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L’IDEA GEOPOLITICA DEI COMUNISTI RUSSI

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Lo scorso 25 febbraio è andato in archivio il XV Congresso del Partito Comunista della Federazione Russa. L’intero corpo congressuale, composto dalla Segreteria Generale, dal Comitato Centrale e dai delegati delle federazioni locali, ha riconfermato all’unanimità Gennadij Zjuganov alla guida del partito, secondo un copione ormai piuttosto consolidato. Tuttavia l’evento ha attirato un’attenzione particolare. La stampa russa, come di consueto, ha dedicato ampio spazio al Congresso di quello che è ancora oggi il secondo più grande partito del Paese, forte di 92 seggi alla Duma di Stato e dotato di una struttura istituzionale, associativa e giovanile pressoché unica in un panorama politico nazionale dove, molto spesso, i partiti risultano “leaderistici”, “oligarchici” o sono meramente collegati a pochi nomi di peso della politica, della cultura o dell’economia. Il partito di governo “Russia Unita” esiste unicamente in funzione dell’attività politica e della presenza carismatica del presidente Vladimir Putin, il partito “Russia Giusta”, guidato da Sergeij Mironov, nasce dalla fusione tra alcuni partiti popolari e socialisti minori e alcune componenti del vecchio partito social-nazionalista “Rodina” (col malcelato scopo di erodere una parte del consenso comunista), mentre il Partito Liberaldemocratico è un contenitore vuoto quasi unicamente messosi in luce grazie alle bizzarrie televisive del nazionalista Vladimir Žirinovskij. Fuori dal Parlamento, spuntano una miriade di partiti e movimenti minori tra i quali Jabloko (liberale) di Sergeij Mitrokhin e il Fronte di Sinistra (sinistra radicale) di Sergeij Udaltsov, più volte arrestato dalle autorità per violenze e attentati all’ordine pubblico. Il Partito Comunista della Federazione Russa è, al contrario, l’ultimo vero partito tradizionale presente in Russia.

 

 

DA SERGEIJ SEMANOV AL “COMUNISMO PANRUSSO”

Unico erede di rilievo della tradizione politica, ideologica ed istituzionale dell’Unione Sovietica, la stampa occidentale si era occupata con particolare attenzione di Gennadij Zjuganov già nel 1996 quando, da candidato presidente, sfidò Boris Eltsin perdendo un confronto che, a detta di molti, fu pesantemente segnato da brogli elettorali. Dopo aver ricostruito un partito di massa dalle ceneri della dissoluzione sovietica, il Partito Comunista della Federazione Russa ha raccolto attorno a sé gli ambienti legati ad un variegato insieme ideologico e culturale definito posteriormente con il nome di “partito russo”. Si trattava di un movimento non-ufficiale, trasversale agli organi istituzionali, sorto in Unione Sovietica durante gli anni Sessanta e composto da personalità di spicco del PCUS, dell’Armata Rossa, della lega giovanile comunista del Komsomol, dei sindacati e dei circoli scientifici, artistici e letterari. Il filo comune che connetteva questo movimento a vasti strati della popolazione e dei militanti di base era un sostanziale ribaltamento teorico rispetto al dogmatismo ideologico di alcuni intellettuali e quadri intermedi: anteporre il rafforzamento del sistema statale russo al consolidamento del socialismo e alla sua evoluzione verso il comunismo1. Sul finire degli anni Sessanta, le posizioni espresse dal cosiddetto “partito russo” acquisirono un’ampia eco grazie a riviste come Oktjabr, Ogonëk, Moskva, Žurnalist, Naš Sovremennik e, soprattutto, il mensile del Komsomol, Molodaja Gvardija2.

Durante l’era Brežnev, le alte gerarchie del potere sovietico si mantennero per lo più equidistanti da entrambe le tendenze e spesso sembravano muoversi nel mezzo, sospese tra un orientamento e l’altro, in un’incertezza ideologica e politica che venti anni più tardi sarebbe risultata fatale per le sorti di un Paese ormai vittima del revisionismo storico e del cosiddetto “auto-sciovinismo”, cioè della lugubre e drammatica autoconvinzione di una propria presunta inferiorità rispetto all’Occidente.

