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LE RELAZIONI ESTERE DELLA COREA POPOLARE

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Nel trattare la recente crisi coreana, le fonti occidentali sottolineano costantemente che la Corea Popolare è un paese completamente isolato dalla cosiddetta “comunità internazionale”. Sembrerebbe inutile sottolineare che nella concezione occidentale la “comunità internazionale” è solamente la somma delle nazioni che seguono i dettami atlantisti, salvo qualche sporadica apparizione di altre realtà nazionali che, vuoi per convenienza, vuoi per particolari circostanze storico-politiche, aderiscono alle posizioni occidentali. È quindi evidente che tale concezione occidentalocentrica è parziale e partigiana e mira a presentare i paesi che non si allineano come estranei al resto della “civiltà mondiale”.

Ma basta dare una semplice occhiata all’archivio della Korean Central News Agency per rendersi conto come la RPDC mantenga stabili e costanti rapporti diplomatici, politici e economici con numerose nazioni. Naturalmente i rapporti bilaterali sono di diversa natura: ci sono paesi legati con Pyongyang da alleanze strategiche, da posizioni ideologiche similari, da rapporti di amicizia storici, da comuni interessi tecnologici, da investimenti nelle risorse del paese oppure da semplici rapporti di cortesia. Giungono a Pyongyang anche delegazioni di paesi che hanno rapporti ostili con il governo centrale, composte anche da personalità conosciute, come ad esempio il cestista statunitense Dennis Rodman o il lottatore giapponese Antonio Inoki, che ha recentemente visitato il paese con delegazioni americane e nipponiche, o come la delegazione sudcoreana che hanno reso omaggio alla salma del defunto Kim Jong-Il, con a capo Lee Hee-ho, vedova dell’ex presidente Kim Dae-jung, e Hyun Jung-Eu, vedova Hyun Jung-Eu, due personalità che si spesero per la riunificazione coreana. Esistono anche associazioni e movimenti politici che fanno diretto riferimento a Pyongyang, come il Fronte Democratico per la Riunificazione della Corea, con sede a Seul, l’associazione dei Zainichi Chongryon (Associazione Generale dei Coreani residenti in Giappone), che riunisce i coreani che vivono in Giappone che rimangono fedeli al governo socialista di Kim Jong-Un, o la Korean Friendship Association, con sezioni in numerosi paesi del mondo.

Tutti elementi che dimostrano che la Corea Popolare è tutt’altro che un paese “totalmente isolato”.

Per andare più nello specifico dei rapporti internazionali di Pyoangyang, va Innanzitutto sottolineato che la RPDC appartiene, dal 1976, al Movimento dei Non Allineati, che recentemente ha ripreso vigore, in particolare grazie all’indirizzo critico nei confronti dell’unipolarismo americano impresso dagli iraniani e dal Venezuela (vedi ad esempio l’ultimo summit di Tehran del 26 – 31 agosto 2012, con il prossimo incontro già programmato per il 2015 a Caracas). Nel summit di Tehran, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad nell’apertura dei lavori dell’incontro, propose ai partecipanti di esprimere profonde condoglianze per la scomparsa di Kim Jong-Il, deceduto il 17 dicembre precedente. Tutti i delegati dei 120 paesi presenti osservarono un minuto di raccoglimento.

Tralasciando le storiche relazioni con Russia e Cina, su cui già molto si è scritto, il paese che ha una più stretta alleanza con la Corea è la Repubblica Islamica dell’Iran. Fin dai tempi della guerra Iran-Iraq, Pyongyang svolse un ruolo di alleato strategico di Tehran, fornendo il governo degli Ayatollah di armamenti che permisero di fronteggiare l’invasione irachena. Attualmente tra i due paesi sono costanti gli scambi economici e militari e per lo sviluppo tecnologico (ad esempio la tecnologia dei missili balistici iraniani Shahab è basata sul modello del missile nordcoreano No-Dong) e nucleare. Nel 2012, nell’ambito del summit dei Paesi non allineati, i due paesi hanno siglato un accordo di cooperazione scientifica e tecnologica, oltre che numerosi intese di natura economica ed energetica con la “benedizione” dell’Ayatollah Ali Khamenei: «la Repubblica Islamica dell’Iran e la RPD di Corea hanno comuni nemici e in particolare gli Stati Uniti e Israele, con questo accordo entrambi dovrebbero riuscire a resistere alle comuni minacce». Il sostegno iraniano non è venuto meno nemmeno durante questa crisi, come dimostrano le dichiarazioni del generale Massoud Jazaeri, che identificano nelle provocazioni statunitensi la causa dell’aumento delle tensioni nella penisola coreana: «tutta questa crisi dimostra che la politica guerrafondaia nordamericana vuole creare crisi in tutto il mondo, per poter intervenire militarmente e ledere la resistenza dei popoli, in questo caso contro la nazione coreana e i suoi dirigenti».

Alleato di ferro con l’Iran, è la Siria, che intrattiene anche un rapporto prioritario con i coreani, con i quali, già nel 2002 siglarono un accordo simile  quello siglato a Tehran 10 anni dopo. I tecnici di Pyongyang contribuirono alla costruzione di una centrale nucleare in Siria, vicino a Dayr az-Zawr, tanto che quando la centrale fu bombardata dagli israeliani (Operation Orchard del 6 settembre 2007) alcune ricostruzioni riportano tra le vittime anche esperti coreani (circostanza mai confermata da Pyongyang). Nell’attuale tragico periodo di tensione, sia in Siria che nella penisola coreana, i due stati hanno confermato la vicinanza anti-imperialista, anche con dichiarazioni ufficiali di stima tra i due leader.

Dopo aver parlato di Iran e Siria, diventa fondamentale discutere del ruolo del Pakistan, in questo arco di paesi che cercarono un deterrente nucleare per affrontare l’ingerenza statunitense. Già nei primi anni ’90 il governo di Pyongyang con esponenti pakistani, in particolare con quel Abdul Qadeer Khan, considerato “il padre dell’atomica islamica”. Secondo alcuni analisti, nella rete di contatti di Khan si trovava oltre a Iran, Siria e Corea Popolare, anche la Libia di Gheddafi (paese in cui lavoravano molti nord-coreani, rimpatriati con lo scoppio della rivolta antigovernativa), con la compiacenza di Pechino. Il Pakistan aprì le relazioni diplomatiche con Pyongyang nel 1970, con i buoni uffici di Pechino nel periodo di governo di Zulfikar Ali Bhutto. Un accordo di difesa tra Pakistan e Corea fu firmato nel 1990 per volontà di Benazir Bhutto, presidentessa considerata molto vicino all’Iran, che venne uccisa nel 2007 dopo il rientro in patria in un attentato. Attentato che secondo il marito e attuale presidente pakistano, Asif Ali Zardari, è stato commissariato dall’ISI, il servizio segreto pakistano, e dal governo di Musharraf, probabilmente proprio a causa di questi rapporti amichevoli nei confronti di Iran e RPDC.

Un altro paese con il quale la Corea Popolare ha un rapporto privilegiato è la Mongolia, dopo una ventina d’anni in cui le relazioni erano assenti, in seguito alla caduta dell’Unione Sovietica e del passaggio alla democrazia parlamentare ad Ulaanbaatar. In particolare negli anni ’90 i rapporti tra i due paesi divennero tesi, salvo migliorare radicalmente nei primi anni 2000, quando, nel 2002, Paek Nam-Sun, allora ministro degli esteri, visitò Ulaanbaatar. Nel luglio 2007, il Presidente dell’Assemblea Popolare Suprema, Kim Yong-Nam incontrò il presidente mongolo Nambaryn Enkhbayar e firmò importanti accordi in campo sanitario, auspicando una maggiore collaborazione nei settori della scienza e della cultura. Accordi che infastidirono non poco Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti che sono interessati allo sfruttamento delle ricchissime miniere mongole. Questi accordi hanno inoltre trovato un seguito e sono moltissimi i rapporti bilaterali mongolo-coreani come ad esempio un interscambio di tecnici, studenti e sportivi. Inoltre nel novembre scorso, sempre su iniziativa mongola, si sono incontrati ad Ulaanbaatar rappresentanti diplomatici di alto livello di Giappone e RPDC per discussioni bilaterali sui rapporti tra i due paesi e sulla questione dello sviluppo del nucleare. Negli ultimi anni è riscontrabile in Mongolia un interessante dinamismo diplomatico multivettoriale con prospettiva multipolare, con il presidente Enkhbayar (esponente della sinistra nazionalista) che, ad esempio, si è posto come garante del nucleare iraniano e che ha revocato le licenze al colosso statunitense Rio Tinto  per l’estrazione in una sezione chiave dell’enorme giacimento di oro e rame Oyu Tolgoj (oro e rame) che, da solo, dovrebbe produrre un terzo del Pil mongolo.

Nell’area del sud-est asiatico i rapporti migliori sono con Cambogia, Laos e Vietnam. Con Phnom Penh la vicinanza risale agli anni ’70, anche grazie all’amicizia personale tra Kim Il-Sung e il Re Norodom Sihanouk. Ora le due nazioni puntano a stabilire un solido legale commerciale e la recente visita di delegati coreani nella capitale cambogiana ha stabilito le linee per potenziare le esportazioni tra i due paesi: Phnom Penh mette sul piatto la produzione alimentare (in particolare di riso, frumento e patate), Pyongyang offre in cambio tecnologia a basso prezzo. Inoltre una ditta coreana sta costruendo un museo altamente tecnologico sulla civiltà Khmer per un valore di circa 10 milioni di dollari nei pressi dello scavo archeologico di Angkor Wat. Con il Vietnam, oltre che la tradizionale vicinanza ideologica tra i due partiti comunisti al potere, sono in corso relazioni proficue per lo sviluppo delle tecniche agricole. Rapporti prevalentemente nel campo militare sono attivati con il Laos. Sono ormai in crisi invece i rapporti con il Myanmar, dopo la liberalizzazione del paese, in particolare dopo la visita di Hilary Clinton a Naypyidaw, nel dicembre 2011, che ordinò un blocco dei rapporti bilaterali tra la Giunta guidata da Than Shwe e il governo di Pyongyang, in particolar modo attivi nel campo dello sviluppo nucleare e dell’interscambio degli armamenti.

Non mancano gli interscambi commerciali con l’India, seppur complicati dal rapporto pakistano-coreano. Solamente nel 2010-2011 lo scambio tra Pyongyang e Nuova Delhi toccava i 572 milioni di dollari.

Legata ad una comune visione ideologica è l’amicizia con Cuba. Nel 2010 l’ambasciatore coreano ha celebrato a L’Avana il cinquantesimo anniversario delle relazioni tra i due paesi (29 agosto 1960) e ha ricordato i vincoli e le posizioni comuni dei due governi. Due anni dopo, il 16 dicembre 2012, l’ambasciatore cubano Germán Ferrás Álvarez e il ministro del commercio estero coreano Ri Ryong-Nam hanno firmato a Pyongyang un protocollo di collaborazione e sviluppo del commercio, della scienza e della tecnologia per il 2013.

Nel continente indiolatinoamericano ottimi rapporti sono intrattenuti anche con la Repubblica Bolivariana del Venezuela, fin dal 1999, anno del primo governo Chávez.

Nell’Africa nera i paesi con i quali i rapporti sono prioritari sono lo Zimbabwe e l’Eritrea, anche se intercorrono rapporti costanti con numerosi altri paesi del continente tra i quali Sud Africa, Nigeria ed Egitto. Nel 1980 il Presidente Kim Il-Sung siglò con la controparte zimbabwese, Robert Mugabe, un accordo per l’interscambio delle conoscenze militari e per l’addestramento delle truppe di Hararae, che tutt’ora è in vigore. Nei confronti dell’Eritrea, i coreani sono, con Pechino, i maggiori fornitori dell’esercito di Asmara e, assieme all’Iran, l’unico paese a non aver rispettato le sanzioni ONU del 2008 contro il governo di Isaias Afewerki. Per quanto riguarda l’Egitto, rapporti miranti allo scambio tecnologico risalgono già agli anni ’80 quando il governo di Hosni Mubarak firmò un accordo per la fornitura di armamenti. In Egitto è anche presente l’ufficio navale commerciale coreano per il Mediterraneo. Recentemente la compagnia egiziana Orascom Telecom ha creato la rete per la telefonia mobile in Corea con la compagnia Koryolink. Ma le relazioni con l’Egitto risalgono già al 1967 quando circa 30 piloti dell’Armata Popolare Coreana parteciparono alla guerra dello Yom Kippur a fianco delle armate egiziane di Gamal Abd Nasser.

Da questa breve (e sicuramente parziale) analisi delle relazioni estere di Pyongyang si evidenzia che il governo socialista non ha pregiudiziali politiche o ideologiche (fermo restando una prospettiva multipolare e, di fatto, antimperialista, definita anche nell’ideologia Juché) nei confronti di nessun possibile alleato, ma cerca supporto e amicizia tra i paesi sovrani, che possano dialogare con Pyongyang su un piano di parità (e non secondo quella la velleità occidentale di guardare gli altri paesi “dall’alto al basso”) ponendo come unica precondizione la rispettiva non ingerenza negli affari interni. Ragionare secondo questa logica dovrebbe rappresentare una pilastro fondamentale di qualsiasi politica estera di qualsiasi paese sovrano.

