometto, vol. I, Garzanti, Milano 1946, p. 142.

10. John Van Ess, Incontro con gli Arabi, Garzanti, Milano 1948, p. 108.

11. Alain Chouet, L’association des Frères Musulmans, http://alain.chouet.free.fr/documents/fmuz2.htm.

12. Massimo Campanini, I Fratelli Musulmani nella seconda guerra mondiale: politica e ideologia, “Nuova rivista storica”, a. LXXVIII, fasc. 3, sett.-dic. 1994, p. 625.

13. Tariq Ramadan, Il riformismo islamico. Un secolo di rinnovamento musulmano, Città Aperta, Troina 2004, pp. 350-351.

14. Hassan al-Banna, Hal nusir fi madrasatina wara’ al-gharb, “Al-fath”, Sept. 19th 1929, quoted by Tariq Ramadan, Il riformismo islamico, p. 352.

LA RUSSIA NEL MEDITERRANEO, LA QUESTIONE DEGLI STRETTI E DI CIPRO

0
0

Il raggiungimento di uno sbocco su mari caldi, come il Mediterraneo, ha da sempre costituito uno dei più importanti obiettivi geopolitici della politica estera di Pietrogrado e Mosca. Nel corso dei secoli l’Impero Russo si espanse fino a controllare stabilmente tutte le coste settentrionali del Mar Nero. Quando nel 1922 l’Ucraina entrò ufficialmente a far parte dell’URSS, la possibilità di avere accesso al Mediterraneo, venuta meno dopo la Rivoluzione del 1917 e la Guerra Civile (1917-1920), venne assicurata ancora una volta. Ancor’oggi gli interessi russi a mantenere una forte presenza nel Mediterraneo sono percepiti come vitali da Mosca. L’indipendenza ucraina ha ridotto significativamente le coste russe che si affacciano sul Mar Nero e, sebbene nel 1991 fu trovato un accordo tra Mosca e Kiev per la divisione della flotta sovietica nel Mar Nero e la gestione coordinata della base di Sebastopoli, negli ultimi anni il crescente dinamismo dell’Ucraina ha portato ad alcuni contrasti con la Federazione Russa, che vedeva minacciati i propri interessi nella regione. Già nel 2003 Putin siglò un decreto che prevedeva la costruzione di una nuova grande base per la flotta russa nel Mar Nero presso la città russa di Novorossijsk, che avrebbe eventualmente sostituito l’attuale base di Sebastopoli qualora Kiev non si fosse dichiarata disponibile a rinnovare l’accordo, la cui scadenza era prevista nel 2017. Più di recente, nell’aprile 2010, il presidente russo Putin e l’omologo ucraino Janukovich firmarono un accordo per prolungare di venti anni la concessione alla flotta russa, con l’eventuale possibilità di un’ulteriore estensione di altri cinque anni.

Sin dai tempi più remoti, l’accesso al Mediterraneo risponde a due bisogni fondamentali per la Russia. In primo luogo vi è una ragione di ordine commerciale: le acque dei porti del Baltico e del Mar Bianco nei mesi invernali congelano, impedendo così l’attracco alle navi; la seconda ragione è invece di ordine militare, l’aumento continuo dell’importanza della Russia nel contesto internazionale la obbliga ad incrementare la propria capacità di proiezione verso l’estero e la flotta del Mar Nero costituisce un fondamentale tassello di questa capacità. Tuttavia affinché questi elementi trovino la loro giusta contestualizzazione nel quadro della politica estera russa sul Mediterraneo dobbiamo ancora una volta partire da un fattore puramente geografico: il Mar Nero è un bacino chiuso, collegato al Mediterraneo dagli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli. Il controllo delle coste del Mar Nero non è quindi un fattore sufficiente per l’obiettivo di più ampio respiro della politica estera russa. Assicurare alla proprie flotte, mercantili e soprattutto militari, la possibilità di un passaggio sicuro attraverso questi stretti divenne una necessità imperativa per la politica estera di Pietrogrado prima e di Mosca poi, tanto che dal XVIII al XX secolo la questione degli stretti rappresentò uno degli elementi di maggior contrasto tra la Russia ed i suoi diretti competitori: Gran Bretagna prima e Stati Uniti poi.