Nell’agosto del 1970 proprio il mensile Molodaja Gvardija fu al centro di un’aspra polemica, scoppiata in seguito alla pubblicazione del saggio Valori Relativi e Valori Eterni. L’autore, l’intellettuale Sergeij Semanov, fu accusato di aver esaltato l’era staliniana e di aver descritto l’Unione Sovietica in termini di “potenza imperiale”3. L’articolo aveva destato evidenti preoccupazioni tra quei quadri del PCUS maggiormente orientati verso l’apertura della società sovietica e la normalizzazione dei rapporti con l’Occidente, pronti ad utilizzare strumentalmente la retorica marxista-leninista per condannare quelle posizioni. Del resto, l’operazione di rivisitazione teorica portata avanti dal “partito russo” era evidente: l’internazionalismo proletario fu integrato dallo spirito di fratellanza universale dell’uomo russo esaltato da Dostoevskij4; lo scontro mondiale tra capitalismo e socialismo fu parzialmente reinterpretato come momento dell’eterna lotta tra la spiritualità russa e il “materialismo borghese” del mondo occidentale, secondo i parametri sintetizzati nell’idea slavofila di Ivan Kireevskij e Alekseij Chomjakov5; l’obiettivo della scomparsa delle classi sociali nella fase di transizione verso il comunismo fu integrato nell’escatologia comunitaria slavo-ortodossa contenuta nel concetto di sobornost’6.

È dunque facile capire come il cosiddetto “fenomeno Zjuganov” non costituisca un’anomalia o una stravagante rielaborazione in termini teorici rispetto alla storia sovietica né, per dirla con termini eltsiniani, una “degenerazione rossobruna” rispetto ad un paradigma storico-politico che in realtà non fu mai adeguatamente conosciuto e approfondito in Occidente durante la Guerra Fredda. La positiva affermazione elettorale del Partito Comunista della Federazione Russa alle ultime elezioni parlamentari (20% dei consensi) e la completa messa in minoranza dei partiti più dogmatici (VKPB, RKRP, RPK), hanno spiegazione proprio nella formazione socio-culturale della popolazione dei Paesi ex sovietici, dove a partire dal 1991 le tematiche relative alle tradizioni religiose e popolari hanno assunto un significato estremamente importante in termini politici. Circa dieci anni fa il presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko, ex membro del PCUS ed ex ufficiale dell’Armata Rossa, ha firmato un accordo di cooperazione con la Chiesa Ortodossa di Minsk destinando parte dei progetti giovanili di Stato alla manutenzione e al restauro dei monumenti e degli edifici dall’alto significato patriottico e spirituale. Il presidente kazako Nursultan Nazarbaev, ex segretario generale del Partito Comunista della RSS del Kazakhstan, ha annunciato molti anni fa di aver sempre professato la fede musulmana e di voler fare del suo Paese un luogo di dialogo e di incontro la civiltà cristiana e quella islamica, come ben delineato nel discorso che ha tenuto durante il vertice dei Capi delle Religioni Tradizionali del mondo svoltosi ad Astana nel 2011. Nel novembre del 1992, Eduard Shevardnadze, ex ministro degli Esteri dell’URSS ed ex presidente della Georgia, annunciò alla stampa il suo battesimo e la sua conversione al cristianesimo ortodosso di rito georgiano7.

Crollate le certezze dell’ideologia ufficiale del PCUS e smarriti i punti di riferimento collettivi dell’era precedente, l’appiglio sociale per gran parte della popolazione dell’ex Unione Sovietica sarebbe stato costituito dall’eredità culturale presovietica. Un processo politico e culturale del tutto naturale portò dunque il Partito Comunista della Federazione Russa a rafforzare presso l’opinione pubblica la convinzione secondo cui proprio la sconfitta storica del “partito russo”, sancita dalla perestrojka e dal golpe fallito del 1991, aveva determinato la deflagrazione dell’URSS e l’ascesa di Boris Eltsin alla guida della neonata Federazione Russa. Secondo Gennadij Zjuganov, la mancanza di una chiara ridefinizione dell’assetto dello Stato in termini teorici ed il revisionismo adottato nei confronti dell’operato di Stalin a partire dal 1956, avevano provocato un vuoto ideologico e culturale che ormai nemmeno il pur presente richiamo al patriottismo era in grado di colmare. Scriveva Zjuganov nel 1994: «La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha dimostrato, indubbiamente e nitidamente, che l’ideologia denazionalizzatrice dei tempi della ‘stagnazione’ non è stata in grado di opporsi agli influssi distruttori e antistatali, ostili alla forza della Russia […] Le ragioni di quanto è successo sono sotto gli occhi di tutti. Lo stato si è dissolto perché si sono dimenticate le plurisecolari e profonde radici che sono state il fondamento dell’unità statale, culturale e religiosa di tutto il popolo»8. L’Unione Sovietica sarebbe dunque crollata perché incapace di focalizzarsi sulla sua peculiare matrice integrativa eurasiatica e sui principi geopolitici e geoantropici fondanti della storia imperiale russa. L’assenza di una chiara e definita “idea russa” in seno al socialismo sovietico non aveva perciò semplici ripercussioni di carattere estetico e folkloristico, ma pesantissime implicazioni sul piano strettamente politico, strategico ed economico. Il primo compito del Partito Comunista della Federazione Russa è stato pertanto quello di ridefinire a posteriori l’esperienza sovietica come una forma di civiltà inserita nel contesto della Russia storica, riconsiderando tutta una serie di autori e intellettuali del XVIII e del XIX secolo, senza dimenticare il contributo di Lev Nikolaevic Gumilëv, l’etnografo pietroburghese che ispirò la nuova scuola eurasiatista russa degli anni Novanta.