 

 

 

 

Fonti:

La Repubblica Islamica dell’Iran a fianco della Corea Socialista
 
Minacce nucleari: Mongolia in primo piano nei rapporti diplomatici con la Corea del Nord
 
L’Eritrea e i suoi rapporti con Cina, Iran e Corea del Nord
 
Le relazioni tra la Corea socialista e la Siria di Assad
 
North Korea Leadership Watch
 
 

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GLI STATI UNITI SOTTO ATTACCO DOPO IL FALLIMENTO DEI COLLOQUI SU UN TRATTATO PER LE TELECOMUNICAZIONI

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Pubblichiamo la traduzione di un articolo apparso sul “Financial Times”, che riporta le parole di un protagonista delle telecomunicazioni in Italia e non solo. Lo scontro in atto fra Europa e Paesi emergenti da un lato e gli Stati Uniti dall’altro mette in luce le frizioni geopolitiche e gli interessi economici e produttivi incompatibili. Per tali motivi nella Conferenza Mondiale sulle Telecomunicazioni internazionali (WCIT12) tenutasi a Dubai, che pur si è conclusa con la revisione del Trattato che regola le telecomunicazioni internazionali (ITRs), si è evidenziata una profonda spaccatura. Da una parte chi ha un vantaggio competitivo e strategico controllando la rete (gli Usa) dall’altra tutti gli altri attori. Questi stessi temi, oltre ad essere di fondamentale importanza di per sé, devono essere letti con attenzione in vista del paventato trattato di libero scambio fra Europa e Usa.

[La redazione]

 

 

 

 

Franco Bernabè, Amministratore Delegato di Telecom Italia e Presidente del GSMA, l’associazione degli operatori di telefonia mobile, ha criticato quella che ha definito “guerra di propaganda”, condotta dagli Stati Uniti, che la settimana scorsa ha provocato il fallimento delle trattative per un’intesa per le telecomunicazioni.

Gli Stati Uniti, congiuntamente al Regno Unito e al Canada, hanno abbandonato i negoziati giovedì notte, sostenendo di essere preoccupati per come un accordo possa permettere alle nazioni di regolamentare la rete e reprimere la libertà di parola.

Bernabè, che in qualità di Presidente del GSMA rappresenta quasi 800 operatori mobili in 220 paesi, ha sostenuto che l’accusa mossa dagli Stati Uniti e dai loro alleati nei confronti di coloro che sono favorevoli al trattato, ritenuti vicini ad alcuni “regimi autoritari”, fosse “ridicola”.

In un’intervista al “Financial Times” ha affermato: “Questa è una guerra di propaganda. L’idea che una cospicua parte dell’industria europea sia stata associata all’Iran e ad altri regimi oppressivi è offensiva. Si tratta di accuse completamente prive di logica e inaccettabili.”

Bernabè, sollecitando le parti a riconsiderare le proprie posizioni, si è unito ai sostenitori dell’accordo nel suggerire che gli Stati Uniti stessero usando il principio di libertà come una copertura per proteggere compagnie quali Google e Facebook dai tentativi per coordinare la regolamentazione.

L’incontro dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, tenutosi a Dubai più di due settimane fa, ha cercato di costruire un ponte tra la rete internet e le reti delle telecomunicazioni.

Un proposito iniziale sarebbe stato quello di porre sullo stesso livello di regole tutte le compagnie internet intese come operatori di rete.

Bernabè ha ribadito: “La regolamentazione ha posto le compagnie europee in una posizione svantaggiata nel panorama competitivo. Non ci sarebbero potuti essere un Google o un Facebook europei, perché sarebbe stato molto complesso attenersi alle regole e agli obblighi delle leggi europee sulla riservatezza”.

I fautori di una rete libera, che comprenda Google, temono che le ampie clausole disposte dall’ITU circa la sovranità nazionale e la sicurezza possano essere usate per legittimare la censura, il monitoraggio clandestino e il blocco dei siti informatici.

“Si dovrebbe raggiungere un compromesso.” Bernabè ha continuato: “Abbiamo bisogno di maggiore regolamentazione da parte degli Stati Uniti, e molto meno norme sul fronte europeo. Se ci fosse lo stesso campo di azione non staremmo a discutere.”

“Mentre l’industria di tlc statunitense è stata capace, grazie al contesto normativo, di adattarsi e contenere nuovi concorrenti, l’industria europea è stata schiacciata, frammentata, resa incapace di reagire, inflessibile e costretta da un enorme mole di obblighi legislativi.”

Bernabè stava parlando al “Financial Times” durante il lancio del suo libro, Libertà vigilata, che racchiude le sue opinioni sulla riservatezza nell’era di internet.

Bernabè è in disaccordo con il carico di informazioni personali che passa attraverso organizzazioni statunitensi come Walmart, Google e Facebook.

 

 

Fonte: “Financial Times” 17 dicembre 2012.

 

 

Traduzione Lorena Orio

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INTERVISTA ALL’ON. RICCARDO MIGLIORI

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A cura di Andrea Turi

 

Per prima cosa la ringrazio della sua disponibilità a rispondere alle mie domande. Vorrei cominciare dagli ultimi sviluppi nelle relazioni tra Serbia e Kosovo. Secondo Lei, dopo il fallimento del dialogo a Bruxelles, ritiene che sia possibile che le due parti trovino un accordo nel breve e medio periodo?

Sarà arduo trovare un “accordo quadro” tra Serbia e Kossovo fino a quando Belgrado continuerà a rifiutare il riconoscimento di Pristina e Pristina si rifiuterà di riconoscere la particolarità dell’area aldilà dell’Ibar. Credo più alla politica dei piccoli passi concreti dettati dalla ragionevolezza.

 

 

Ritiene che il piano Ahtisaari, rigettato dalle parti nel momento in cui fu proposto, sia ancora un soluzione valida, praticabile e rappresenti un accettabile compromesso?

Una volta rifiutato, il piano Ahtisaari non ha possibilità di riesumazione sia perché le parti perderebbero la faccia, sia perché questa non è la stagione di “accordi quadro”.

 

 

Le ultime notizie diffuse dalla Radio Internazionale di Serbia parlano di pattugliamenti organizzati dalla popolazione serba sulla strada Priština-Raška, nella località di Rudare, nei pressi di Zvečan, a causa della forte presenza e della circolazione delle speciali unità “ROSU”, che sono sotto il comando delle istituzioni provvisorie kosovare. Si parla anche di nuovi attacchi. Prendo a pretesto le brevi notizie per domandarle se pensa che ci potrebbero essere atti di forza da parte di Pristina per ottenere questa parte del Paese.

Escludo atti di forza da parte di Pristina perché ciò comporterebbe una perdita di credibilità per lo Stato kossovaro e l’ammissione di una sovranità ancora limitata. Non escludo, invece, gli interessi molteplici, legati anche alle prossime elezioni albanesi, tesi in tale direzione e il vigore del dibattito politico interno ove Kurti è meno isolato di quanto si pensi.

 

 

Lei è stato rappresentante dell’OSCE. in base alla sua recente esperienza, quale è la situazione sociale in Kosovo,  soprattutto nel nord della regione? 

Pristina è un cantiere ed in generale c’è ottimismo circa il futuro economico del Paese nonostante le enormi difficoltà riscontrate inizialmente. La regione del Nord, invece, ha maggiori difficoltà sociali perché ha maggiori difficoltà politiche.

 

 

Il mancato raggiungimento di un accordo rappresenta una sconfitta per l’Unione Europea e la sua (presunta) politica estera?

Le sconfitte politiche dell’Europa, ormai, non si contano più. La Signora Ashton, del resto, ha difficoltà ad uniformare la politica estera quando l’UE non ha una unitaria politica di difesa e sicurezza.

 

 

Quale è la sua opinione sull’operato della diplomazia di Bruxelles in qualità di mediatore?

L’atteggiamento di Bruxelles verso Belgrado è sempre molto severo. Tra l’altro risulta inaccettabile un atteggiamento illuminista secondo il quale i Serbi sarebbero sempre costretti ad emendarsi. La storia va avanti.

 

 

Il Primo Ministro serbo Dacic ha dichiarato a metà del mese di Marzo che gli Albanesi del Kosovo non sono ancora pronti ad un accordo perché hanno le spalle coperte dal potere statunitense. Bene, le chiedo: quali sono gli interessi di Washington nella regione?

A Pristina c’è una grande statua di Bill Clinton e le bandiere USA sventolano dappertutto. Il sistema delle comunicazioni è appannaggio della Signora Albright. Mi dicono che si potrebbe continuare nella elencazione.

 

 

In caso ancora l’avesse, qual’è l’importanza del Kosovo sullo scenario internazionale? Quali altri Paesi oltre agli Stati Uniti hanno ancora interesse alle sorti della regione e quali sono questi interessi?

Alla Casa Bianca sostengono (ufficialmente) che le priorità USA oggi non sono i Balcani, ma l’Asia Centrale. Si tratta, comunque, di un impegno in più per l’Europa che ha interesse non solo alla stabilità dei Balcani, ma anche a testimoniare la convivenza tra democrazia e società islamica seppur ampiamente secolarizzata.

 

 

L’Ambasciatore statunitense a Belgrado Michael Kirby ha fatto sapere (8 aprile 2013) che il suo Paese è pronto a partecipare attivamente al dialogo. Pensa che davanti ad un possibile scenario anche la Federazione Russa decida di giocare un ruolo più “pesante” che vada oltre la solidarietà verso il popolo e le istituzioni serbe?

La Serbia nella UE sarà anche un nuovo ponte di dialogo con Mosca per recuperare lo spirito positivo di Pratica di Mare. Un ruolo concreto della Federazione Russa sarebbe auspicabile perché sarebbe “riequilibratore”.

 

 

L’Ambasciatore della Federazione Russa a Belgrado, Aleksandar Cepurin, ha recentemente dichiarato che la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1244 è un documento ancora valido ed in essere. Concorda con il fatto che il luogo giusto per risolvere la questione possano essere le Nazioni Unite?

Certamente lo è anche se molta acqua sotto i ponti della storia è passata da allora costituendo una situazione “de facto” irreversibile per quanto riguarda la questione della sovranità.

 

 

Come reputa il lavoro dell’amministrazione internazionale in Kosovo dal 1999 e l’applicazione del diritto e della legge nel Paese?

E’ stato fatto moltissimo ma ancora moltissimo resta da fare soprattutto nel settore giudiziario. L’indipendenza della magistratura, che è essenziale nella tripartizione autonoma dei poteri, è necessario quanto urgente obiettivo da raggiungere.

 

           

Quale sarà, quindi, il futuro dei due Paesi? È il cammino europeo, l’opzione europea, la migliore soluzione per entrambi? O, forse, ci sono altre alternative più praticabili, soprattutto per la Serbia?

Il popolo serbo vuole l’ingresso nella UE ed è nostro interesse l’integrazione serba. Con l’avvicinarsi delle elezioni tedesche, la richiesta della Merkel di reintroduzione dei visti per l’area Shengen per i cittadini serbi si è fatta più insistente. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, è una tesi da rigettare con forza anche perché in controtendenza coi negoziati con Bruxelles. Tutt’altra questione concerne la NATO ovviamente.

 

 

Crede che la data di inizio delle negoziazioni per l’ingresso di Belgrado nell’UE verrà fissata nonostante il dialogo con Pristina non abbia portato, per il momento, a niente oppure tale decisione verrà rimandata ad un prossimo futuro? Nel caso in cui la decisione venga rimandata, sarà la questione Kosovo ad essere decisiva o questa sarà un semplice pretesto per chiudere le porte a Belgrado?

Spero ardentemente che non vi siano slittamenti sui tempi né scuse per dire NO a Belgrado. Certo la questione kossovara ha il suo peso, ma se abbiamo preso Cipro senza avere risolto la questione cipriota, possiamo prendere la Serbia senza avere risolto la questione kossovara.

 

 

Ultima domanda: immaginiamo un futuro europeo per Belgrado. Saranno maggiori i benefici che la Serbia ricaverà dall’ingresso nell’UE o quelli dell’Europa con l’approdo di Belgrado nella casa comune europea?

E’ interesse di tutti la stabilità. L’Europa più grande è una Europa più forte e credibile. Come ha dimostrato la storia, una Serbia più europea è interesse della Serbia come di tutti i Paesi che sono diventati membri dell’Unione Europea.

 

 

 

* L’on. Riccardo Migliori Presidente dell’Assemblea Parlamentare dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce).

 

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CHI CONTROLLA INTERNET? IL DIBATTITO NEGLI STATI UNITI

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Mercoledì 10 aprile un disegno di legge riguardante la “politica degli Stati Uniti relativa alla governance di Internet” è stato presentato alla Camera dei Rappresentanti Usa. La parte saliente dice semplicemente:

“E’ interesse degli Stati Uniti promuovere la libertà globale in internet fuori dal controllo governativo,  preservare e promuovere il modello multilaterale e di successo che governa la rete.”