Fino all’ascesa al potere di Napoleone, gli interessi militari russi sul Mar Mediterraneo erano motivati principalmente dal conflitto con l’Impero Ottomano e dalla lotta alla pirateria, che vessava i mercantili degli Zar. La nascita del primo Impero Francese e la conseguente modifica degli assetti europei portò ad un sempre maggiore coinvolgimento di Pietrogrado nel bacino del Mediterraneo. Nel 1798 Napoleone Bonaparte era intenzionato a sconfiggere l’ostile Gran Bretagna privandola dell’Egitto, che costituiva per Londra una cerniera tra la madrepatria e le sue colonie asiatiche. Napoleone, in rotta per Alessandria, occupò Malta e disperse l’Ordine dei Cavalieri di San Giovanni, che vi risiedeva. Questo evento ebbe ripercussioni notevoli sulla politica estera dell’Impero Russo nel corso delle Guerre Napoleoniche. Infatti durante la Terza Spartizione della Polonia, nel 1795, l’Impero Russo aveva ottenuto il controllo della regione della Volinia, territorio cattolico sul quale sorgeva un Priorato dei Cavalieri di Malta. Lo Zar Paolo I si dimostrò magnanimo nei confronti dell’Ordine e ne confermò i privilegi, oltre ad incrementarne i benefici, tant’è che, con la caduta di La Valletta, i Cavalieri lo nominarono Gran Maestro. Questo fatto suscitò in Paolo un maggior interesse per il Mediterraneo e la volontà di installare basi navali russe sulle sue isole. Nel 1799 Fëdor Fëdorovič Ušakov venne nominato Ammiraglio Supremo della flotta russa dallo Zar e fu inviato nel Mediterraneo per supportare la campagna italiana del Generale Aleksandr Vasil’evič Suvorov; gli Stretti furono aperti dal Sultano, anch’egli in guerra con Napoleone, dato che la sovranità sull’Egitto apparteneva ancora ad Istanbul. L’Ammiraglio Ušakov liberò le Isole Ionie e ne costituì una repubblica, Paolo I ordinò quindi di assaltare Malta, che era inefficacemente assediata dalla flotta dell’Ammiraglio Nelson da lungo tempo. Londra tuttavia richiese che la flotta russa fosse spostata lungo le coste dell’Egitto – richiesta che suscitò il malcontento tanto di Ušakov quanto dello Zar. L’interesse di Paolo per Malta era infatti evidente e non sorprende che, a seguito della sua occupazione ad opera dei britannici nel 1800, egli si sia irritato tanto da far sprofondare la Russia in un periodo di forte isolamento diplomatico. Paolo I morì poco dopo vittima di una congiura nel 1801, sarà suo figlio, Alessandro I, a risollevare l’Impero dall’isolazionismo dovuto al padre.

La volontà del nuovo Zar era – una volta raggiunta la pace – ottenere una modifica del diritto marittimo, suscitando l’aperta ostilità della Gran Bretagna di Pitt. Nonostante queste incomprensioni, le necessità di guerra portarono alla sottoscrizione di un’alleanza nel 1805. In quegli anni la Russia poteva contare ancora sull’alleanza con l’Impero Ottomano e sul sicuro passaggio negli Stretti: questi restavano un problema, ma posposto rispetto alle altre priorità belliche in Europa. La questione tornò ad acuirsi dopo Austerlitz. Gli ottomani consideravano l’Impero Russo ancora come il nemico principale e se i francesi potevano sconfiggere gli eserciti russi, essi avrebbero potuto proteggere i sudditi ottomani nei Balcani. Persuasa da questo assioma, la Sublime Porta chiuse gli stretti alle navi russe nell’aprile del 1806 e nel dicembre dello stesso anno scoppiò una nuova guerra russo-ottomana. La guerra si protrasse fino al 1812 e vide la vittoria di Pietrogrado; indipendentemente dalle sorti europee. Con il Trattato di Bucarest firmato da Kutuzov il 28 maggio, i turchi cedettero la Bessarabia allo Zar.

Conclusesi le Guerre Napoleoniche l’Impero Russo divenne la prima potenza continentale, mentre il nemico ottomano visse un periodo di forte declino che attirerà le corti europee sui Balcani. Nel 1821 le comunità greche della Rumelia si sollevarono sostenute dai rumeni di Valacchia, ma furono sconfitte dalle milizie del Sultano. La repressione degli ortodossi e la mancata autonomia serba[1] deteriorarono i rapporti tra Pietrogrado e Istanbul. Quando nel 1825 Nicola I salì al trono di Russia, la questione greca giaceva ancora irrisolta. Nonostante alcune divergenze con Londra, Pietrogrado e Vienna iniziarono dei colloqui per concordare un’azione comune. Il Sultano, temendo un fronte comune, si vide costretto ad appoggiare le richieste russe contenute nell’ultimatum del marzo 1826. Il 7 ottobre 1826, con la Convenzione di Akkerman, l’Impero Ottomano assicurò una larga autonomia a Serbia, Moldavia e Valacchia, ma soprattutto garantì alle navi russe il diritto di navigare in acque ottomane ed in ultimo il passaggio per gli Stretti.

Nel frattempo in Grecia era però giunto Ibrahim Pasha, figlio di Mohammed ‘Ali, signore dell’Egitto, e vassallo del Sultano. La situazione per i greci si fece disperata e Francia, Inghilterra e Russia intervennero. La battaglia di Navarino portò alla sconfitta della flotta egiziana, ma questo non fece che spingere il Sultano ad invocare la guerra santa e a revocare il Trattato di Akkerman. Nel 1828 la Russia dichiarava così guerra all’Impero Ottomano. Nel 1829 la guerra si concluse, venne trovata una soluzione alla questione greca garantendole un’ampia autonomia[2] e, con il Trattato di Adrianopoli, l’Impero Russo ottenne l’estensione della frontiera europea con l’Impero Ottomano includendovi il ramo meridionale del delta del Danubio. Inoltre il trattato sanciva che la Russia avrebbe potuto commerciare liberamente nel territorio della Sublime Porta, nonché nel Mar Nero e negli Stretti, ed essi sarebbero stati aperti alle navi di tutte le potenze che si trovavano in pace con il Sultano[3].