 

 

CAPOVOLGERE BELOVEŽA CON LO SGUARDO ALLA CINA

La decentralizzazione del potere avviata dalla Dottrina Sinatra di Mikhail Gorbacëv ha ben presto rivelato la sua natura distruttiva, traducendosi nella definitiva disintegrazione dell’Unione e nella separazione stabilita durante gli accordi di Beloveža. Ribaltando i risultati del referendum indetto nel marzo 1991, dove il 76,4% degli elettori si dichiarò favorevole alla conservazione di un’Unione riformata, le dirigenze politiche affermatesi nella fase della glasnost’ a Mosca, Minsk e Kiev si riunirono nel dicembre dello stesso anno e dichiararono la fine di ciò che restava dell’Unione Sovietica.

Zjuganov sostiene che senza l’Unione la Russia non è tale e non può essere considerata uno Stato di pieno valore, perché «parlando propriamente, la Russia è quell’ampia Unione che si è formata nel corso dei secoli e che ha raggiunto circa cento anni fa (fine del XIX secolo, ndt) i propri confini geopolitici naturali»9. Secondo i piani previsti da Zjuganov, la riunificazione, su basi volontarie, dovrà avvenire tra i «tre popoli fraterni» della «Grande Russia, della Piccola Russia e della Russia Bianca», ovvero tra le popolazioni di Russia, Ucraina e Bielorussia che condividono quasi interamente le stesse origini slavo-orientali e ortodosse.

Il Partito Comunista Ucraino, guidato da Pëtr Simonenko e risalito al 15% dei consensi proprio nel 2012, prevede un percorso di ripristino paritario del bilinguismo (ucraino e russo) e l’adesione del suo Paese alla già esistente Unione Doganale formata da Russia, Bielorussia e Kazakhstan. Nel programma del partito è esplicitamente sostenuto che: «La lezione derivante dal ventennio 1960-1980 dovrebbe essere quella in base a cui non sono state prese misure sufficienti per fermare la sovversione delle potenze imperialiste e i loro agenti in URSS. È stato sottovalutato il pericolo borghese del nazionalismo sciovinista, in particolare in Ucraina. Guidati e sostenuti dai servizi segreti delle potenze imperialiste, le forze dislocate tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta hanno avviato ingenti attività per cancellare il potere sovietico in Ucraina e per provocare il crollo dell’URSS e la separazione dell’Ucraina dalla Russia, cioè uno degli scopi principali dell’imperialismo»10. Il Partito Comunista Bielorusso, guidato da Igor Karpenko e presente in parlamento tra i banchi della maggioranza che sostiene il presidente della Repubblica Aleksandr Lukašenko, è stato indebolito dalle divisioni interne ma continua a svolgere un ruolo importante nel quadro politico-sociale del Paese. Nel suo programma viene ribadito che «il corso della storia rivela come la genesi del valore spirituale dei bielorussi ha avuto luogo nel contesto della mentalità slava orientale […] ciò ha determinato la tendenza al principio dell’organizzazione collettiva del lavoro e il suo contributo alla vita. Vale a dire che l’identità slavo-russa dei bielorussi è chiaramente evidente dal loro desiderio di unirsi con la Russia»11. Sia Simonenko che Karpenko erano presenti al XV Congresso del Partito Comunista della Federazione Russa e hanno ribadito la solida alleanza dei tre partiti, che ricalca in linea di massima i progetti economici, tecnologici e strategici già sussistenti tra i tre Paesi (Unione Doganale, Unione di Stato Russia – Bielorussia, Accordi di Sebastopoli ecc. …), conferendo loro maggior forza politica, ideologica e culturale qual’ora le istanze da essi promosse dovessero affermarsi definitivamente.