Ma questo tentativo di formulare un principio chiaro e renderlo giuridicamente vincolante è diventato una controversia politica proprio a Washington.  E’ successo perché il disegno di legge porta alla luce le contraddizioni latenti che caratterizzano la politica internazionale degli Stati Uniti su internet.  Si è così assistito ad una frattura fra il fronte unito di democratici e repubblicani contro le incursioni delle organizzazioni intergovernative come l’ITU (gli scontri alla recente Conferenza Mondiale sulle Telecomunicazioni internazionali (WCIT12) tenutasi a Dubai parlano chiaro).

Il problema, a quanto pare, è che la parte democratica dell’agone politico non può dire che è contro “il controllo del governo” in sé. Infatti, il disegno di legge ha costretto persone legate all’amministrazione Obama a palesarsi e ammettere apertamente che “il controllo del governo” di Internet è accettabile quando viene esercitato dagli Usa, e bisogna preoccuparsi solo quando altri Stati o organizzazioni lo attuano.

Gli Stati Uniti sono stati profondamente coinvolti in questa contraddizione fin dal Vertice mondiale sulla società dell’informazione nel 2003-5, quando si opponevano alle critiche all’ICANN (controllata dagli Stati Uniti) e allo stesso tempo dicevano di essere contrari al controllo governativo. Nel frattempo diverse agenzie istituzionali statunitensi hanno (nella gran parte dei casi senza rendersi conto di contraddire la retorica sulla libertà di Internet) conquistato silenziosamente posizioni di potere su vari aspetti del web (nel controllo dei domini, ACTA, gioco d’azzardo in rete, armi cibernetiche ecc…).

Fino ad ora la contraddizione latente è rimasta nell’ombra.  Solo pochi accademici sono stati disposti ad articolare l’argomento.

Oggi invece da altri paesi si guarda all’ICANN come una forma di controllo globale di Internet esercitata da un governo, ossia quello degli Stati Uniti.  Si sbagliano?  ICANN deve la sua autorità decisionale sui DNS principali direttamente da un contratto con il governo degli Stati Uniti e, in cambio della ricezione di tale contratto, ICANN deve rimanere negli Stati Uniti conformandosi alle sue politiche.  Questo non è uno stretto coordinamento, è vero e proprio controllo.

Anche gruppi della società civile come Public Knowledge (PK), che si erano espressi contro il controllo governativo di internet, sono tornati sui propri  passi dichiarando di temere che il disegno di legge vada a mettere in pericolo le garanzie per la cittadinanza, garantite dal controllo istituzionale.

Si applicano in questi casi due pesi e due misure:  si distingue tra il monitoraggio del governo in casa (quello buono) e il controllo governativo che coinvolge il resto del mondo (quello negativo).

In realtà questo tipo di approccio, sebbene debba considerare che oggi tutte le società operanti nel controllo della rete risiedano ancora negli Stati Uniti, ci pare quello migliore per due serie di motivi.

Il primo è che appellandosi a istituzioni transnazionali slegate dalle sovranità degli Stati non si fa altro che immergersi nell’ennesimo pantano giuridico e politico. Forse gli esperti di internet non hanno ben seguito la parabola di un’istituzione come l’Onu (per citare la più grande): nata in un determinato periodo storico, risulta oggi completamente bloccata; svolta la sua funzione si è rivelata un’enorme scatola vuota e appellarsi a organizzazioni di questo tipo rimane ideologia se non utopia.

Il secondo motivo è che lasciando fare a grandi organizzazioni intergovernative o tecniche, si rimane comunque vincolati a chi il potere riesce ad esercitarlo davvero. Per ora la più grande potenza rimane quella statunitense, che riuscirebbe  ad influenzare scelte e baricentro.

E’ proprio invece una rete legata alla sovranità degli Stati che potrebbe garantire multilateralismo e libertà. La possibilità di non dipendere strutturalmente da Washington è la migliore garanzia della libertà della rete. Ovviamente l’Europa dovrebbe anche in questo caso capire che il proprio futuro non può essere dentro il recinto di vincolanti alleanze atlantiche. Ma questa è un’altra storia.

 

 

 

*Matteo Pistilli è redattore di “Eurasia”, vicepresidente del Centro Studi Cesem e fondatore di “Informazione Scorretta”.

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LA NUOVA DOTTRINA DIFENSIVA CINESE: POCHE PAROLE MA CHIARE

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Con la solita puntualità cinese, lo scorso 15 aprile è stato pubblicato il nuovo Libro Bianco della Difesa. A distanza di due anni dalla presentazione del documento intitolato Difesa Nazionale della Cina nel 2010, lo Stato Maggiore della Repubblica Popolare Cinese presenta alla stampa e al mondo un testo senz’altro più snello e sintetico. In appena cinque capitoli, contro i dieci del precedente elaborato, il resoconto, dal significativo titolo L’impiego diversificato delle Forze Armate della Cina, va ad integrare – piuttosto che a modificare – tutti i principali motivi geostrategici stabiliti nel 2011. Stante la lettura del quadro politico mondiale sull’onda dell’idea-cardine in base alla quale l’accelerazione del processo di globalizzazione economica degli ultimi anni sta irreversibilmente ridefinendo gli assetti internazionali secondo nuovi criteri multipolari, lo Stato Maggiore cinese ribadisce l’incremento dei pericoli crescenti nel mondo, individuati in rinnovate forme di interventismo e di egemonismo. Rimarchevole importanza viene assegnata dunque alla regione Asia-Pacifico, definita come un’area fondamentale per lo sviluppo dell’economia mondiale e per l’interazione strategica tra le maggiori potenze. In generale, il processo storico delineato dall’apparato comunista cinese si muove secondo direttrici complesse, che da un lato incrementano le opportunità di crescita e pacificazione ma dall’altro presentano nuovi rischi connessi al percorso di ridefinizione della strategia statunitense nella regione e alla riemersione di vecchi rancori mai sopiti, come evidenziato dal crescendo di tensione con il Giappone per la disputa relativa alle Isole Diaoyu e dalla crisi a “corrente alternata” con l’illegittimo governo di Taiwan. Come previsto, dunque, la dottrina difensiva conferma una sostanziale continuità tra la visione strategica generale del Comitato Centrale precedente e quella del Comitato in carica anche per quanto riguarda l’approccio ai temi della difesa.

Nel corso degli ultimi “stati generali” del Partito Comunista Cinese nel marzo scorso, che hanno visto l’ufficializzazione del passaggio di consegne tra il presidente uscente Hu Jintao e il neoeletto Xi Jinping, la nomina di Chang Wuanquan alla direzione del Ministero della Difesa è apparsa forse imprevista. Durante il Congresso del novembre scorso, difatti, altri due alti gradi delle Forze Armate erano stati chiamati a comporre la vicepresidenza della Commissione Militare Centrale del Partito, su decisione del nuovo massimo responsabile dell’organismo difensivo, cioè lo stesso Xi Jinping. Si trattava di Xu Qiliang e di Fan Changlong. Il primo proveniva dall’Aviazione e si era messo in luce negli ultimi anni attraverso la proposta strategica dei “cieli armoniosi”, ovverosia un’applicazione dell’idea di “società armoniosa” (promossa durante il mandato di Hu Jintao) ai piani di sviluppo nel settore aerospaziale. Il secondo aveva appena lasciato il comando della Regione Militare di Jinan, la più piccola delle sette divisioni territoriali geostrategiche cinesi ma senz’altro una tra le più importanti, alla luce della sua posizione geografica (sul Mar Giallo proprio di fronte alla Penisola di Corea) e del rapido sviluppo di centri strategici come Qingdao, Weifang e Wendeng, che hanno incrementato le rispettive capacità aeronavali grazie all’ingresso in servizio di nuovi sottomarini a propulsione nucleare e nuovi cacciabombardieri JH-7A1, introdotti nel 2004 come sviluppo del vecchio modello JH-7 progettato alla fine degli anni Ottanta.

Invece, durante l’ultima Assemblea Nazionale del Popolo a marzo, è arrivata una inaspettata doppia promozione per il generale Chang Wuanquan, diventato in un solo colpo ministro della Difesa, in sostituzione del generale Liang Guanglie, e Consigliere Strategico di Stato al posto del diplomatico Dai Bingguo. Prima di entrare a far parte della Commissione Militare Centrale di Stato nel 2008, Chang Wuanquan è stato comandante della Regione Militare di Shenyang, composta dalle tre divisioni amministrative nordorientali di Heilongjiang, Jilin e Liaoning, e compresa tra il fiume Amur e le coste del Mar Giallo. Ancor prima aveva assunto per due anni il comando della complessa ed estesa Regione Militare di Lanzhou, che racchiude l’intera Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, le intere province di Qinghai, Gansu, Ninxia e Shaanxi, e parte del Tibet settentrionale. Sebbene questa regione militare sia completamente priva di sbocchi marittimi, il comando di Lanzhou è uno dei compiti più critici, poiché finalizzato ad affrontare e neutralizzare i pericolosissimi fenomeni terroristici e separatisti presenti nelle due regioni occidentali del Tibet e dello Xinjiang e a monitorare le delicatissime aree montuose di confine con il Pakistan (Karakorum), con l’Afghanistan (Wakhan), con il Tagikistan (Pamir), con il Kirghizistan (Tien Shan) e con il Kazakistan (Passo d’Alataw). È perciò indubbio che la preparazione sul campo del generale Chang Wuanquan sia chiaramente di altissimo profilo e sufficientemente completa di esperienze di comando sia in aree ad attività prevalentemente terrestre che in aree ad attività prevalentemente aeronavale.

Non è possibile quantificare con esattezza il preciso contributo fornito dal neoeletto ministro alla stesura del nuovo Libro Bianco della Difesa tuttavia, rispetto al documento pubblicato due anni fa, lo Stato Maggiore pone con più forza l’accento sulle cosiddette operazioni MOOTW (Military Operations Other Than War), evidenziando con dovizia di particolari l’impiego delle truppe nei più disparati teatri di intervento:

 

  1. L’antiterrorismo nelle regioni autonome occidentali, già da tempo integrato con le cosiddette “Peace Mission” condotte assieme a Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan nel quadro dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai
  2. L’antipirateria lungo le principali direttrici navali della Linea Marittima di Comunicazione (SLOC) Aden-Malacca
  3. Il peacekeeping condotto in concerto con le Nazioni Unite, che sino al dicembre 2012 aveva coinvolto militari e/o civili cinesi in nove missioni internazionali, tra cui quelle in Congo (MONUSCO), in Liberia (UNMIL), in Libano (UNIFIL), nel Sud Sudan (UNMISS) e in Darfur (UNAMID)
  4. L’intervento di supporto e assistenza alle popolazioni cinesi colpite da calamità naturali.

 

All’approfondimento del processo di modernizzazione e informatizzazione (xinxihua), annunciato dall’ex presidente Jiang Zemin nel 2002 e maturato pienamente nel decennio di Hu Jintao, è invece dedicato un minor spazio, probabilmente per due principali motivi: uno è di carattere organizzativo, nella misura in cui lo Stato Maggiore potrebbe sentirsi adeguatamente soddisfatto dal livello di sviluppo raggiunto nel settore informatico militare (dai supercomputer ai sistemi d’arma integrati sino alle acquisizioni conoscitive nell’ambito del conflitto simultaneo2); l’altro è di carattere politico, dal momento che Pechino non ha ovviamente alcuna intenzione di avvantaggiare i suoi competitori, mettendoli al corrente delle proprie innovazioni militari più importanti.

Confermato il ruolo politico delle Forze Armate, sottoposte in modo assoluto alla volontà del Partito Comunista Cinese, in forza del loro impiego nella fase di sviluppo socio-economico del Paese, nel mantenimento dell’ordine sociale e nella promozione della costruzione della pace mondiale, obiettivo ritenuto inseparabile da quello – su scala nazionale – della crescita e dello sviluppo del socialismo con caratteristiche cinesi.

 

 

 

Note

  1. A. Chang, Analysis: Shandong buildup – Part 1, Space War, 24 giugno 2008.
  2. Cfr. C. Jean, Militaria. Tecnologie e strategie, CSGE, Franco Angeli, Milano, 2009.

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ISLAMIZM PRZECIWKO ISLAMOWI – ROZMOWA Z PROF. CLAUDIO MUTTIM

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Leonid Sawin: Panie Profesorze, chcielibyśmy z Panem porozmawiać na temat fenomenu politycznego islamu i związanej z nim aktywności. Na początku, czy mógłby Pan go scharakteryzować i określić zasady jego działania?

Claudio Mutti: Termin „polityczny islam” został wprowadzony do użytku przez francuskiego orientalistę Oliviera Roy w jego książce L’Echec de l’Islam politique (Le Seuil, Paris 1992). Olivier Roy nazywa „politycznym islamem” to, co inny francuski orientalista Gilles Kepel nazywa „islamizmem” (Le Prophète et Pharaon. Aux sources des mouvements islamistes, Le Seuil, Paris 1984; Jihad : expansion et dйclin de l’islamisme, Gallimard, Paris 2000) i „radykalnym islamem” (The roots of radical Islam, Saqi, London 2005). „Polityczny islam”, „islamizm”, „radykalny islam”to po prostu „islamski fundamentalizm” i „islamski integryzm”- terminy związane z modernistycznymi tendencjami, którym początek dali „islamscy reformatorzy” i które potępione zostały przez przedstawicieli tradycyjnego islamu jako odchylenia. Tym niemniej, język polityczny Zachodu często posługuje się szeroko tymi terminami w ich nieprawidłowym znaczeniu, utożsamiając islamizm z islamem oraz prezentując wywody, odpowiadające schematowi „zderzenia cywilizacji”.