La politica di Nicola I si concentrò a questo punto su un rafforzamento dell’influenza russa nell’Impero Ottomano con l’intento di garantirsi il controllo degli stretti. La congiuntura interna turca fu particolarmente favorevole all’obiettivo russo data l’insurrezione dell’Egitto contro il Sultano del 1832. Mohammed ‘Ali, in protesta per il mancato compenso per l’aiuto fornito in Grecia, inviò il figlio in Asia Minore e rapidi successi egiziani misero Istanbul sotto minaccia di attacco diretto. Il Sultano non poté che chiedere aiuto alle potenze europee, e a rispondere all’appello fu solo l’Impero Russo. Mohammed ‘Ali si ritirò ed il Sultano fu costretto a sottoscrivere un nuovo accordo. Nel Trattato di Hunkar Iskelesi l’Impero Russo si impegnò a fornire assistenza armata agli ottomani, mentre l’Impero islamico si impegnò, su richiesta del governo russo, a chiudere gli Stretti a tutte le navi da guerra straniere, raggiungendo cosi l’obiettivo che Nicola si era proposto inizialmente.

Nel 1841 la crisi egiziana si concluse e fu messa in atto l’intenzione delle potenze di risolvere il problema degli stretti. Il 13 luglio 1841 fu firmata dalle cinque potenze europee la Convenzione degli Stretti, che forniva alla Russia la sicurezza già disposta nell’Accordo di Hunkar Iskelesi, trattato che veniva meno. Chiaramente questa sicurezza era limitata alle occasioni in cui il Sultano non fosse sceso in guerra. Pertanto era necessario per la Russia mantenere una flotta nel Mar Nero capace di difenderne la costa meridionale.

A ridimensionare il peso ed il potere russo nell’area, nella seconda meta del XIX secolo, fu un nuovo conflitto scoppiato in prossimità del Mar Nero: la Guerra di Crimea. Nel 1850 l’Impero Ottomano era ancora lontano dall’aver risolto i propri problemi interni. Il casus belli fu originato dai tentativi russi, respinti dalla Porta, di ottenere un nuovo trattato con il Sultano che autorizzasse la protezione sui sudditi ortodossi risiedenti in territorio ottomano (come peraltro era stato concesso a Napoleone II per i sudditi cattolici). Nel luglio del 1853 le armate russe oltrepassarono il Prut. Il rischio di veder l’Impero Russo ottenere ulteriori benefici a discapito dell’Impero Ottomano nei Balcani e sui mari, spinse Londra e Parigi ad intervenire a fianco degli ottomani. La neutralità della Prussia e l’intervento diplomatico austriaco a fianco del Sultano, nonché l’attacco nel Baltico, che privò di importanti truppe il fronte russo a Sud, furono le principali cause della sconfitta russa nel 1856. La Conferenza di Pace si aprì a Parigi nel 1856 e la Convenzione degli Stretti fu rivista «nell’interesse dell’equilibrio europeo»[4].

Le pesanti condizioni inflitte a Pietrogrado dopo il conflitto di Crimea spinsero lo Zar Alessandro II ad adoperarsi sin da subito per ottenere la revisione delle clausole del Trattato. Il concerto europeo rispose freddamente alle richieste della diplomazia russa. A sbloccare la situazione fu la politica del cancelliere Otto von Bismarck che, con la sconfitta della Francia nel conflitto del 1870, permise a Pietrogrado di ottenere la revoca delle clausole di neutralizzazione del Mar Nero.

I Balcani restarono una zona di forte instabilità e nel 1877 i tempi divennero maturi per una nuova guerra russo-ottomana. Nonostante non riuscì ad ottenere uno sbocco sul Mediterraneo[5], l’Impero Russo uscì rafforzato dalla guerra. La questione degli stretti fu quindi inserita nel testo della Pace di Santo Stefano del 1879 dove venne sancito il principio del blocco degli stretti. Il Sultano si impegnava così ad aprirli in tempo di pace a navi da guerra di potenze amiche e alleate. Questa soluzione si dimostrò accettabile ai sensi dei principi dell’equilibrio europeo.

Tra il 1895 e il 1896 l’Impero Ottomano fu colpito dagli attentati dei nazionalisti armeni. La debolezza di Istanbul fu contestuale ad un aumento dell’influenza russa e della conseguente crescita della preoccupazione inglese circa un ulteriore rafforzamento russo nella zona. Temendo che l’intervento della Gran Bretagna, potenzialmente sostenuta dall’Austria-Ungheria e sempre più in collisione con gli interessi russi nei Balcani, potesse determinare una sfavorevole revisione del diritto degli stretti, nel novembre del 1896 l’ambasciatore russo A.I. Nelidov sottopose allo Zar un piano per l’occupazione russa del Bosforo[6]. Tuttavia prima che si potesse prendere qualsiasi iniziativa a riguardo, nel 1897 scoppiò la guerra tra la Grecia e l’Impero Ottomano, che vide la Russia nei panni di attore secondario e che si concluse ancora una volta con l’affermazione del principio della chiusura degli stretti.