Il generale italiano Carlo Jean suddivide la nuova scuola geopolitica russa in tre distinti filoni12. Il primo sarebbe quello europeista o atlantista, dominante durante la fase gorbacioviana, ispirato al riformismo di Pietro il Grande, secondo cui la Russia dovrebbe guardare agli Stati Uniti e all’Europa per fuoriuscire dalla sua arretratezza in termini tecnologico-industriali. Il secondo sarebbe quello panslavo o “eurasista nazionalista”, dove la Russia viene inquadrata come centro di una civiltà eurasiatica, unica ed irriducibile, espressione del mito della Terza Roma, contrapposta alle potenze della NATO e a qualunque progetto di integrazione occidentale del Paese, spostando dunque il baricentro della nazione verso Est poiché «la Russia non ha conquistato la Siberia; è stata creata dalla Siberia»13. Il terzo sarebbe quello “eurasista internazionalista”, che intende il concetto di Eurasia in senso più ampio coinvolgendo anche Cina, India e Iran nella lotta contro l’intromissione anglo-americana nel continente.

Malgrado la forte unità politica tra i partiti comunisti delle tre repubbliche “sorelle” della Russia, dell’Ucraina e della Bielorussia e nonostante il fatto che Jean consideri uno dei testi fondamentali di Gennadij Zjuganov, ossia Geografia della Vittoria. I fondamenti della geopolitica russa, come la massima espressione del secondo filone, cioè quello panslavo, in realtà la visione geopolitica del Partito Comunista della Federazione Russa non è riducibile ad un ristretto panslavismo ma unisce nei propri documenti politici alcuni elementi del secondo e del terzo filone, adeguatamente adattati alla dialettica e alla prassi di un partito che resta, almeno nelle sue basi, un movimento di ispirazione leninista. L’internazionalismo socialista viene infatti ancora considerato da Zjuganov un parametro fondamentale nell’analisi geopolitica del pianeta e nello studio politico, economico e militare dell’imperialismo, secondo la declinazione operata da Stalin ne I Principi del Leninismo in base alla quale la natura dello scontro di classe tra forze capitalistiche e forze socialiste assume significati diversi in relazione alla funzione geopolitica svolta dai singoli Paesi nell’arena internazionale.

Inoltre l’idea di un fronte “eurasiatico” di Paesi non-allineati alla NATO composto da Russia, Cina e India non è di esclusiva pertinenza del filone neoeurasiatista né tanto meno rappresenta una novità recente nel dibattito strategico nazionale dal momento che fu addirittura introdotta alla fine degli anni Novanta dall’ex primo ministro Evgenij Primakov, al quale potrebbe persino essere attribuita la primogenitura teorica del cosiddetto gruppo dei BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), poi divenuto BRICS con l’integrazione del Sud Africa. Infine, la Repubblica Popolare Cinese è stata spesso considerata da Zjuganov un fondamentale interlocutore politico col quale i comunisti russi avrebbero dovuto recuperare il dialogo interrotto bruscamente dalla crisi sino-sovietica degli anni Sessanta e Settanta. Già nel 1998 Gennadj Zjuganov rimarcò:«Con la Cina abbiamo il più lungo confine in comune, circa seimila chilometri di frontiera, e vogliamo avere con essa anche ottimi rapporti di vicinato a lungo termine. La Cina è un partner strategico indispensabile a Oriente, un Paese che ospita sul proprio territorio un miliardo e duecento milioni di persone e che è già entrata nella trojka delle più grandi potenze mondiali. Il mio partito è molto sensibile ai rapporti tra i due Paesi e ci stiamo dando molto da fare per intesserne degli altri»14. Secondo il politico russo, in particolare, la vera arma segreta che ha permesso al Partito Comunista Cinese di mantenere una sostanziale stabilità interna sarebbe stata proprio la capacità – riassunta nella formula del “socialismo con caratteristiche cinesi” – di abbinare le caratteristiche culturali tradizionali con il marxismo evidenziando una duttilità notevole anche per quanto concerne l’integrazione tra le diverse forme di proprietà (pubbliche e private) ed impedendo al contempo che il ruolo dominante dello Stato e la funzione sociale dell’economia fossero messi in discussione15.

 

 

POTENZIARE LA DIFESA

Elemento ricorrente in tutto il pensiero geopolitico dei comunisti russi è l’esercito. Non è un caso che il XV Congresso sia cominciato il 23 febbraio, ovvero nel giorno dei Difensori della Patria (Den’ Zaščitnika Otečestva), una ricorrenza nazionale che celebra la data del primo arruolamento nelle file dell’Armata Rossa, avvenuto il 23 febbraio 1918. Il Partito Comunista della Federazione Russa ha sempre cercato di rappresentare un baluardo di riferimento politico per le Forze Armate, al punto che non pochi ufficiali di medio e alto grado sono iscritti al Partito. Nel documento congressuale pubblicato pochi giorni prima dell’avvio dei lavori, la denuncia dell’atavica corruzione interna al sistema federale russo, sempre più difficile da estirpare, non ha tuttavia risparmiato il comparto difensivo nazionale, recentemente sconvolto dallo scandalo legato alla società Oboronservice. Le critiche all’ex ministro della Difesa Anatolij Serdjukov e alla sua controversa riforma militare hanno evidenziato l’attenzione che il Partito Comunista dedica all’esercito.