LS: Jak to się przejawia w UE i na Bliskim Wschodzie? Gdzie leży różnica wewnątrz tego ruchu?

CM:  Tak zwany „polityczny islam” wynika z teorii wahhabickiej i salafickiej. Wahhabizm czerpie swą nazwę od Mahometa ibn al-Wahhaba, który żył na Półwyspie Arabskim w XVIII wieku i według Henry’ego Corbina był „ojcem ruchu salafickiego na przeciągu wieków”. Sukcesorem ideologicznym salafizmu był Dżamal ad-Din al-Afgani, który w 1883 r. założył towarzystwo Salafija i w 1878 r. wstąpił do loży wolnomularskiej w Kairze. Jego uczniem i następcą był Mahomet Abdo, również będący wolnomularzem, który w 1889 r. został z nadania władz brytyjskich egipskim muftim. Głównym spadkobiercą tych szkół myśli jest Bractwo Muzułmańskie założone w Egipcie w 1928 r. przez Hasana al-Bannę. Obecnie Bractwo Muzułmańskie to ruch polimorficzny, reprezentujący pragmatyczny, realistyczny i polityczny wariant całej plejady związanej z ideologią wahhabicko-salaficką. Tym niemniej, określenie „salaficki” zazwyczaj wiąże się z ruchami o celach maksymalistycznych i z grupami ekstremistycznymi, mniej skłonnymi do taktycznych kompromisów, lub parającymi się działalnością paramilitarną lub terrorystyczną.

LS: W jaki sposób islamizm, rozumiany jako ruch radykalny, uciekający się do stosowania przemocy, ma się do islamu, państwa i aktorów współczesnej sceny politycznej?

CM: Wspomnieć należy, że angielski agent John Philby był głównym doradcą króla Ibn Sauda, uzurpatora protektoratu nad Miejscami Świętymi, który wahhabicką herezję uczynił oficjalną ideologią Arabii Saudyjskiej. Królestwo wahhabickie, historyczny sojusznik anglo-amerykańskich imperialistów, szczodrze finansuje i popiera grupy islamistyczne. Obecnie, grupy te znalazły sobie drugiego kasjera – emira Kataru. Al-Tani dał siedzibę Al-Dżazirze i otworzył kwaterę dla regionalnego sztabu USA w nadziei przejęcia roli lidera w świecie arabskim, stając się w ten sposób głównym konkurentem Arabii Saudyjskiej w koalicji proamerykańskiej. W ten sposób, kto płaci muzykantom, ten decyduje też o muzyce, która, koniec końców, jest muzyką amerykańską.

LS: Czy możliwe jest zorganizowanie sojuszu pomiędzy skrajnie islamistycznymi grupami a państwami? Mam na myśli nie tylko przykład Arabii Saudyjskiej, ale także udział Departamentu Stanu USA w tajnych operacjach i moderowanie islamu.

CM: Samuel Huntington pisze, że podstawowym problemem dla Stanów Zjednoczonych nie jest islamski fundamentalizm, ale islam jako taki. Zatem jeśli islam jest strategicznym wrogiem USA, islamski fundamentalizm może być jego taktycznym sojusznikiem. Teoria ta była zastosowana w Afganistanie, na Bałkanach, w Czeczenii, Libii i Syrii. Co się tyczy Departamentu Stanu USA, to w CV Abd al Wahida Pallaviciniego można przeczytać (A Sufi Master’s Message. Milan 2011, s. 11), że Departament Stanu organizował kursy dla przywódców muzułmańskich w Instytucie Polityki Migracyjnej w Waszyngtonie. Celem tych kursów jest stworzenie liderów muzułmańskich made in USA.

LS: Niepokoje społeczne i ruchy muzułmańskie na Bliskim Wschodzie i w Afryce Północnej – co Pan o nich myśli? Samir Amin uważa, że to stara Lunga Manus kapitalizmu, który obecnie pracuje w nowych warunkach bazarowych sieci, by walczyć z lewicowymi ideami sprawiedliwości etc.

CM: W świecie islamskim idee sprawiedliwości nie są ideami lewicowymi, lecz koranicznymi. Ponieważ islam nie daje się pogodzić z kapitalizmem, liberałom potrzebny jest islam „reformowany”, który ktoś nazwał „arabską wersją etyki kalwińskiej”. Wykonawcami tego projektu są ruchy wahhabickie i wszyscy ci, którzy chcą „reform demokratycznych” w świecie arabskim. Sponsorami tej manipulacji dokonywanej na świecie muzułmańskim są naftowe monarchie i emiraty Zatoki Perskiej, które tworzą Bliskowschodni Bank Rozwoju, który będzie kredytował kraje arabskie dla wsparcia ich transformacji w kierunku demokracji, oraz dla utrwalenia ich zależności finansowej. Między innymi w Egipcie, Bractwo Muzułmańskie zwróciło się do Międzynarodowego Funduszu Walutowego z wnioskiem o przyznanie kredytu wysokości 3,2 mld. dolarów.

LS: Wspomnijmy o tradycyjnym islamie – począwszy od zakonów sufickich i szyitów, związanych z Iranem, Irakiem, Libanem itd. Czy jest to antidotum na nowy postmodernistyczny islam, czy kolejna grupka, która stanie się celem dla nowo powstałych sekt i dla Zachodu?

CM: Na Półwyspie Arabskim i w Turcji, wahhabici i kemaliści zakazali działania zakonów sufickich, w złudnej nadziei, że mogą w ten sposób wykorzenić sufizm. W Libii, Tunezji i w Mali salafici i inni islamiści zniszczyli tradycyjne miejsca kultu i islamskie biblioteki, podobnie jak miało to miejsce w Mekce i w Medynie pod wahhabicką okupacją. Wspólnoty szyickie podlegają prześladowaniom ze strony reżymów wahhabickich, na przykład w Bahrajnie. Heterodoksyjne grupy i rządy atakują tradycyjny islam we wszystkich jego formach – zarówno sunnitów, jak i szyitów, uznając je za poważne przeszkody dla swojej wywrotowej działalności.

LS: A jakie jest przeznaczenie Izraela? Wywiad USA prognozuje, że Izrael przestanie istnieć w ciągu najbliższych 30 lat. Czy wzrost islamu przedstawia dla niego realne zagrożenie, czy też USA dokonają przeformułowania swoich stosunków z tym państwem, mających w ważnym regionie krytyczne znaczenie?

CM: Nowa i ambitna strategia USA, którą Obama przedstawił w swoim wystąpieniu w Kairze, nakierowana jest na ustanowienie hegemonii USA w świecie arabskim i na Bliskim Wschodzie za zgodą samych Arabów. Dla tego celu należy zgromadzić państwa arabskie w wielkim froncie przeciw Iranowi, który wyrasta na głównego wroga w tej strefie, dlatego też państwa arabskie powinny współpracować z reżymem syjonistycznym. Muszą one zatem zadeklarować swoje poparcie dla reżymu syjonistycznego, który w zamian za to powinien zezwolić na utworzenie nic nieznaczącego tworu palestyńskiego.

LS: Prócz tego wszystkiego, widzimy dobry przykład współistnienia państwa i religii, tak jak w przypadku Indonezji i idei ruchu umiarkowanych. Jak Pan uważa, czy idea fundamentalizmu i stosowania przemocy jako siły zewnętrznej zależy od regionu, etnosu, interpretacji Koranu i fatw, czy od dobrobytu społecznego?

CM: Zgodnie z doktryną islamską, polityka jest częścią religii; państwo zbudowane jest na religijnych podstawach i ma cele religijne, tak aby, jak powiedział imam Chomeini, „zarządzać środkami dla wypełnienia praw koranicznych”. Co się tyczy wspólnot muzułmańskich żyjących w państwach niemuzułmańskich, obowiązek uczonych islamskich sprowadza się do tego, by znaleźć takie rozwiązania, które odpowiadając wymogom prawa islamskiego, pozwoliłyby tym wspólnotom współistnieć z niemuzułmanami. W Europie, gdzie obecność dużej liczby muzułmanów niedawno zaistniałym faktem, praca ta dopiero się zaczyna.

LS: Na zakończenie, jaka jest Pańska prognoza na najbliższą przyszłość – jak funkcjonował będzie ruch politycznego islamu, rozumianego we wszystkich jego aspektach, w szczególności w UE?

CM: Antyislamskie zjawisko znane jako islamizm zależy w dużym stopniu od poparcia reżymu wahhabickiego, pozostającego w sojuszu ze Stanami Zjednoczonymi. Dlatego można się spodziewać, że „polityczny islam” będzie wykorzystywany w zgodzie z potrzebami strategii USA, na przykład w Algierii, która, co bardzo prawdopodobne, będzie następnym celem francuskiego subimperializmu, zależnego od USA. Co się tyczy Unii Europejskiej, doświadczenie uczy nas, że służby specjalne USA i Izraela są ekspertami w przedmiocie manipulowania grupami ekstremistycznymi, dlatego nie da się wykluczyć, że grupy salafickie mogą zostać użyte, by szantażować rządy europejskie.

 

 

Z prof. Claudio Muttim rozmawiał Leonid Sawin (czasopismo „Геополитика”)

(tłumaczenie z języka rosyjskiego: Ronald Lasecki)

Tłumaczenie wywiadu ukazało się na portalach geopolityka.org oraz Xportal.pl

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LA REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN TRA ORDINAMENTO INTERNO E POLITICA INTERNAZIONALE

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Sabato 27 aprile alle ore 15:30, nella sala circoscrizionale di via Pietro Pasquali 5 a Brescia, verrà presentato al pubblico il libro “La Repubblica Islamica dell’Iran tra ordinamento interno e politica internazionale“.

 

Intervengono:

Claudio Mutti – Direttore di “Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici”.

Alì Reza Jalali Autore del libro.

Jafar Rada – Associazione Islamica ” Imam Mahdi”.

Alessandro Iacobellis – Esperto in questioni mediorientali.

 
L’incontro è organizzato dall’associazione “Nuove Idee” e dalla rivista di studi geopolitici “Eurasia”.

 
Ingresso libero.

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LA TEORIA DEL COMPLOTTO IN AMERICA LATINA: SPUNTI PER INTERESSANTI RIFLESSIONI

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Di seguito riportiamo la traduzione di parte di un’intervista rilasciata da Percy Francisco Alvarado Godoy (1) dal titolo Confermando un’ipotesi: Chavez è stato assassinato dalla CIA (2) e parte di un articolo dello stesso Godoy, pubblicato sul proprio blog e dal titolo Non solo si cerca di assassinare Maduro in Venezuela (2). Tali contributi non vogliono “imporre” al lettore una visione complottista delle dinamiche che interessano l’America Latina, ma perlomeno suscitare quesiti ed una visione critica e attenta di ogni singolo evento che avviene in quello o in qualsiasi altro continente. Non sempre esistono complotti (ovviamente), ma spesso si verificano eventi di dubbia “spontaneità”.

Nell’intervista rilasciata da Godoy al periodico venezuelano El Correo del Orinoco l’oggetto è la “guerra bioterrorista” ossia l’utilizzo “bellico” di armi non convenzionali, ma biologiche. Parliamo, per intenderci, delle armi contestate all’Iraq di Saddam Hussein o all’attuale regime siriano. Per Godoy “esistono molti antecedenti che possono dimostrare la mancanza di etica militare da parte degli Stati Uniti, non solo nella fase di investigazione e prova delle armi biologiche in altre nazioni, ma contro i suoi stessi cittadini. […] [esistono] vari esempi che dimostrano come il Pentagono abbia convertito Fort Detrick nel suo centro per lo sviluppo della ricerca di armi biologiche:

1947 – la CIA iniziò a studiare l’Acido Lisergico (LSD) per utilizzarlo come arma biologica contro esseri umani. Nel 1960, il Gruppo di Assistenza Principale dell’intelligence dell’Esercito (ACSI), autorizzò l’impiego dell’LSD in Europa e nel Lontano Oriente, per valutare le reazioni negli umani. Entrambe i progetti furono codificati rispettivamente come Terza Opportunità e Cappello a Fungo [o Bombetta].

1953 – la CIA iniziò il progetto MK ULTRA, il quale si estese durante 11 anni di ricerca, essendo concepito per produrre, provare droghe e microrganismi per controllare la mente e modificare il comportamento degli esseri umani senza il consenso degli stessi.

1965 – la CIA ed il Dipartimento di Difesa iniziano il Progetto MK SEARCH, con la finalità di manipolare la condotta umana tramite l’uso di droghe psichedeliche.