Nei primi anni del XX secolo l’attenzione di Pietrogrado si concentrò ad Est nel tentativo di ritagliarsi maggiori opportunità in Cina e Corea, ma successivamente ai tumultuosi giorni delle rivolte del 1905, l’interesse per il passaggio nel Mediterraneo delle flotte russe tornò a crescere. La situazione nei Balcani si fece negli anni successivi sempre più instabile. Nel 1911 l’Italia, intenzionata a conquistare la Libia, aveva dichiarato guerra all’Impero Ottomano che ancora ne vantava la sovranità. Questo conflitto motivò i governi degli Stati balcanici ad unirsi nella prima Lega con l’intento di espellere l’Impero Ottomano dall’Europa. L’obiettivo fu raggiunto, salvo per una sottile striscia di territorio al di qua degli Stretti. Ma la situazione non si stabilizzò e già nel 1913 scoppiò la Seconda Guerra Balcanica, questa volta contro la Bulgaria, rafforzatasi enormemente dopo il precedente conflitto. La situazione si fece più allarmante per l’Impero Russo quando nel 1913 il Sultano, che aveva richiesto la consulenza occidentale per il piano di riforme e ammodernamento che stava seguendo, ottenne che una missione tedesca addestrasse l’esercito. Ciò di per se non avrebbe allarmato Pietrogrado, ma quando il Sultano concesse ad un ufficiale tedesco il comando del distretto militare di Istanbul che dominava gli Stretti, la minaccia divenne troppo grande per lo Zar Nicola II, che vide le sue proteste accolte e sostenute anche dai governi di Parigi e Londra, ottenendo cosi il ritiro della nomina[7].

La questione degli stretti mantenne tutta la propria importanza strategico-politica durante gli ultimi anni della Russia zarista. Nel 1914 l’Impero Ottomano entrò in guerra al fianco degli Imperi Centrali. Questo fatto ebbe una significativa ripercussione sulle sorti della guerra e, più nello specifico, sulle sorti dell’Impero Russo. Con la chiusura degli stretti veniva meno una delle principali rotte di rifornimento che permettevano a Pietrogrado di mantenere lo sforzo bellico. Nel 1915 gli alleati cercarono di occupare gli stretti ed escludere l’Impero Ottomano dalla guerra, l’intento era complicato dal fatto che uno degli obiettivi dei russi durante la guerra fosse proprio quello di occupare per se gli stretti ed ottenerne il controllo permanente[8]. Viste le necessità di guerra, sia Francia che Gran Bretagna accettarono le richieste russe per il controllo della costa e delle isole del Mar di Marmara, ma il tentativo di occupazione terrestre degli stretti del 1915 si rivelò fallimentare. La pressione sul fronte occidentale russo e il congelamento di quello meridionale distolsero infine l’attenzione di Pietrogrado dagli stretti. Bisognerà attendere che un segretario del Partito Comunista (Bolscevico) salga al potere, prima che questo obiettivo storico russo torni ad essere una questione centrale della politica estera russa.

Durante tutta la Rivoluzione e la Guerra Civile la Russia ebbe ben altri problemi di cui occuparsi che non la questione degli stretti. Ad ogni modo debbono essere formulate alcune considerazioni. In primo luogo va rammentato che dal 1917 fino al 1920 la sorte dell’Ucraina non fu tale da garantire il controllo russo sulla costa del Mar Nero. Inoltre con il Trattato di Brest-Litovsk la Russia bolscevica non soltanto cedette importanti porzioni di territorio a Nord-Ovest, ma addirittura acconsentì ad alcune concessioni favorevoli all’Impero Ottomano nel Caucaso. Una volta stabilizzata la situazione interna e sconfitti gli oppositori esterni, Lenin poté negoziare nuovamente con la Turchia. Tuttavia, a partire dal primo dopoguerra la questione degli stretti iniziò a delinearsi come una questione sempre meno legata alla volontà di Ankara. La comunità internazionale, organizzata nella Società delle Nazioni, stabilì infatti una smilitarizzazione degli stretti da essa stessa garantita.

L’Unione Sovietica avendo riassorbito definitivamente i territori ucraini, tornò alla tradizionale politica nei confronti della Turchia e degli Stretti solo nel 1936. Con la Convenzione sugli Stretti di Montreux, ancora oggi vigente, si determinò la definitiva regolamentazione della navigazione negli stretti. Per garantire la sicurezza alla Turchia e agli Stati che si affacciano sul Mar Nero, si affermò il riconoscimento della piena libertà di transito delle navi mercantili di qualsiasi bandiera in tempo di pace, con la sola condizione di soddisfare i diritti di transito e le prescrizioni sanitarie. Oltre alla libertà di passaggio e navigazione in tempo di guerra per i mercantili dei Paesi neutrali, nelle ore diurne e rispettando rotte obbligate. Per quanto riguarda invece le navi da guerra, fu sancito l’obbligo di informare il governo turco otto giorni prima del transito, e solo per flotte di un massimo di nove unità e di una mole complessiva di 15.000 tonnellate. E’ inoltre previsto che possano superare tale limite solo i Paesi rivieraschi del Mar Nero, purché le navi passino singolarmente. Con riguardo allo stazionamento nel Mar Nero di flotte di Paesi non rivieraschi queste devono avere un tonnellaggio inferiore a 40.000 tonnellate. In tempo di guerra se la Turchia è neutrale è consentito il passaggio di navi da guerra di qualsiasi Paese purché non compiano atti ostili. Se la Turchia è parte di un conflitto può opporsi al passaggio di navi da guerra di qualunque Paese.