L’analisi del corso postsovietico intrapreso dal pianeta e dalla Russia è spietata. Secondo Zjuganov, dopo il 1991 l’espansionismo verso Est della NATO ha dimostrato definitivamente la vera natura imperialista degli Stati Uniti e dei loro alleati. Dopo la conclusione della Guerra Fredda, la NATO non soltanto non è mai stata smantellata ma ha addirittura spostato i confini della sua area geostrategica di ben 1.000 km verso Est, accerchiando la Russia da Nord (Mar Baltico) e da Sud (Mar Nero). Se l’Ucraina e la Bielorussia dovessero essere nuovamente sconvolte da moti politici esterni o interni – sanzioni, pressioni internazionali, rivoluzioni colorate, golpe o ribaltamenti politici – esiste la seria possibilità che anche questi due Paesi possano avviare iter di integrazione nella NATO, senza considerare quelli relativi alla Finlandia e alla Georgia, già in fase di dibattimento presso il Consiglio dell’Alleanza Atlantica. A quel punto la Federazione Russa sarebbe completamente accerchiata lungo tutti i suoi confini occidentali. Inoltre, secondo quanto emerge dal documento congressuale del Partito, «gli Stati Uniti e i loro alleati stanno velocemente sviluppando nuove tipologie di armi, compresi i sistemi antimissile e le strumentazioni d’attacco ipersoniche […] la forza delle truppe dell’Alleanza nel teatro europeo è quantificabile in un volume 10-12 volte più grande di quello dell’Esercito Russo»16.

La decisione di alcuni governi europei, tra i quali anche l’Italia, di stabilire nuovi piani di riassetto strategico e militare ha dimostrato che la crisi economica non impedisce il massiccio riarmo ai Paesi occidentali e lascia supporre che i sacrifici cui i popoli europei sono e saranno chiamati attraverso la cosiddetta politica di “austerità” serviranno proprio a questo, come intuibile anche dalle frasi di circostanza con cui Robert Gates e Leon Panetta hanno presentato la dottrina della Smart Defense tra il 2011 e il 2012. Il documento del Partito Comunista della Federazione Russa lamenta con seria preoccupazione un’evidente sproporzione di forza tra la Federazione Russa e la NATO: «L’Aviazione Russa possiede circa 1.500 aeroplani intercettori e di prima linea. Ma solamente un po’ più della metà di questi possono svolgere e compiere le loro missioni di combattimento. La flotta dell’Aviazione Militare ha non più di 1.330 elicotteri da combattimento e da trasporto. Al contrario, l’Aviazione della NATO detiene circa 4.000 cacciabombardieri e più di 9.000 elicotteri. Soltanto circa il 30% della già modesta flotta dell’aviazione di lungo-raggio (denominazione che indica l’aviazione strategica in URSS e in Russia, ndt) è idoneo al volo. Tra i gravi problemi vi sono carenze catastrofiche di motori, un insignificante numero di aerei da rifornimento, la mancanza di campi d’aviazione operativi nella regione artica e la loro copertura dai possibili attacchi aerei e spaziali. Tutto ciò porta la capacità dell’aviazione strategica vicino allo zero»17.

Nello scorso mese di dicembre, una delegazione del Partito ha chiesto ed ottenuto un’urgente incontro a porte chiuse con il nuovo ministro della Difesa Sergeij Shoigu. Il contenuto di quella conversazione è ovviamente sconosciuto ma le parti si sono dette soddisfatte del confronto. Non è difficile ipotizzare cosa potrebbe aver richiesto la delegazione capeggiata da Zjuganov in quel vertice. Come ribadisce il documento congressuale: «Il Partito Comunista della Federazione Russa sta sostenendo con decisione il rafforzamento della capacità difensiva del nostro Paese. I nostri deputati stanno lavorando con solerzia su questo in Parlamento. I nostri compagni hanno un ruolo attivo nelle discussioni alla Duma di Stato sulle questioni relative alle Forze Armate e all’industria della difesa. Il Partito Comunista della Federazione Russa ha avviato una serie di dibattiti e tavole rotonde all’interno del Parlamento coinvolgendo parecchi esperti militari. I problemi di tutti i reparti militari sono stati discussi e valutazioni professionali sullo stato delle Forze Armate sono state intraprese. Specifiche raccomandazioni sulle vie da percorrere per migliorare le condizioni attuali sono state fornite»18.