1966 – la CIA inizia il Progetto MK OFTEN, diretto a testare gli effetti tossicologici di alcune droghe negli uomini e negli animali.

1966 – il Pentagono ha rotto varie ampolle contenenti il batterio Bacillus Sutilis nella rete di ventilazione della metropolitana di New York, esponendo più di un milione di civili deliberatamente.

1967 – la CIA e il Dipartimento di Difesa implementarono il progetto MK NAOMI, successore  dell’MK ULTRA, disegnato per mantenere, riservare e testare le armi biologiche e chimiche.

1970 – la Divisione di Operazioni Speciali in Fort Detrick, sviluppò tecniche di biologia molecolare per produrre retrovirus (VIH).

1970 – la CIA e il Pentagono svilupparono “armi etniche” designate all’eliminazione di gruppi etnici specifici, suscettibili per le proprie peculiarità genetiche e per le variazioni nel DNA.

1977 – L’Assemblea del Senato, nella Commissione Investigativa Scientifica e di Salute, confermò la contaminazione deliberata da parte del Pentagono e della CIA, di 239 popolazioni con agenti biologici, tra il 1949 e il 1969, fondamentalmente a San Francisco, Washington, D.C., Centro-Ovest degli Stati Uniti, Città di Panama, Minneapolis e St. Luis.

1987 – il Dipartimento di Difesa ammise la ricerca e lo sviluppo di agenti biologici in 127 laboratori e università in giro per gli Stati Uniti.

1990 – Somministrazione a Los Angeles a più di 1500 bambini di colore e ispanici di sei mesi d’età di un vaccino “sperimentale” del morbillo, non autorizzato dal CDC [Centers for Disease Control and Prevention]

1994 – Si scoprì, mediante una tecnica chiamata “inseguimento dei geni”, da parte del Dr. Garth Nicolson, scienziato del Centro Tumorale MD Anderson di Houston, che i soldati della missione Tormenta del Deserto, furono infettati con una catena alterata di Microplasma Incognitus, un batterio normalmente utilizzato nella produzione di armi biologiche, il quale contiene un 40% della proteina del virus dell’AIDS. Durante il 1996, si ammetterà che circa 20000 soldati furono infettati.

1995 – il Governo americano ammise di aver offerto ai criminali di guerra e scienziati giapponesi, soldi e immunità dalla persecuzione in cambio dei dati della loro ricerca sulla guerra biologica.

1995 – Il Dr. Garth Nicolson rivelò l’evidenza che gli agenti biologici usati durante la Guerra del Golfo furono prodotti in Houston (Texas) e Boca Raton (Florida) e testati sui prigionieri nel Dipartimento Carcerario del Texas.

1996 – il Dipartimento di Difesa ammise che soldati della missione Tormenta del Deserto furono esposti ad agenti chimici, ciò portò 88 membri del Congresso a firmare una carta, un anno dopo, esigendo un’indagine sull’uso delle armi biologiche nella Guerra del Golfo.

Cuba è stata la principale vittima del terrorismo e in particolar modo della guerra biologica. […] Mentre il Pentagono utilizza la guerra biologica contro le forze attive dei nemici, la CIA esegue principalmente azioni selettive contro persone o azioni segrete per provocare il caos economico di nazioni alle quali in molti casi gli Stati Uniti non hanno dichiarato guerra […] la CIA si dedica all’esecuzione di piani bioterroristici specifici.[…] già nel 1987 sei milioni di persone furono assassinate come risultato delle operazioni coperte della CIA […] Nella fattispecie del cancro si sa che, dal 1975, si è ampliato Fort Detrick come installazione dove esiste una sezione speciale all’interno del Dipartimento Virus del Centro per la ricerca in materia di Guerra Biologica, conosciuta come “Installazione Fredrick per la Ricerca del Cancro” […] Altro elemento sullo sviluppo della guerra biologica da parte del governo nordamericano, con particolare riferimento al cancro, lo da la testimonianza del Dr. Maurice Hilleman, prestigioso ricercatore nei veccini dei Laboratori Merck, dome ammette che i suoi laboratori produssero vaccini contaminati con leucemia e virus del cancro nella decade degli anni ’70, i quali furono somministrati deliberatamente a cittadini sovietici […] La forma di induzione più efficace e meno rintracciabile potrebbe essere […] mediante l’ingerimento di alimenti o per via aerea, ottenendo un maggior risultato mediante la ripetizione pianificata di questo processo. […] Il Presidente Hugo Chavez scoprì nel dicembre 2011 il vaso di Pandora nell’esporre i suoi sospetti sull’inusuale malattia per cancro dei vari presidenti e personalità progressiste latinoamericane negli ultimi anni, tra le quali si segnalavano: lo stesso Chavez, la presidentessa argentina Cristina Fernandez, il presidente paraguayano Fernando Lugo, la presidentessa brasiliana Dilma Rousseff e l’ex presidente brasiliano Luiz Inacio da Silva tra gli altri. […] Altri allo stesso modo hanno indicato la CIA quale colpevole. Il periodico inglese The Guardian ha fatto eco a questa ipotesi […] altri media iraniani e di altre nazioni hanno aumentato i propri dubbi sulla fatidica morte del leader bolivariano.[…] Per dimostrare questa tesi si richiede un serio studio dei campioni conservati da parte dei più eminenti scienziati non compromessi con questi programmi o sperare, almeno, che qualcuno dei coinvolti, se non viene assassinato prima, porti alla luce la verità. È realmente una questione di tempo.”

Ed ora veniamo al secondo estratto che focalizza l’attenzione sulla situazione venezuelana nel dopo Chavez. Qui Godoy identifica un piano preparato da alti funzionari del governo statunitense, dalla CIA, altri governi latinoamericani, gruppi antibolivariani con base a Miami e dai gruppi terroristi anticubani esistenti sempre a Miami, con oggetto la destabilizzazione della Repubblica Bolivariana del Venezuela. “[…] Questo piano contempla ugualmente la scomparsa fisica di determinati membri della destra come Henrique Capriles, Antonio Ledezma ed altri, accusando le forze bolivariane di questi fatti di assassinio selettivo. “[…] l’obbiettivo è quello di creare il caos costituzionale, promuovere una possibile guerra civile o, in ultima ipotesi, l’intervento militare di forze esterne sotto la tutela dell’ONU […]”. L’autore elenca un cospicuo numero di persone e organismi coinvolti in tale missione e non solo presenti sul territori statunitense, ma dislocate in gran parte dell’America Latina, Europa e Israele. “[…] fondamentalmente i piani previsti dalla CIA, il Mossad e il resto degli implicati, con l’assassinio selettivo di quadri della direzione e altre personalità, mirano al sabotaggio economico e alla generazione di guerriglie e altre manifestazioni di disobbedienza sociale.

Sulla base di quanto sin qui riportato, si lascia al lettore ogni conclusione finale e parziale. Il tutto può esser visto come un eccesso di sospetto o un insieme di congetture forzate della realtà. Perlomeno, comunque vada, un minimo di dubbio viene creato e resta al lettore ogni approfondimento su fonti e fatti storici riconducibili alle affermazioni di Percy Francisco Alvarado Godoy. Tuttavia, tralasciando l’oggetto di questo stesso approfondimento proposto, l’invito di fondo è quello a non prendere ogni informazione come obbiettiva e reale, ma da analizzare e vagliare con l’ausilio di altre fonti ed altri fatti (che se pur distinti possono celare un forte nesso con l’oggetto della ricerca).

 

 

 

* William Bavone è Segretario Scientifico e responsabile dell’area latinoamericana del CeSEM (Centro Studi Eurasia Mediterraneo) e autore del saggio “Le Rivolte Gattopardiane – analisi e prospettive del bacino del Mediterraneo”

 

 

 

(1) Percy Francisco Alvarado Godoy (Guatemala, 1949) è laureato in Scienze politiche. Attualmente lavora come specialista in commercio internazionale per il governo cubano oltre ad essere scrittore di saggi d’inchiesta. Per 29 anni ha agito come Agente della Sicurezza Cubana lavorando da infiltrato nell’ala terroristica della Fondazione Nazionale Cubano-Americana (Miami – U.S.A.).

(2) Per una lettura completa http://percy-francisco.blogspot.it/2013/04/confirmando-una-hipotesis-chavez-fue.html

(3) Per una lettura completa http://percy-francisco.blogspot.it/2013/04/no-solo-se-busca-asesinar-maduro-en.html

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IL DOPPIO CRITERIO STATUNITENSE SUI DIRITTI UMANI MESSO IN EVIDENZA

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Domenica, l’Ufficio Informazioni del Consiglio di Stato ha divulgato un rapporto intitolato L’Indice dei Diritti Umani negli Stati Uniti nel 2012. Si tratta della quattordicesima volta consecutiva in cui la Cina ha nuovamente controbattuto alla relazione annuale di Washington in materia di diritti umani nel mondo. Gli osservatori cinesi stanno dedicando molta attenzione a questa guerra della comunicazione in ambito di diritti umani, che a lungo ha costituito fonte di tensioni tra le due più grandi economie del pianeta. Negli ultimi due anni, è avvenuto un lieve cambiamento nel confronto sulla questione dei diritti umani. Lo scorso ottobre, la Duma della Federazione Russa, camera bassa del Parlamento, per la prima volta ha tenuto un’assemblea di tre ore sul tema della violazione dei diritti umani negli Stati Uniti e ha pubblicato il suo primo rapporto annuale criticando la violazione dei diritti umani da parte degli Stati Uniti.

Lo scorso anno è sorta anche una discussione in virtù della quale diversi Paesi, tra cui Cina, Russia, Singapore, Venezuela, Cuba e Colombia, hanno messo in dubbio la credibilità del giudizio di Washington in merito alla condizione dei diritti umani nel mondo. La questione dei diritti umani è un problema di portata mondiale e sembra che sia le posizioni di offesa che quelle di difesa in questo confronto si stiano progressivamente interscambiando.

Il doppio standard che Washington strumentalizza in merito alla questione dei diritti umani emerge con evidenza nel suo ultimo rapporto. Per esempio, l’opuscolo sottolinea un “deterioramento” dei diritti umani in Cina e in Vietnam, pur approvando un progresso significativo in Myanmar, descritto come “un passaggio storico verso la democrazia”. Una simile valutazione è uno strumento politico ben manipolato.

Per quanto riguarda la Cina in particolare, vi è un contrasto sempre più evidente tra le condizioni dei diritti umani denunciate dagli Stati Uniti e quelle che i cinesi percepiscono realmente nella vita di tutti i giorni.

Washington ignora la tendenza generale dell’indice di sviluppo dei diritti umani in Cina, tuttavia individua alcuni singoli dissidenti e in base alle loro considerazioni conclude che la Cina fa ricorso “sistematico” a leggi speciali per mettere a tacere gli individui e sopprimere la libertà. Come gli esperti hanno delineato, tra le varie carte strategiche che gli Stati Uniti possono giocarsi contro la Cina, un considerevole attacco nel campo dei diritti umani è quella più conveniente. Ma i cinesi non dovrebbero essere eccessivamente disturbati da queste accuse costanti.

Da un lato, dovremmo dimostrare un’apertura mentale verso le critiche provenienti dall’esterno, che possono essere integrate all’interno della linea-guida del progresso domestico. Abbiamo senz’altro un ampio margine per la risoluzione dei problemi interni e per il miglioramento dei diritti umani. Questo aiuterà anche ad allentare la pressione strategica da parte di Washington. Tuttavia, dall’altro lato dovremmo mostrare sangue freddo nella misura in cui la Cina non può abbandonare le sue caratteristiche politiche.

Dopo tutto, la nazione non accetterà mai i parametri imposti da Washington nel campo dei diritti umani, che secondo il metro valutativo di Washington significano letteralmente esportare il modello statunitense e le sue proprie specificità.

 

 

 

*Su Li è redattrice capo del quotidiano cinese “Global Times”, tabloid internazionale del “Quotidiano del Popolo”.

 

 

FONTE: Global Times del 22 aprile 2013, pag. 12

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PERCHÉ LE SANZIONI INTERNAZIONALI CONTRO L’IRAN SONO INUTILI

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Le sanzioni adottate dalla comunità internazionale per evitare che l’Iran acquisisca armamenti nucleari non sono una soluzione razionale alla questione. Oltre a non persuadere l’Iran dal continuare l’ampliamento del proprio programma nucleare civile, esse contribuiscono a porlo in un clima d’isolamento internazionale, sia dal punto di vista diplomatico, che di quello economico. Inoltre, le sanzioni, essendo mirate a indebolire le esportazioni di greggio, danno un maggior incentivo all’Iran per continuare a espandere il proprio programma nucleare. La forte crescita demografica che sta attraversando l’Iran in questi anni ha infatti portato un maggior consumo interno di petrolio con una conseguente riduzione delle esportazioni dello stesso. Il programma nucleare rappresenterebbe quindi un’importante fonte energetica alternativa che permetterebbe all’Iran di diminuire il consumo interno continuando ad esportare petrolio.