Stalin cercò ripetutamente di modificare a proprio favore la situazione. Nel 1939, quando il patto di non-aggressione Molotov-Ribbentrop era già stato sottoscritto, Mosca si adoperò per un accordo con la Turchia che potesse tutelare, ancora una volta, le proprie coste meridionali. L’accordo fu raggiunto solo in parte, infatti «quando l’Italia entrò in guerra nel 1940, la posizione franco-inglese sembrava disperata, e anche più tardi i turchi rifiutarono di affrontare la Germania, che occupava allora tutti i Balcani»[9]. Ciò decretò il ritorno a dinamiche diplomatiche turco-russe più tradizionali. La questione degli stretti tornò ad interessare le diplomazie degli Alleati durante le conferenze tenutesi nella seconda metà del conflitto, e per i primi anni del secondo dopoguerra. Come spesso accade in tempi di guerra, si tese ad essere più possibilisti riguardo alle richieste alleate viste le necessità belliche. Così a Teheran, Churchill si disse disposto a concessioni sugli stretti a favore di Mosca, nonché alla revisione della Convenzione di Montreux. Ma già a Potsdam, Churchill e Truman dichiararono che non ci sarebbero potute essere concessioni territoriali in merito.

Non potendo ottenere nulla dagli alleati, Stalin assunse una politica più diretta. Come ricorda Adam B. Ulam: «Nessuna delle mosse compiute dalla Russia nel dopoguerra può venire definita assolutamente imprevedibile. Nella maggioranza dei casi queste mosse avevano molti precedenti, alla luce delle aspirazioni secolari della politica estera russa»[10]. Tra il 1945 e il 1947 la diplomazia sovietica fu concentrata sull’offensiva contro la Turchia che mirava alla restituzione dei territori perduti nel 1917 e alla cessione di una base navale presso gli stretti che potesse garantire gli interessi sempre più globali della nascente potenza sovietica. Come si sa questa pressione, considerata legittima da Stalin, visti i trascorsi della Conferenza di Teheran, si dimostrerà essere una delle cause che condussero alla Guerra Fredda. Difatti l’attivismo sovietico in Turchia e in Grecia potrebbe aver spinto gli Stati Uniti all’elaborazione della dottrina Truman e del Piano Marshall.

Con la crisi di Cipro assistiamo oggi ad un’altra occasione in cui gli interessi di Mosca per il Mar Mediterraneo sono sotto gli occhi di tutta la comunità internazionale. La crisi cipriota, esplosa negli ultimi giorni, è dovuta principalmente ai forti vincoli tra il sistema bancario dell’Isola e quello greco. Cipro, membro UE dal 2004, nel corso degli ultimi anni ha basato la propria crescita attirando ingenti capitali stranieri, in particolare russi, grazie al segreto bancario e ad alcuni vantaggi fiscali. A partire dal 1991 si è assistito ad una ingente immigrazione russa a Cipro, tanto che alcune città, come Limassol, hanno ora negozi, scuole, banche, giornali e televisioni russe. Non solo, circa 2.000 imprese russe sono oggi registrate a Cipro e il flusso di capitali russi ammonterebbe a 43 miliardi di euro, la metà dei quali si stima siano provenienti da attività illecite. Di fronte al collasso imminente, il governo di Nicosia ha avuto due opzioni in agenda: negoziare con UE, BCE e FMI un piano per il salvataggio dell’Isola o ottenere l’aiuto della Federazione Russa – strade che non si escludono a vicenda. La delegazione inviata a Mosca e composta dal Ministro delle Finanze cipriota, Michalis Sarris, e dal collega, Lorgos Lakkotry, Ministro dell’Energia, sembra aver ricevuto un net dal Cremlino, che tuttavia ha fatto sapere, tramite il primo ministro Dmitrij Medvedev, che nessuna porta sarebbe stata chiusa a Cipro; la Federazione Russa sarebbe stata disponibile non appena si fosse trovato e completato un accordo con l’Eurogruppo. L’accordo è stato raggiunto il 25 marzo ed ha subito suscitato il malcontento di Mosca. La scelta europea, infatti, è prevista andare a pesare sui capitali russi di Cipro per un ammontare che varia tra i 2 e i 3 milioni d’euro di tasse. Il Cremlino, che già nel 2011 aveva fornito un prestito di 2,5 miliardi di euro, ha immediatamente reagito definendo l’operazione un “saccheggio del bottino” oltreché “ingiusta e pericolosa“.

Certamente gli interessi della Russia non si limitano ai capitali presenti nell’Isola. Cipro costituisce un fondamentale partner strategico di Mosca nel Mediterraneo e uno dei fondamentali tasselli della sua politica estera nel bacino. In primo luogo Cipro rappresenta uno snodo fondamentale per il commercio di armi verso i principali alleati della Russia nell’area: Siria, Libano e Iran. In secondo luogo a causa dei ricchi giacimenti di gas scoperti lo scorso anno nell’area meridionale dell’Isola, che suscitano il grande interesse di Gazprom e di Mosca, sempre attenta che la sua politica energetica e di trasporto di gas e petrolio si riveli efficace nello scacchiere mediterraneo. L’importanza che ricopre Cipro nella politica russa nell’area è quindi di grande rilievo e, ad ulteriore riprova di questo coinvolgimento, v’è l’assoluta continuità nel sostegno russo presso l’ONU alla comune opposizione verso la proposta turca di riconoscere la Repubblica Turca di Cipro del Nord. Non deve stupire quindi che l’insoddisfazione di Mosca per il prelievo forzoso possa trovare una compensazione concedendole maggiore influenza politica ed energetica sull’Isola.