 

 

 

 

 

NOTE:

 

1. R. Medvedev, La democrazia socialista, Vallecchi, Firenze, 1977, p. 105.

2. Ibidem, p. 63.

3. Ibidem, p. 105.

4. A. Walicki, Una utopia conservatrice, Einaudi, Torino, 1973, p. 541.

5. W. Giusti, Il panslavismo, Bonacci Editore, Roma, 1993, pp. 52-53.

6. Si veda M. Costa, Soviet e Sobornost. Correnti spirituali nella Russia Sovietica e Postsovietica, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2011.

7. Ocala Star-Banner, Shevardnadze claims Christian religion, 24 novembre 1992.

8. G. Zjuganov, Stato e Potenza, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1999, pp. 64-65.

9. Ibidem, p. 106.

10. Komunistychna Partiya Ukrayiny, Programma, 2013.

11. Komunistychnaya Partyia Belarusi, Programma, 2013.

12. C. Jean, Manuale di Geopolitica, Editori Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 224-227.

13. F. Thom, Eurasisme et néo-eurasisme, 1994, p. 308.

14. G. Zjuganov, Così rifaremo l’Urss, intervista di M. De Bonis, Limes n. 4/1998.

15. CNC World, Interview of Gennady Zyuganov – China’s Development Experience, 26 ottobre 2012.

16. Partito Comunista della Federazione Russa, Rapporto Politico del Comitato Centrale al XV Congresso del PCFR, Mosca, Febbraio 2013.

17. Ibidem.

18. Ibidem.


I DUE GIGANTI ASIATICI SULL’ORLO DI UNA CRISI DIPLOMATICA

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Le isole Senkaku (o Diaoyutai secondo i Cinesi), sono un arcipelago di cinque isole situate nel Mar Cinese orientale, all’interno di un’area pari a 7 km²; oggetto di una disputa territoriale che contrappone il Giappone, la Repubblica Popolare Cinese e Taiwan, esse si trovano attualmente sotto la giurisdizione giapponese.

La controversia ha acquisito maggiore importanza sulla scena internazionale con la fine della guerra fredda, ma le origini del conflitto risalgono al XIX secolo. Per comprendere a fondo la questione è quindi necessario indagarla innanzitutto dal punto di vista storico, analizzando le differenti tesi presentate dagli antagonisti. Secondo la versione di Tokyo, il Giappone ha acquisito la sovranità delle isole nel 1895, in seguito alla vittoria nel primo conflitto sino-giapponese, in osservanza delle norme del diritto internazionale che riguardano l’occupazione di terre disabitate. I rilievi effettuati avevano infatti confermato che le isole erano disabitate e che non erano mai state sotto l’autorità cinese. Nel 1945, in seguito alla sconfitta giapponese nella seconda guerra mondiale, le isole furono poste sotto l’amministrazione degli Stati Uniti, pur rimanendo formalmente soggette alla sovranità giapponese.

La controversia si riaccese con maggior vigore nel 1969, quando la Commissione economica e sociale per l’Asia e il Pacifico delle Nazioni Unite identificò potenziali riserve di petrolio e gas in prossimità delle isole. Nel ’72, in osservanza del Trattato di pace di San Francisco del ’51[1], le isole tornarono sotto il controllo dell’amministrazione giapponese. Ma la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica di Taiwan non riconobbero la sovranità giapponese sulle isole, non essendo firmatarie del trattato di pace e non riconoscendone quindi la validità.

Taiwan protestò ufficialmente contro gli Stati Uniti per l’assegnazione delle Senkaku al Giappone e gli Stati Uniti si mantennero formalmente neutrali, affermando che non vi erano state pronunce sul diritto di sovranità, ma che era solo stato restituito a Tokyo il diritto di amministrazione.

La sovranità sulle isole garantirebbe il diritto esclusivo di sfruttamento delle riserve di gas e olio minerale, nonché il controllo sulle rotte nautiche della zona. È chiaro che la controversia presenta un aspetto economico rilevante, poiché secondo le stime più recenti al largo del Mar Cinese Orientale si troverebbero ingenti riserve di petrolio,stimate pari a 100-200 miliardi di barili, che assicurerebbero risorse energetiche ad entrambi i paesi almeno per i prossimi 50 anni[2].

Nel settembre dello scorso anno, l’ex Primo ministro giapponese Yoshihiko Noda ha nazionalizzato tre delle cinque isole dell’arcipelago, riaccendendo la crisi diplomatica. La Cina ha denunciato il carattere anticinese di tale mossa, che mira a rafforzare il controllo dell’arcipelago da parte di Tokyo.  Il governo giapponese sostiene invece che l’atto di acquisizione territoriale rientra in un normale trasferimento di proprietà da un privato allo Stato ed è conforme quindi alle leggi del paese.