C’è una differenza fondamentale tra le sanzioni unilaterali imposte dagli USA contro l’Iran e quelle adottate dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea. Le prime non hanno bisogno di alcuna giustificazione; sono infatti motivate dall’ostilità storica che esiste tra gli USA e il regime degli Ayatollah, sorta dopo la Rivoluzione del 1979. In altre parole, è la natura stessa del regime iraniano a giustificare le sanzioni statunitensi in quanto gli USA hanno un interesse a rovesciare il regime persiano. Le sanzioni adottate dalla comunità internazionale hanno invece un altro fine: sospendere il programma ed evitare che l’Iran acquisisca armamenti atomici. Se il programma nucleare abbia scopi pacifici o militari resta un’incognita, quel che è certo è che le sanzioni non stanno facendo cambiare direzione al governo di Khamenei, il quale continua ad essere più che deciso a raggiungere l’autosufficienza energetica.

 

 

Lo scopo del programma

Fin da quando gli USA iniziarono a finanziarlo nel 1957, il programma nucleare ebbe lo scopo di produrre una fonte energetica alternativa che riducesse la dipendenza dell’Iran dal settore petrolifero. Da quel momento in poi, tutti i governi che si susseguirono, dallo Scià Mohammed Reza Pahlavi all’Ayatollah Ruhollah Khomeini e i suoi successori, portarono avanti con convinzione questa idea, percependo l’energia nucleare come un investimento a lungo termine di vitale importanza per il futuro dell’Iran.

L’Iran ospita circa il 10% delle riserve mondiali di greggio e può vantare di essere il secondo maggior produttore di petrolio dopo l’Arabia Saudita all’interno dell’OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries), esportando circa due terzi dei quattro milioni di barili che produce ogni giorno. Per capire l’importanza che detiene il settore petrolifero all’interno dell’economia del paese è sufficiente sapere che le esportazioni di greggio fanno capo all’80% delle esportazioni totali e che da esse deriva il 50% delle rendite totali nazionali.

Tuttavia, come risaputo, le riserve mondiali di petrolio si stanno velocemente prosciugando; un’indagine condotta da Jeremy Rifkin stima che il greggio persiano terminerà fra una cinquantina d’anni. Questo dato allarmante deriva dal fatto che la popolazione iraniana è duplicata negli ultimi trentacinque anni, portando ad un drastico aumento nel consumo interno di energia, la quale per l’appunto dipende per gran parte dal petrolio. Il punto è che l’Iran, pur essendo potenzialmente dotato d’immense risorse petrolifere, ha scarse capacità di raffinazione ed è quindi costretto a importare grosse quantità di derivati, carburanti vari, benzina e gasolio. Anche se alcune recenti riforme messe in atto dal governo di Ahmadinejad hanno migliorato la capacità di raffinazione, la dipendenza iraniana dall’oro nero rimane dannosa per il paese. Nel 2010 la EIA (Energy Information Administration) ha stimato che le importazioni di petrolio raffinato costituivano il 70% delle importazioni totali del Paese. Riepilogo, l’Iran esporta una quantità di greggio pari all’80% delle sue esportazioni totali, per poi ricomprarne una notevole quantità, equivalente al 70% delle importazioni nazionali, ad un prezzo molto più elevato, una follia. La domanda interna non solo minimizza le potenzialità di guadagno che il petrolio potrebbe portare al paese, ma rende l’Iran inefficiente dal punto di vista dell’autosufficienza energetica. Non per questo gli USA nel 1974 appoggiavano le ambizioni dello Shah di Persia, il quale sognava di sviluppare una capacità nucleare pari a 23.000MW. Anche se quell’obiettivo risulta oggi distante, il raggiungimento di 6.000MW per il 2020, come più volte  dichiarato dall’attuale governo, aprirebbe le porte ad una nuova fonte energetica, utile ad esportare più liberamente l’enorme quantità di greggio di cui l’Iran ha bisogno di liberarsi.

 

 

L’impatto delle sanzioni

Le sanzioni internazionali, come anche quelle unilaterali decise dagli USA, hanno principalmente due obiettivi: bloccare l’acquisizione di uranio e tecnologie utili al programma nucleare e isolare l’Iran per quanto riguarda il commercio di petrolio. La ragione per cui si è deciso di colpire il settore petrolifero sta nell’importanza che esso ricopre nell’economia iraniana. “Colpendolo al cuore, il governo sarà costretto ad assecondare le pretese della comunità internazionale se non vuole perdere il supporto popolare e mandare in bancarotta il paese”, avranno pensato gli alleati USA. Questi ultimi, piuttosto, hanno il pieno interesse a indebolire una delle principali potenze del Medio Oriente e vedono la retorica del nucleare come un’ottima opportunità per conseguire i loro obiettivi egemonici sotto la copertura dell’etica della non proliferazione. Negli ultimi anni, l’amministrazione Obama ha drasticamente incrementato la portata della politica sanzionatoria. E’ severamente punita qualsiasi persona che faccia un investimento consistente nell’industria petrolchimica iraniana, o che fornisca l’Iran con servizi, beni, tecnologie o informazioni riguardanti la produzione di derivati del petrolio, o che contribuisca in qualche modo ad accrescere la capacità iraniana di importare carburante. Considerando che il petrolio è d’importanza strutturale nell’economia iraniana e che la domanda interna non è di gran lunga soddisfatta dall’offerta che le enormi riserve petrolifere possono attualmente fornire, le sanzioni stanno avendo un effetto distruttivo per il paese. Il fatto che il Rial si sia svalutato di circa il 50% da quando queste sono cominciate ne è la prova concreta.

Il problema è che danneggiando il settore petrolifero, Teheran non cambierà mai idea sul programma nucleare. In questo momento il petrolio non rappresenta una fonte di ricchezza per l’Iran ma piuttosto un problema grave da risolvere. Non avendo una degna alternativa e non potendo scegliere, Teheran non ha via d’uscita. Le sanzioni non gli stanno “insegnando” qualcosa, quanto piuttosto lo stanno “picchiando” a morte. Senza il settore petrolifero, l’Iran perde la principale fonte di reddito del paese. Inoltre, tutto ciò porta il regime a sentirsi schiacciato sotto il profilo diplomatico, oltre che percepire uno stato di insicurezza e sospetto che sicuramente non favorisce le negoziazioni per un accordo sul programma.

D’altro canto, Teheran è obbligato a cercare un’alternativa al petrolio per sussistere e l’energia nucleare ne risulta la storica candidata. Oggi più che mai il programma nucleare rappresenta la via d’uscita da questa difficile situazione. Se prima l’energia nucleare era la soluzione al problema-petrolio, oggi è diventata l’unica alternativa possibile. Il recente viaggio di Ahmadinejad in Africa Occidentale per siglare accordi di cooperazione nel settore energetico lo dimostra. Il tour del Presidente Iraniano toccherà il Benin, il Ghana e il Niger; stati che sono tra i maggiori produttori di uranio al mondo. L’agenda dell’incontro comprenderà  “Educazione, agricoltura, ma soprattutto energia” ha dichiarato il Ministro degli Esteri del Benin Nassirou Arifari Bako. Il governo di Teheran sta cercando di stringere patti commerciali e alleanze politiche con stati facenti parte del Movimento dei paesi non allineati e con chiunque non appoggi le sanzioni decise dagli USA e dal Consiglio di Sicurezza.

L’Iran non si trova in un bivio in cui può scegliere tra il continuare a subire le sanzioni o sospendere il proprio programma, ma in un vicolo cieco. Teheran ha da sempre bisogno del nucleare e le sanzioni non fanno altro che incentivare questa necessità. Tutto ciò è un controsenso perché gran parte della comunità internazionale vorrebbe che l’Iran mettesse fine al suo programma nucleare, che però non può essere sospeso perché le sanzioni stanno bloccando la ragione per cui il programma esiste e cioè il petrolio.

Il programma nucleare non è uno sfizio dell’attuale governo ma una questione di vitale importanza per tutto il paese. Anche se le sanzioni dovessero minare il supporto popolare al partito neo-conservatore, il futuro governo non cambierà politica e il programma nucleare continuerà a svilupparsi. Continuando di questo passo non si farà altro che peggiorare il clima di ostilità che esiste tra l’Occidente e l’Iran, e le possibilità per instaurare un dialogo e arrivare a un accordo condiviso saranno sempre più remote.

 

 

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IL PRESIDENTE ASSUME MAGGIORI POTERI MENTRE L’ITALIA TRABALLA NELLA CRISI

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Lo scritto seguente è la versione tradotta dell’articolo President takes more power as Italy wobbles through crisis, pubblicato a pag. 15 dell’edizione del 25/4/2013 del “Global Times”, tabloid internazionale del Partito Comunista Cinese.

 

Dopo due giorni politicamente drammatici, durante i quali il Partito Democratico è stato vittima di lotte e tradimenti al suo interno, la decisione definitiva nell’elezione del presidente della Repubblica è stata la conferma di Giorgio Napolitano per un altro settennato. A seguito della bocciatura dei primi due candidati del Partito Democratico, Franco Marini e Romano Prodi, quasi tutti i principali partiti hanno cominciato a fare pressione su Napolitano per convincerlo di accettare un’altra candidatura e risolvere la difficile situazione.

La condizione in cui è sorto questo disperato accordo tra i partiti di destra e di sinistra produrrà probabilmente un “governo del presidente”, una fase straordinaria finalizzata alla realizzazione di riforme strutturali per quanto riguarda la legge elettorale, le regole in materia amministrativa e la modifica dei ruoli istituzionali.

Non si tratta certo del primo governo di emergenza nella storia italiana, tuttavia in questo caso molti politici e giornalisti considerano tutto ciò come l’avvio di una nuova era caratterizzata da inedito potere del capo dello Stato, visto non più soltanto come supervisore al di sopra delle parti ma come guida del Paese. Napolitano formerà un nuovo governo politico, probabilmente composto da ministri scelti dai due partiti principali e guidato da Enrico Letta.

In realtà, sebbene l’Italia non sia una repubblica presidenziale ed il suo sistema sia basato sul principio parlamentare, molti osservatori sostengono che il presidente abbia utilizzato i suoi poteri in modo più marcato negli ultimi anni. Nel 1948, i padri costituenti della nuova Repubblica compilarono la Costituzione in modo da realizzare una forte distribuzione dei poteri in base ad un sistema di pesi e contrappesi al fine di evitare qualunque possibile riemersione di politiche fasciste.

Dunque il capo dello Stato è eletto dai parlamentari e dovrebbe rappresentare soltanto un garante super partes dell’unità nazionale senza alcun potere di tipo esecutivo, ad eccezione del comando in capo delle Forze Armate. Contemporaneamente, il capo del governo è una figura diversa sul piano teorico dal primo ministro di derivazione britannica e rappresenta soltanto un primus inter pares con capacità limitate sui suoi ministri. Inoltre ogni riforma dovrebbe essere approvata dalla maggioranza parlamentare nei due rami del parlamento in base ad un perfetto bicameralismo.

Ma in contrasto con queste politiche teoriche, Napolitano ha direttamente gestito la crisi dopo il fallimento dell’ultimo governo Berlusconi. Prese così la situazione in mano per formare un nuovo esecutivo tecnico e curare i rapporti diplomatici con i principali alleati, soprattutto gli Stati Uniti e la Germania. Durante l’ultima visita negli Stati Uniti, Napolitano ha parlato di questioni dirimenti come la crisi dell’Eurozona e l’Area Transatlantica di Libero Commercio, un progetto futuro finalizzato all’unificazione dei mercati statunitense ed europeo.

Questo piano viene descritto come una specie di NATO economica, tuttavia molti italiani ignorano completamente l’iniziativa e il rischio pericolosissimo che gli Stati Uniti possano scaricare i loro profondi problemi finanziari sull’Europa, aumentando la sua crisi socio-economica. Inoltre, la bocciatura della candidatura di Prodi, tradito da una parte considerevole dei parlamentari del suo stesso partito, mette un freno ad un possibile approccio multipolare verso le nuove economie emergenti quali quelle del BRICS o del Mercosur.

Il profondo indebolimento del Partito Democratico, l’inconsistenza di una coalizione di destra esclusivamente personalistica e il populismo piccolo-borghese del leader del Movimento Cinque Stelle Beppe Grillo, produrranno le condizioni per un’instabilità nel panorama politico, dove Napolitano emergerà nella figura di vero coordinatore del potere esecutivo.

Come stabilito all’interno del Fiscal Compact Europeo del 2012, la linea dura dell’austerità proseguirà fino alla fine del 2013, riducendo il tasso di crescita e impoverendo le classi lavoratrici. Il governo italiano sta per essere completamente ristrutturato senza alcun riguardo per la Costituzione o per la volontà del popolo, ma il processo politico sembra procedere con il pilota automatico.