Mosca ha quindi ancora interessi vitali nel bacino del Mediterraneo e la questione degli stretti potrebbe rilevarsi nel lungo periodo non ancora risolta completamente, soprattutto alla luce della crescente instabilità generale dovuta alle principali vicende politico-economiche nelle regioni affacciate su questo mare – vicende che hanno sempre coinvolto il Cremlino. Da un lato la crisi finanziaria ed economica dei Paesi dell’Europa Meridionale, la crescita economica della Turchia e la presenza ancora rivelante degli Stati Uniti nel bacino; dall’altro le difficoltà dei nuovi regimi sorti a seguito delle rivolte della “primavera araba”, nonché le irrisolte questioni libica e siriana.




[1] Si trattava di due clausole contenute nel trattato di Bucarest del 1812.

[2] Poi indipendenza con il protocollo di Londra del 1830.

[3] Seton-Watson H., The Russian Empire 1801-1917, Clarendon Press, Oxford, 1967; trad it. Storia dell’impero russo (1801-1917), Giulio Einaudi Editore, Torino, 1971, p. 275.

[4] Ibidem, p. 294.

[5] Se non indiretto tramite la Bulgaria.

[6] Ibidem, p. 523.

[7] Ibidem, p. 632.

[8] Il progetto prevedeva Costantinopoli sotto controllo internazionale e acquisizione dell’entroterra da parte del governo russo.

[9] Ulam A. B., Expansion and coexistence: the history of the Soviet Foreign Policy 1917-1967, New York Praeger, New York, 1969; trad. it. Storia della politica estera sovietica (1917-1967), Rizzoli Editore, Milano, 1970, p.412

[10]Ibidem, p. 610.

DA BENEDETTO XVI A FRANCESCO I, ANALISI DELLE SFIDE GEOPOLITICHE CHE ATTENDONO LA CHIESA CATTOLICA

0
0

Dopo otto anni di pontificato, Papa Benedetto XVI il 28 febbraio alle ore 20.00 ha rinunciato ufficialmente al soglio pontificio, come gli permette una clausola del diritto canonico. Da quel giorno Benedetto XVI, pontefice emerito, si è ritirato in Castel Gandolfo, da dove ha assistito all’elezione del suo successore Papa Francesco I. Una volta ultimato il restauro del convento di clausura, situato presso le antiche mura leonine nella Città del Vaticano, il Papa emerito vi si trasferirà per continuare a meditare e pregare. L’annuncio di Ratzinger ha lasciato interdetti sia molte alte cariche, che i maggiori esperti vaticanisti. Da tempo si sussurrava tra le stanze della Città Santa di una possibile rinuncia al papato; tuttavia, non si teneva troppo in considerazione questa ipotesi, in quanto il Papa continuava a prendere impegni per il 2013, da lui dichiarato l’Anno della Fede.

 

 

Le cause della rinuncia di Benedetto XVI 

Oggi la Chiesa è esposta su più fronti a numerosi attacchi e critiche. Probabilmente, dunque, Benedetto XVI sentiva sulle sue spalle il peso crescente dei problemi della Chiesa Cattolica, alcuni dei quali, recentemente, hanno assunto una gravità maggiore, come i vari scandali legati a episodi di pedofilia e lo scandalo Vatileaks. (1)

Dunque, la scelta del Papa emerito si presenta come una novità e la sua portata è decisamente storica. Alcune alte cariche del clero cattolico hanno tentato di darne una spiegazione, attribuendo all’età avanzata del pontefice la causa principale di tale scelta: certamente è un’analisi riduttiva, che non prende in considerazione alcuni scenari.

Innanzitutto, bisogna valutare l’influenza degli scandali che hanno coinvolto la Chiesa Cattolica negli ultimi anni. Gli episodi di pedofilia commessi da alcuni esponenti del clero hanno colpito profondamente l’opinione pubblica mondiale; a fronte degli scandali urlati dai media di tutto il mondo, Benedetto XVI si è esposto personalmente condannandoli in Piazza San Pietro, indebolendo, in questo modo, la sua figura, e prestandosi a ulteriori critiche provenienti dal mondo laico e cattolico.