Col crescere delle tensioni, nello scorso dicembre velivoli giapponesi e cinesi hanno sorvolato contemporaneamente gli spazi aerei sovrastanti le isole. La situazione ha messo in allarme il governo statunitense, che ha assunto il ruolo di intermediario. Gli Stati Uniti tuttavia non possono esercitare un semplice ruolo di mediazione, essendo vincolati al Giappone da un Trattato di sicurezza sottoscritto nel ’60. L’articolo 5 del trattato prevede infatti l’intervento militare statunitense nel caso in cui Tokyo subisca un attacco armato.

È chiaro che gli Stati Uniti guardano con particolare attenzione alla situazione del Pacifico, ipotizzando il loro ingresso in un eventuale conflitto armato, nonostante abbiano sempre affermato di non volersi pronunciare sul diritto di sovranità e di non voler entrare nel merito della controversia.

Lo scorso 30 gennaio, stando a fonti militari giapponesi, una nave militare cinese avrebbe navigato per 14 ore nelle acque che circondano l’arcipelago. Il Giappone ha parlato di un’intrusione “assolutamente inaccettabile” e ha prontamente convocato l’ambasciatore cinese.

La disputa assume quindi una rilevanza fondamentale sul piano della sicurezza, potendo influire sugli equilibri geopolitici della regione nel caso di un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti.

Attualmente gli effetti più negativi si stanno registrando dal punto di vista economico. Diverse aziende giapponesi operanti in Cina hanno deciso infatti di sospendere la produzione dopo le proteste esplose nel paese e dopo i ripetuti inviti al boicottaggio contro i prodotti provenienti dal Giappone.

In seguito agli episodi degli ultimi mesi la rottura diplomatica sembra essere sempre più vicina e il ruolo degli Stati Uniti appare più determinante.

Lo scorso 22 febbraio il presidente degli Stati Uniti si è incontrato con il Primo ministro giapponese Shinzo Abe, allo scopo di rafforzare l’alleanza con gli Stati Uniti sia dal punto di vista economico sia della sicurezza. Lo stesso Abe, in un’intervista rilasciata al “Washington Post” prima della partenza, ha affermato che l’incontro bilaterale con gli Stati Uniti è di fondamentale importanza per il futuro equilibrio in Asia. Durante l’incontro il primo ministro giapponese, Abe ha riaffermato di non essere disposto a tollerare attacchi da parte cinese sull’arcipelago delle Senkaku, e che qualsiasi attacco provocherebbe inevitabilmente l’alleanza difensiva del  Giappone con gli Stati Uniti, evocando in tal modo un conflitto dalle proporzioni inimmaginabili.

Nonostante i toni diplomatici, Abe ha sostenuto la sovranità giapponese sul territorio ed ha presentato l’alleanza tra Giappone e Stati Uniti come un fattore di stabilità per l’intera regione.  Anche il presidente Obama si è ancora una volta dichiarato “neutrale” circa la disputa territoriale nella regione, ma ha sostenuto la sovranità giapponese sulle isole.

In ogni caso, la controversia evidenzia la sempre maggior fermezza con cui la Cina difende le proprie rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Orientale.

 

 


[1] Trattato sottoscritto a San Francisco l’8 Settembre 1951 da 49 Paesi firmatari della pace con il Giappone. Con questo trattato inizia formalmente il protettorato degli Stati Uniti sul Giappone e viene sancita la fine della Seconda Guerra Mondiale in Asia.

[2] http://www.policymic.com/articles/11175/senkaku-islands-dispute-pushes-japan-and-china-closer-to-war-and-america-may-get-sucked-in

 
http://www.washingtonpost.com/world/japans-prime-minister-shinzo-abe-chinese-need-for-conflict-is-deeply-ingrained/2013/02/20/48adbc80-7a87-11e2-9a75-dab0201670da_story.html

 
http://www.economist.com/news/leaders/21569740-risks-clash-between-china-and-japan-are-risingand-consequences-could-be

 

http://www.globalsecurity.org/military/world/war/senkaku.htm


INFORMAZIONE, COMUNICAZIONE E CULTURA. COSÌ PECHINO SFIDERÀ L’EGEMONIA STATUNITENSE

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Uno dei più importanti strumenti nelle relazioni internazionali dei nostri giorni è il soft-power e in generale tutto quanto collegato alla sfera della comunicazione e dell’attrattiva culturale. A partire dalla fine degli anni Ottanta, l’informazione e la comunicazione sono diventati fattori sempre più importanti all’interno delle strategie politiche delle maggiori nazioni. Molti analisti sono soliti riferirsi alla Guerra del Golfo come all’inizio di una nuova epoca. Per la prima volta nella storia dell’umanità, infatti, una guerra fu completamente filmata e proposta dal vivo in diretta televisiva. Il significato del termine “guerra simultanea” divenne immediatamente chiaro, non soltanto per la contemporaneità tattico-operativa tra le tre classiche dimensioni del conflitto moderno (terra, aria e mare) ma anche per l’integrazione, sempre più evidente, tra la guerra e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). Come per qualsiasi trasformazione nell’alveo del pensiero strategico, anche in quel caso la pratica anticipò la teoria e le nuove condizioni storiche produssero una delle più discusse teorie dei nostri tempi: quella del network-centric warfare.