 

FONTE: Global Times (http://www.globaltimes.cn/content/777209.shtml#.UXjQoUr4KSo)

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IL RAPPORTO PRIVILEGIATO TRA MONGOLIA E COREA POPOLARE

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Il prossimo 15 ottobre si festeggerà il sessantacinquesimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra Corea Popolare e Mongolia. L’anniversario cade in un periodo in cui i rapporti tra i due paesi sono più che mai positivi. Nel 1948 il governo mongolo, guidato allora dal presidente del Presidium Gonchigiin Bumtsend e dal segretario del Partito Rivoluzionario Mongolo Yumjaagiin Tsedenbal, fu il secondo paese al mondo a riconoscere la Repubblica Popolare Democratica di Corea. I mongoli vennero anticipati solo dall’Unione Sovietica. Le rispettive ambasciate furono aperte nel 1951. Nel 1956, Kim Il-Sung, in un viaggio ad Ulaanbaatar riconobbe il ruolo mongolo nel supporto della sua causa nella Guerra di Corea (vennero forniti generi di prima necessità e oltre 200.000 capi di bestiame, oltre all’adozione di 200 orfani di guerra). L’ultima missione diplomatica coreana nella Repubblica Popolare Mongola fu guidata nuovamente da Kim Il-Sung nel 1988, quando incontrò Jambyn Batmönkh. Da lì a due anni le condizioni cambiarono decisamente.

Nel 1990, in seguito alla disgregazione del blocco sovietico, del passaggio alla democrazia multipartitica e dell’abbandono del socialismo in Mongolia, i rapporti tra i due paesi si raffreddarono notevolmente, anche a causa dell’apertura di rapporti diplomatici tra Ulaanbaatar e Seul. Nel 1999 la Corea Popolare chiuse la sua ambasciata, adducendo problemi economici, salvo poi ritornare sulle sue scelte nel 2002, con la visita ad Ulaanbaatar del ministro degli esteri Paek Nam-Su, e nel 2004, con la riapertura dell’Ambasciata, circostanze che anticiparono gli ottimi rapporti allacciati dal 2007 in poi.

Tra il 20 e il 23 luglio del 2007, infatti, il Presidente del Presidium dell’Assemblea Suprema del Popolo Kim Yong-Nam visitò ufficialmente Ulaanbaatar ed incontrò il presidente Nambaryn Ėnhbajar, esponente del Partito del Popolo (precedentemente Partito Rivoluzionario del Popolo, l’ex partito comunista al potere). La delegazione coreana e la controparte mongola siglarono un rapporto bilaterale che toccava i campi della salute, del commercio, del trasporto marino e dello scambio della forza lavoro.

La caduta in disgrazia del presidente Ėnhbajar e le elezioni che hanno portato al governo il Partito Democratico Cahiagijn Ėlbėgdorž sembravano la premessa per una collocazione delle Mongolia nel campo geopolitico atlantico. Il PD è di fatti considerato una forza politica liberale, anche se in realtà è un partito che ha molti richiami alla socialdemocrazia europea, e le proteste del luglio 2008 che lo portarono in piazza assieme alle ONG legate all’Open Society Institute di George Soros sembravano la conferma della radicale apertura dei mercati mongoli, in precedenza molto guardinghi, agli Stati Uniti e ai suoi alleati, in particolare Corea del Sud e Giappone e di una collocazione del paese nel quadrante strategico asiatico (offensivo/difensivo) di Washington (la Mongolia partecipò anche a missioni di pace con patrocinio NATO). In realtà il presidente Ėlbėgdorž non ha perso di vista le prospettive multivettoriali della geopolitica mongola e sta guidando il paese con una visione che potremmo definire di sviluppo pan-asiatico, anche se non sono mancate le pressioni da parte dell’esecutivo americano, come ad esempio durante la visita di Hilary Clinton del luglio 2012, quando la Mongolia (e indirettamente la Russia e la Cina) venne sollecitata ad una maggiore liberalizzazione politica ed economica.

Ad esempio, Ėlbėgdorž ha attivato un rapporto bilaterale con l’Iran ed è stato il primo presidente straniero a visitare un sito nucleare della Repubblica Islamica, l’impianto per l’arricchimento dell’uranio di Natanz, garantendo l’Occidente di uno sviluppo civile del nucleare iraniano. Sono stati rafforzati anche i rapporti tradizionali con l’area centroasiatica(Mongolia e Kazakistan distano circa 38 kilometri, anche se non confinano direttamente) anche grazie alla rinascita dell’interesse per la figura di Gengis Khan, e con Russia e Cina (dovendo anche affrontare la rinascita di movimenti nazionalisti anti-cinesi, come ad esempio la Coalizione per la giustizia, terza forza politica del paese guidata dall’ex premier Ėnhbajar), considerando anche che la Mongolia è paese osservatore dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (dal vertice di Taškent del 2004). Oppure il suo governo ha ritirato le licenze dell’americana Rio Tinto per lo sfruttamento della miniera Oyu Tolgoi, ricco giacimento di oro e rame. La razionalizzazione delle estrazioni minerarie ha permesso all’”oceano verde” una crescita del PIL da record (6,4% nel 2010, 17,3% nel 2011, 12% nel 2012 e prospettive di un 15,5% nel 2013) oltre a permettere al paese di raggiungere il primo posto al mondo per gli investimenti all’estero in proporzione al PIL (64% nel 2012). Gli analisti finanziari inoltre inseriscono il paese nel gruppo “M3”, sigla che identifica le tre economie in via di sviluppo con maggior margini di crescita nei prossimi decenni: Mongolia, Myanmar e Mozambico I tre paesi sono reduci da sistemi economici socialisti e si sono recentemente aperti al libero mercato, non abbandonando il ruolo determinante dello stato nel controllo dell’economia.

Nel novembre 2012 la Mongolia ha riunito delegazioni di altissimo livello di Corea (con Choe Tae-Bok, segretario del Partito del Lavoro) e Giappone, in due giorni di dialoghi bilaterali. Sul tavolo del negoziato i problemi della pace e della sicurezze nel nord-est asiatico.

Pochi giorni dopo, tra il 26 e il 29 novembre, Kim Yong-Nam è nuovamente ospite in Mongolia. L’argomento dei colloqui è la zona economica speciale di Rajin-Sonbong (Rason), istituita dal governo della RPDC nel 1990. L’obiettivo dei mongoli è trovare un accordo per l’attivazione di uno sbocco sul mare (il porto di Rajin-guyok è considerato economicamente vantaggioso rispetto alle linee ferroviarie cinesi e russe) per il carbone estratto a Tavan Tolgoi, seconda miniera al mondo per ampiezza, oltre che per oro, rame ed uranio. Per la Mongolia, più grande paese al mondo senza sbocco sul mare e con solo due paesi confinanti (Cina e Russia), questa possibilità potrebbe garantire uno sviluppo del commercio estero vitale. L’economia mongola è infatti ancora fortemente dipendente dai suoi vicini: il 90% delle esportazioni va alla Cina, mentre la Russia fornisce il 95% del petrolio. Motivo in più per impedire un innaturale posizionamento internazionale anti-russo o anti-cinese.

Inoltre furono stipulati accordi per la cooperazioni tra la Commissione della Difesa Nazionale coreana e il Ministro della Giustizia mongolo per lo scambio delle informazioni degli organi di sicurezza.

Il 16 aprile scorso, l’ambasciatore plenipotenziario della Repubblica Popolare Democratica di Corea, Hong Gyu ha presentato la lettera di credenziali al presidente della Repubblica Ėlbėgdorž.

Nella lettera  vengono stabilite le linee guida dei rapporti tra i due paesi:

  • rapporto diplomatico prioritario per la risoluzione delle controversie in modo pacifico con organizzazione da Ulaanbaatar di colloqui multilaterali, anche con intermediazone nei confronti degli Stati Uniti
  • condivisione delle esperienze economiche: l’ambasciatore coreano ha confermato che il suo paese, anche in seguito ai confortanti dati economici degli ultimi anni, è pronto ad accelerare sulla riforma economica e già da diversi anni numerosi analisti sottolineano come esperti coreani stiano studiando il modello mongolo, da prendere come esempio, vista la comune esperienza di paese socialista dell’Asia orientale. Sembra, ma qui il condizionale è d’obbligo, che a Pyongyang siano più interessati alle riforme di Ulaanbaatar piuttosto che a quelle di Pechino.
  • rafforzare la collaborazione nel campo sportivo (pallacanestro, calcio, pallavolo, judo): a marzo, per la prima volta dopo 33 anni, una formazione sportiva di Pyongyang ha visitato la Mongolia. Al torneo “Best Spring” di pallavolo sono state infatti invitate le formazioni maschili e femminili del 25 Aprile, il gruppo sportivo dell’Armata Popolare Coreana, che hanno destato ottime impressioni, pur partecipando fuori concorso al torneo. I maschi hanno centrato 5 vittorie su 5 partite, le femmine 4 vittorie su 6 partite. Inoltre in Mongolia hanno già militato due calciatori coreani.
  • rafforzare la collaborazione nell’ambito culturale: sono già numerosi gli scambi di studenti e di conoscenza scientifica. La Mongolia, con Cina e Russia, è una delle mete preferite per la formazione estera dei studenti coreani.
  • supporto in caso di carenza di cibo: attualmente la Corea Popolare garantisce l’autosufficienza alimentare (secondo i dati raccolti dalla FAO, la raccolta del grano è aumentata del 10% e attualmente ne esistono riserve per 4,9 milioni di tonnellate, oltre a riserve monetarie per acquistarne dalla Cina circa 200 mila tonnellate), ma i problemi causati da catastrofi naturali o da carestie sono sempre da tenere in considerazione, visto la particolarità del territorio nordcoreano.

 

Un rapporto privilegiato di primo piano, quindi, che può garantire ad entrambi i paesi dei vantaggi evidenti: Pyongyang può contare su una sponda diplomatica per garantire colloqui multilaterali per la risoluzione dei problemi della penisola e può legarsi economicamente con un paese in esponenziale crescita; Ulaanbaatar trova invece uno sbocco per le sue estrazioni, che garantisce la diversificazione dei partner commerciali, e assurge al ruolo di mediatore diplomatico di primo livello nelle risoluzioni delle controversie inter-asiatiche e mondiali, contribuendo in questo modo alla pacificazione del continente eurasiatico.

 

 

 

Fonti:

www.infomongolia.com/

www.kcna.kp/

www.mongolia.it

nkleadershipwatch.wordpress.com

www.lettera43.it/politica/corea-del-nord-la-mongolia-fa-da-mediatrice_4367590904.htm

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O ISLAMISMO CONTRA O ISLÃ?

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O instrumento fundamentalista

“O problema subjacente para o Ocidente não é o fundamentalismo islâmico. É o Islã”. Essa frase, que Samuel Huntington coloca ao fechar o longo capítulo de seu Choque de Civilizações chamado “O Islã e o Ocidente”, merece ser lido com mais atenção do que tem sido feito até agora.

Segundo o ideólogo norteamericano, o Islã é um inimigo estratégico do Ocidente, porque é seu antagonista em um conflito de fundo, que não surge tanto de disputas territoriais senão de um confronto fundamental e existencial entre a defesa e rechaço dos “direitos humanos”, a “democracia” e os valores laicos”. Huntington escreve: “Enquanto o Islã siga sendo Islã (como assim será) e Ocidente siga sendo Ocidente (coisa que é mais duvidosa), este conflito fundamental entre duas grandes civilizações e formas de vida continuarão definindo suas relações no futuro”.

Porém a frase citada ao princípio não se limita em designar o inimigo estratégico, também é possível deduzir a indicação de um aliado tático: o fundamentalismo islâmico. É certo que nas páginas do Choque das Civilizações a idéia de utilizar o fundamentalismo islâmico contra o Islã não está formulada de uma forma muito explícita, porém em 1996, quando publicou Huntington O Choque de Civilizações e a Reconfiguração da Ordem Mundial, este tipo de prática já havia sido inaugurada.

“É um dado de fato – escreve um ex-embaixador árabe acreditado nos EUA e Grã-Bretanha – que os EUA haviam acertado alianças com a Irmandade Muçulmana para expulsar os soviéticos do Afeganistão; e que, desde então, não deixaram de fazer a corte a essa corrente islamista, favorecendo sua propagação nos países de obediência islâmica. Seguindo a pegada de seu grande aliado norteamericano, a maioria dos estados ocidentais adotaram, em relação a essa nebulosa integrista, uma atitude que vai da neutralidade benévola à conivência deliberada”.

O uso tático do assim chamado integrismo ou fundamentalismo islâmico por parte do Ocidente não começou, como se diz, a partir de 1979 no Afeganistão, senão- como recorda em From the Shadows o ex-diretor da CIA Robert Gates – seis meses antes da intervenção soviética, quando os serviços especiais estadounidenses começaram a ajudar os guerrilheiros afegãos.

Não obstante, sua origem se remonta aos anos cinquenta e sessenta, quando Grã-Bretanha e Estados Unidos identificam o Egito nasseriano como o principal obstáculo para a hegemonia no Mediterrâneo ocidental, pelo que prestaram apoio à Irmandade Muçulmana de uma forma discreta porém acertada. É o caso emblemático de um filho do fundador do movimento, Sa’id Ramadan, que “tomou parte na criação de um importante centro islâmico em Munique, ao redor do qual se formou uma federação com ampla difusão”. Sa’id Ramadan, que recebeu financiamento e instruções do agente da CIA, Bob Dreher, em 1961 expôs seu plano de ação a Arthur Schlesinger Jr., assessor do presidente eleito John F. Kennedy. “Quando o inimigo está armado com uma ideologia totalitária e dispõe de regimentos de fiéis devotos – escrevia Ramadan – aqueles que estão alinhados sobre posições políticas opostas devem enfrentá-los sobre o plano da ação popular e a essência de sua tática deve consistir em uma fé e devoção contrária. Só as forças populares, genuinamente involucradas e reativas por sua conta, podem fazer frente à ameaça de infiltração do comunismo”.