Altro fronte caldo emerso di recente è il caso Vatileaks. Il Papa stesso aveva ordinato la stesura di un rapporto completo sulla vicenda, che sarebbe stato presentato nelle Congregazioni Generali a marzo ai cardinali elettori. La vicenda di Paolo Gabriele, ex assistente di camera del pontefice che sottrasse documenti sensibili e altamente riservati, si è conclusa con la grazia concessa a quest’ultimo dal Papa in persona. Tuttavia, restano ancora dei retroscena da svelare, di cui certamente Benedetto XVI era a conoscenza, riguardanti personalità di alto profilo del palazzo apostolico, che potrebbero emergere in un prossimo futuro. (2)

Per concludere, poi, la serie di difficoltà affrontate da Benedetto XVI nel 2012 bisogna citare anche le vicende riguardanti l’Istituto per le Opere Religiose, IOR. L’ex presidente dell’Istituto, scelto per quella posizione da Ratzinger in persona, si attivò subito per attuare una serie di provvedimenti che avrebbero permesso allo Stato del Vaticano di entrare finalmente nella “Lista bianca”: la lista di Stati che hanno un sistema finanziario relativamente trasparente, e che adottano misure antiriciclaggio. Le azioni di Tedeschi, però, mossero le torbide acque del Vaticano, facendo preoccupare non poche figure. Alla fine, il presidente fu sfiduciato dal Consiglio di Sovrintendenza della Banca Vaticana. Come suo successore è stato eletto, recentemente, il tedesco Ernst von Freyberg, in un tentativo di allontanare il centro di potere dell’Istituto dalla Città Eterna.

Troppe crepe hanno reso instabile la Città del Vaticano, cosicché il pontefice tedesco non si è sentito più sicuro e, invece di continuare a reggere un simile incarico senza la forza necessaria, anche fisica, ha preferito rinunciare al soglio pontificio e rimescolare le carte in tavola. Una scelta estrema, che ha certamente creato un precedente significativo nel diritto canonico.

A posteriori si può, dunque, ritenere che la scelta di Benedetto XVI sia maturata con la consapevolezza che la Chiesa Cattolica, anche attraverso le Congregazioni Generali tenutesi a Roma prima del Conclave, avrebbe riflettuto sulle sfide attuali e future e avrebbe scelto una figura adatta per guidare i cattolici in un momento così decisivo.

 

 

L’elezione del nuovo pontefice 

Si è giunti, così, all’elezione del cardinale Jorge Mario Bergoglio, Papa Francesco I.

L’elezione del nuovo pontefice ha lasciato interdetti, ancora una volta, i principali vaticanisti. Jorge Mario Bergoglio fu il secondo cardinale più votato durante il Conclave del 2005, che portò all’elezione di Benedetto XVI; tuttavia, la sua elezione era ritenuta improbabile, vista la sua età avanzata, 76 anni.

Uno dei favoriti all’inizio del Conclave era il cardinale Ettore Scola: la sua figura di teologo conservatore e la sua esperienza, prima a Venezia, e poi a Milano, facevano di lui una figura forte che avrebbe saputo affrontare la crisi attuale. Tuttavia, il suo stretto legame con Comunione e Liberazione è stato il fattore che ne ha determinato la sconfitta. (3)

Secondo alcune indiscrezioni, il Cardinale Scola avrebbe ottenuto, fin dal primo scrutinio, diverse decine di voti, ma non abbastanza per farlo eleggere, vista anche l’opposizione dei cardinali extraeuropei.

All’interno del conclave, Cardinali come Bertone e Sodano hanno svolto un ruolo determinante, come pontieri fra diversi schieramenti. Essi si sono opposti alla candidatura di Scola, cercando di creare una cordata che raccogliesse i voti di chi gli si opponeva. (4) Durante i pasti consumati nel refettorio di Santa Marta, i cardinali avrebbero deciso di optare per un’altra figura che avesse l’appoggio e il carisma necessario, ed ecco dunque che la scelta ricadde su Jorge Mario Bergoglio.

 

 

Papa Francesco I, profilo e sfide future

Papa Francesco fu nominato vescovo ausiliare di Buenos Aires nel 1992 da Papa Giovanni Paolo II e, successivamente, arcivescovo nel 1998. Appartiene all’ordine dei gesuiti, fondato nel 1539 da Ignazio de Loyola e legato al Papa da uno speciale “voto di obbedienza”. L’ordine si distinse nei secoli successivi per essere sempre in prima linea nei territori da evangelizzare, soprattutto nelle Americhe a seguito della colonizzazione di spagnoli e portoghesi. La difesa e la propagazione della fede sono fra i loro compiti principali; Francesco I, quindi, dovrà fare sua questa regola dell’ordine, e impegnarsi per riconquistare il terreno perduto dalla Chiesa Cattolica proprio nella sua terra, il Sudamerica.

Papa Francesco I è il primo Papa sudamericano della storia; egli ha origini italiane e, quindi, può comprendere entrambi i mondi, quello europeo e quello sudamericano, dove oggi risiede il 42% dei cattolici del mondo. Tuttavia, il primato della religione cattolica in quell’area è minacciato dal diffondersi delle chiese riformate dell’America del Nord.

Sostenute da ingenti fondi raccolti nel Nord, i protestanti hanno lanciato una campagna di conversione che attrae numerosi cattolici. Questa campagna si basa, da un lato, su una forte propaganda condotta attraverso i principali mezzi d’informazione fatta di slogan accattivanti e, dall’altro, da un’assistenza promossa da queste Chiese verso i meno abbienti. Da qui parte l’ulteriore offensiva mirata alla Chiesa Cattolica, le cui alte cariche sono spesso percepite come distanti dalla popolazione in difficoltà e troppo spesso vicine ai centri di potere politico. La percentuale di riformati, oggi, si aggira intorno al 15% in Cile e Colombia, 10% in Argentina e Venezuela. L’elezione di un pontefice carismatico, con un passato vissuto tra le baraccopoli della capitale argentina, non può che essere un’arma decisiva nello scontro con le Chiese riformate, per l’evangelizzazione di nuovi fedeli in America latina. (5)