A utilização instrumental dos movimentos islamistas funcionais à estratégia atlântica não terminou com a retirada do Exército Vermelho do Afeganistão. O auspício do governo de Clinton ao separatismo bósnio e kosovar, o apoio estadounidense e britânico ao terrorismo wahabi no Cáucaso, o suporte oficial de Brzezinski aos movimentos armados fundamentalistas na Ásia Central, as intervenções em favor dos bandos subversivos na Líbia e na Síria, são episódios sucessivos de uma guerra contra a Eurásia, nas quais os EUA e seus aliados se valem da colaboração islamista.

O fundador de An-Nahda, Rachid Ghannouchi, que em 1991 recebeu os elogios do governo de George Bush pelo papel eficaz que desempenhou na mediação entre as facções afegãs anti-soviéticas, tratou de justificar o colaboracionismo islamista esboçando uma imagem quase idílica das relações entre EUA e o mundo islâmico. Um jornalista do “Fígaro” que lhe perguntou se os americanos lhe pareciam mais conciliadores que os europeus, o líder islamista tunisiano respondeu que sim, porque “não existe um passado colonial entre os países muçulmanos e os EUA, nada de Cruzadas, nada de guerra, nada de história”; e à evocação da luta comum dos estadounidenses e islamista contra o inimigo bolchevique, acrescentou a menção da contribuição inglesa.

 

 

A “Nobre Tradição Salafi”

O islamismo representado por Rachid Ghannouchi é aquele, segundo um orientalista, que “se vincula à nobre tradição salafi de Muhammad ‘Abduh e que teve sua versão mais moderna na Irmandade Muçulmana”.

Voltar ao Islã puro dos “antepassados piedosos” (as-salaf as-Salihin), fazendo tábula rasa da tradição emanada do Corão e da Sunna ao longo dos séculos: este é o programa da corrente reformista que tem seus fundadores no persa Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897) e seus discípulos, os mais importantes dos quais foram o egípcio Muhammad ‘Abduh (1849-1905) e o sírio Muhammad Rashid Rida (1865-1935).

Al-Afghani, que em 1883 fundou a Associação dos Salafis, em 1878 foi iniciado na maçonaria em uma loja do Rito Escocês no Cairo. Ele aos intelectuais de seu entorno o ingresso na maçonaria, entre os quais está Muhammad ‘Abduh, que, logo de ocupar uma série de altíssimos cargos, em 3 de junho de 1899 se converteu no Muftí do Egito, com o beneplácito dos ingleses.

“Eles são os aliados naturais do reformador ocidental, se merecem todo o estímulo e toda a sustentação que se pode dar”: Este é o reconhecimento explícito de Muhammad ‘Abduh e do indiano Sir Sayyid Ahmad Khan (1817-1889) que foi dado por Lord Cromer (1841-1917), um dos principais arquitetos do imperialismo britânico no mundo muçulmano. De fato, enquanto que Ahmad Khan afirmou que “o domínio britânico na Índia é a coisa mais bela que o mundo já havia visto”, e asseverava em uma fatwa que “não era lícito se rebelar contra os ingleses, sempre e quando estes respeitassem a religião islâmica e permitissem aos muçulmanos praticar seu culto”, Muhammad ‘Abduh difundia no ambiente muçulmano as idéias racionalistas e cientificistas do Ocidente contemporâneo. ‘Abduh argumentou que na civilização moderna não há nada que esteja em conflito com o verdadeiro Islã (identificava aos jinn com os micróbios e estava convencido de que a teoria da evolução de Darwin estava contida no Corão), daí a necessidade de revisar a corrigir a doutrina tradicional para submetê-la ao juízo da razão e aceitar as contribuições científicas e culturais do pensamento moderno.

Depois de ‘Abduh, o líder da corrente salafi foi Rashid Rida que, após o desaparecimento do califado otomano, planejou a criação de um “partido islâmico progressista” com o objetivo de criar um novo califado. Em 1897, Rashid Rida fundou a revista “Al-Manar”, a qual, difundida por todo o mundo árabe e em outras partes, se seguirá publicando depois de sua morte durante cinco anos por outro membro do reformismo islâmico: Hasan al-Banna (1906-1949), o fundador da Irmandade Muçulmana.

Porém, enquanto Rashid Rida teorizava o nascimento de um novo Estado islâmico destinado a governar a Ummah, na Península Arábica tomava forma o Reino da Arábia Saudita, onde existia outra doutrina reformista: o wahabismo.

 

 

A Seita Wahabi

A seita wahabi toma seu nome do sobrenome de Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-1792), um árabe de Najd, da escola hanbalí, que se entusiasmou de imediato pelos escritos de um advogado literalista que viveu quatro séculos antes na Síria e no Egito, Taqi ad-din Ahmad inb Taymiyya (1263-1328). Partidário de obtusas interpretações antropomórficas sobre as imagens contidas na linguagem corânica, animado de um verdadeiro e próprio odium theologicum pelo sufismo; muitas vezes acusado de heterodoxia, Ibn Taymiyya merece a definição de “pai do movimento salafi através dos séculos” que lhe deu Henry Corbin. Seguindo suas pegadas, Ibn ‘Abd al-Wahhab e seus partidários condenaram como manifestações de politeísmo (shirk) a fé na intercessão dos profetas e dos santos e, em geral, todos aqueles atos que, em sua opinião, equivaleriam a considerar como partícipes da onipotência divina e do querer divino a um ser humano ou a outra criatura, pelo que consideram politeísta (mushrik), com todas as consequências do caso, inclusive ao muçulmano devoto dedicado a invocar o Profeta Maomé ou por orar próximo à tumba de um santo. Os wahabis atacaram as cidades sagradas do Islã xiita, saquearam seus santuários, se apoderam em 1803-1804 de Meca e Medina, demoliram os monumentos sepulcrais dos santos e dos mártires, e inclusive profanaram a tumba do Profeta; colocaram fora da lei às organizações iniciáticas e seus ritos; aboliram a celebração do aniversário do Profeta; extorquiram aos peregrinos e suspenderam a peregrinação à Casa de Deus; promulgaram as proibições mais extravagantes.

Derrotados pelo exército que o soberano egípcio havia enviado contra eles após a exortação à Sublime Porta, os wahabis se dividiram entre as duas dinastias rivais, a de Saud e Rashid, e durante um século empenharam todas as suas energias na luta intestina que ensanguentou a península árabe; até que Ibn Saud (‘Abd al-‘ Aziz ibn ‘Abd ar-Rahman Al-Faisal Al Su’ud, 1882-1953) realizou realçou de novo a sorte da seita. Patrocinado pela Grã-Bretanha, que em 1915 é com o único Estado no mundo que estabeleceu relações oficiais, exercendo como um “quase protetorado” no Sultanato de Nejd, Ibn Saud logra ocupar Meca e Medina em 1925. Se converteu em “O Rei de Hiyaz e Nejd e suas dependências”, de acordo com o título que em 1927 lhe foi reconhecido pelo Tratado de Yidah de 20 de maio de 1927, firmado com a primeira potência européia que reconheceu a nova formação estatal wahabi: a Grã-Bretanha.

“Suas vitórias – escreve um dos tantos orientalistas que cantou seus feitos – o converteram no governante mais poderoso da Arábia. Seus domínios fazem fronteira com Iraque, Palestina, Síria, o Mar Vermelho e o Golfo Pérsico. Sua personalidade de destaque se afirmou com a criação da Ikhwan ou Irmandade: uma confraria de ativistas wahabis à que o inglês Philby denominou “uma nova maçonaria”.

Se trata de Harry St. John Bridger Philby (1885-1960), o organizador da revolta árabe anti-otomana de 1915, que “havia ocupado na corte de Ibn Saud, o lugar do falecido Shakespeare” para citar a expressão hiperbólica de outro orientalista daquela época. Ele foi quem advogou perto de Winston Churchill, do rei Jorge V, do Barão Rothschild e de Chaim Weizmann pelo projeto de uma monarquia saudita que, usurpando a custódia dos Santos Lugares, tradicionalmente assignados à dinastia hachemita, unificará a Península Arábica e controlará em nome da Inglaterra, a via marítima Suez-Aden-Mumbai.

Com o final da Segunda Guerra Mundial, durante a qual a Arábia Saudita mantém uma neutralidade anglófila, ao patrocínio britânico se somará e logo será substituído o norteamericano. Em tal sentido, um evento antecipador e simbólico foi a reunião que teve lugar em 1 de março de 1945 sobre o Canal de Suez, a bordo do Quincy, entre o presidente Roosevelt e o soberano wahabi, que, como recordava orgulhosamente um arabista estadounidense, “sempre foi um grande admirador da América do Norte, que antepõe também a Inglaterra”. De fato, já em 1933 a monarquia saudita havia dado em concessão à Standard Oil Company of California, o monopólio da exploração do petróleo, enquanto que em 1934 a companhia americana Saoudi Arabian Mining Syndicate havia obtido o monopólio da exploração e extração do ouro.

 

 

A Irmandade Muçulmana

Usurpada a custódia dos Santos Lugares e adquirido o prestígio associado a essa função, a Casa de Saud se percata da necessidade de dispor de uma “internacional” que lhe permita estender sua hegemonia sobre uma grande parte da comunidade muçulmana, com o fim de combater a difusão do pan-arabismo nasseriano, o nacional-socialismo baathista e- depois da revolução islâmica de 1978 no Irã – a influência xiita. A organização da Irmandade Muçulmana proporciona à política de Riad uma rede organizativa que tirará proveito dos substanciais financiamentos sauditas. “Depois de 1973, devido ao aumento dos lucros provenientes do petróleo, os meios econômicos não faltam; se investirá principalmente nas zonas onde um Islã pouco ‘consolidada’ poderia abrir a porta à influência iraniana, especialmente na África e na comunidade muçulmana emigrada no Ocidente”.

Por outra parte, a sinergia entre a monarquia wahabi e o movimento fundado em 1928 pelo egípcio Hassan al-Banna (1906-1949) se baseia sobre um terreno doutrinário substancialmente comum, assim como a Irmandade Islâmica são os “herdeiros diretos, ainda que não sempre estritamente fiéis, da salafiyyah de Muhammad ‘Abduh’ e como tal leva inscrita em seu DNA desde seu nascimento a tendência a aceitar, inclusive com todas as reservas necessárias, a civilização ocidental moderna. Tariq Ramadan, neto de Hassan al-Banna e expoente da atual intelligentsia reformista muçulmana, interpreta dessa maneira o pensamento do fundador da organização: “Como todos os reformadores que lhe precederam, Hassan al-Banna nunca demonizou o Ocidente. (…) o Ocidente permitiu à humanidade dar grandes passos adiante e isso sucedeu desde a Renascença, quando se iniciou um vasto processo de secularização (‘que foi uma contribuição positiva’, tendo em conta a especificidade da religião cristã e da instituição clerical)”. O intelectual reformista recorda que seu avô, em sua atividade de mestre de escola, se inspirava nas mais recentes teorias pedagógicas ocidentais e nos remete a um extrato eloquente de seus escritos: “Devemos nos inspirar nas escolas ocidentais, em seus programas (…) Também devemos tomar das escolas ocidentais e de seus programas o constante interesse pela educação moderna e sua forma de afrontar a exigência e preparação para a aprendizagem, fundados sobre métodos firmes extraídos de estudos sobre a personalidade e natureza da criança (…) Devemos nos aproveitar de tudo isso sem sentir nenhuma vergonha: a ciência é um direito de todos (…)”.

Com a assim chamada “primavera árabe”, se manifestou de maneira oficial a disponibilidade da Irmandade Muçulmana para aceitar os cimentos ideológicos da cultura política ocidental, que Huntington assinala como termos fundamentais para a oposição ao Islã. Na Líbia, Tunísia, Egito, a Irmandade tem desfrutado do patrocínio dos Estados Unidos.

O partido egípcio Liberdade e Justiça, constituído em 30 de abril de 2011 por iniciativa da Irmandade e controlado por ela, se aferra aos “direitos humanos”, propugna a democracia, apoia uma gestão capitalista da economia, não é contrária a aceitar empréstimos do FMI. Seu presidente Mohammed Morsi (nascido em 1951), atual presidente do Egito, estudou nos EUA, onde também trabalhou como professor assistente na California State University; dois de seus cinco filhos são cidadãos estadounidenses. O novo presidente de repente declarou que o Egito respeitará todos os tratados celebrados com outros países (portanto também com Israel); realizou sua primeira visita oficial à Arábia Saudita e declarou que reforçará as relações com Riad; declarou também que é um “dever ético” sustentar o movimento de oposição armada que luta contra o governo de Damasco.

Se a tese de Huntington tinha necessidade de uma demonstração, a Irmandade Muçulmana a proporcionou.

 

 

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