Dal continente americano potrà ripartire, in seguito, la controffensiva della Chiesa Cattolica a livello mondiale. Africa e Asia sono le altre frontiere sulle quali dovrà concentrarsi l’attività ecumenica della Chiesa. Per farlo in modo efficace, Francesco I dovrà sensibilizzare anche l’alto clero cattolico, proveniente per due terzi dall’Europa e dal Nord America, a pensare e operare maggiormente in quelle aree dove l’importanza del cattolicesimo cresce di anno in anno. Un’inversione di tendenza rispetto al pontificato di Benedetto XVI, che aveva dato maggiore importanza all’Occidente, spendendosi nel tentativo di rievangelizzazione del vecchio continente. Francesco I è decisamente più un pastore che un accademico come il suo predecessore, e questa qualità sarà fondamentale in un’epoca di cambiamento negli equilibri mondiali. (6)

La scelta di Bergoglio può essere anche dovuta all’intenzione di contrastare il tentativo delle sinistre del continente sudamericano, che cercano di attrarre e guadagnarsi la fiducia dei milioni di poveri. Provenendo da una città che ospita ai suoi confini milioni di abitanti, che vivono in situazioni di estrema povertà, ed essendo abituato a gestire una rete capillare di sottoposti che agiscono proprio in tale contesto, Papa Francesco potrà abilmente presentare il volto di una Chiesa caritatevole e umile.

Tuttavia, Francesco I appartenne alla linea più conservatrice interna al suo ordine, quando, durante gli anni Settanta, i gesuiti furono influenzati dalle tesi della teologia della liberazione, accogliendole in parte. Secondo questa particolare interpretazione, il messaggio cristiano andava letto secondo una chiave radicale e politicizzata, che insistesse sull’emancipazione sociale. Il cardinale Bergoglio prese posizione contro questa particolare corrente, schierandosi invece con la visione più conservatrice di Roma (7). Inoltre il cardinale Bergoglio è diventato un convinto oppositore del governo Kirchner, sostenendo l’opzione delle “unioni civili” come “male minore” rispetto ai cosiddetti “matrimoni” omosessuali.

Il rapèporto conflittuale fra Bergoglio e il capo di Stato argentino si è disteso durante il loro primo incontro ufficiale, che ha visto i due Capi di Stato confrontarsi su vari temi, tra cui anche la questione delle Isole Malvine, per le quali la Presidente argentina ha chiesto al pontefice di intercedere presso il governo britannico. Ovviamente la questione ha irritato il governo di Londra e non avrà seguiti diplomatici (8).

Altro tema indagato a fondo dopo l’elezione di Francesco I sono i suoi passati rapporti, in quanto Superiore Provinciale della Compagnia di Gesù, con la dittatura militare durante la fine degli anni Settanta. A oggi, nonostante pesanti critiche gli siano state rivolte dopo l’elezione, in particolare dal giornalista Horacio Verbitsiky, non è stato provata alcuna relazione tra il nuovo Papa e la dittatura argentina (9).

Il nuovo pontefice sembra per ora la figura adatta a riconquistare la fiducia dei credenti e a raggiungere gli obiettivi che la Chiesa si è posta. Alla luce di questa elezione, si può ancora una volta confermare il carattere decisivo dell’abdicazione di Benedetto XVI in favore di una figura più forte.

Sono numerose le sfide che attendono il nuovo Pontefice, ma lo stile con cui egli si prepara ad affrontarle intende sottolineare il  contrasto con le abitudini che sono state imputate alla Curia, tanto che già viene paventata la possibile convocazione un Concilio Vaticano III.

 

 

 

 

*Andrea Rosso è laureando in Scienze Politiche – Studi Internazionali ed Europei presso l’Università degli Studi di Padova

 

 

 

(1)http://vaticaninsider.lastampa.it/documenti/dettaglio-articolo/articolo/dimissioni-23042/

(2)http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/vatileaks-vaticano-vatican-19638/

(3)http://www.washingtonpost.com/world/europe/italys-cardinal-angelo-scola-is-viewed-as-a-safe-pick-to-become-the-new-pope/2013/03/12/6c1ff430-8aa9-11e2-98d9-3012c1cd8d1e_story.html?tid=pm_world_pop

(4)http://www.corriere.it/esteri/speciali/2013/conclave/notizie/15-marzo-accordo-che-ha-portato-oltre-90-voti-calabro_13d454b0-8d38-11e2-b59a-581964267a93.shtml

(5)http://www.geopolitica-rivista.org/20939/il-papa-dalla-fine-del-mondo-e-le-sue-sfide-una-lettura-geopolitica-del-conclave/

(6)http://www.geopolitica-rivista.org/20939/il-papa-dalla-fine-del-mondo-e-le-sue-sfide-una-lettura-geopolitica-del-conclave/

(7)http://www.ilpost.it/2013/03/13/chi-e-papa-francesco-i/

(8)http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/francisco-francesco-francis-23358/

(9)http://www.ilpost.it/2013/03/19/testimonianza-bergoglio-dittatura-argentina-videla/

Viewing all 113 articles
Browse latest View live




Latest Images