Nel loro libro del 1999 Network-Centric Warfare. Developing and Leveraging Information Superiority, David Alberts, John Gartska e Fred Stein definirono l’era informatica come un’era dove «le armi non sono i soli strumenti del potere», poiché «l’informazione, come si è spesso osservato, è potere […] le tecnologie informatiche stanno oltremodo migliorando la nostra capacità di acquisire e memorizzare dati, elaborandoli ed analizzandoli per creare informazione e distribuirla su larga scala». In poche parole, «l’informazione si sta trasformando da prodotto relativamente raro in uno abbondante;  da bene costoso sta diventando assolutamente economico; da risorsa sottoposta al controllo di pochi sta diventando un mezzo quasi universalmente accessibile». Malgrado un generale ottimismo, i tre autori sollevarono anche diversi dubbi circa i possibili pericoli principali collegati a queste nuove condizioni storiche, quali ad esempio la proliferazione delle armi di distruzione di massa nel mondo, l’emersione di nuove imprevedibili minacce in termini di sicurezza collettiva e il crimine informatico.

Tale quadro generale fu effettivamente capace di descrivere in modo quasi perfetto lo scenario asimmetrico sorto qualche anno dopo la fine della Guerra Fredda. La caduta dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia lasciarono la massa eurasiatica (dai Balcani alle steppe dell’Asia Centrale) priva di qualsiasi controllo politico e militare, aumentando in maniera allarmante le capacità di guerriglia del terrorismo in Afghanistan, in Uzbekistan, in Tagikistan, in Cecenia, in Azerbaigian e nelle regioni a maggioranza islamica dei Balcani (Bosnia e Kosovo). Durante gli anni Novanta, il terrorismo di matrice wahabita e salafita acquisì capacità logistiche sempre maggiori e l’Undici Settembre fu la terribile logica conseguenza di una situazione mondiale così profondamente caotica.

Tuttavia, le numerose crisi regionali nei Balcani e nello spazio postsovietico hanno prodotto non soltanto un crescendo dei fenomeni legati al terrorismo internazionale ma anche una tendenza relativamente nuova, connessa alla cosiddetta geopolitica del caos: le rivoluzioni colorate. Malgrado l’apparente carattere democratico e libertario delle rivendicazioni annunciate dai loro protagonisti, queste ribellioni, spesso promosse da organizzazioni non governative occidentali, hanno in realtà diffuso violenza, estremismo e sciovinismo nazionale all’interno di moltissimi Paesi dell’Europa Orientale e dell’Asia, mettendo drammaticamente in evidenza il profilo più pericoloso delle tecnologie informatico-comunicative. Durante quegli anni l’evidente differenza di percezione politica tra Occidente e Oriente ha riprodotto un clima da Guerra Fredda su basi del tutto diverse dal passato. Non più missili balistici o eserciti contrapposti nelle strade di Berlino ma una nuova dimensione psicologico-mediatica dove, secondo la vulgata occidentale, la Russia di Vladimir Putin poteva essere tratteggiata come una versione moderna del vecchio “Orso Sovietico”, pronta ad inghiottire l’Ucraina, la Georgia o il Kirghizistan, nazioni dove alcuni giovani sarebbero stati pronti a manifestare pacificamente per ottenere libertà e democrazia contro governi “corrotti” e “dipendenti da Mosca”. Durante una visita negli Stati Uniti d’America, l’ex presidente georgiano Mikheil Saakashvili, salito al potere proprio durante la “rivoluzione delle rose” di Tbilisi nel 2003, ha recentemente accostato l’intervento russo in Ossezia del Sud agli interventi sovietici in Cecoslovacchia e in Afghanistan, senza ricordare che per gli ultimi quattro anni il suo partito ha governato in condizioni di democrazia sospesa per effetto di un parlamento semideserto a causa del boicottaggio organizzato dalle opposizioni. Allo stesso modo, il governo cinese viene regolarmente accusato di essere responsabile per il presunto massacro di Piazza Tien An Men del 1989 – un avvenimento che in realtà non si è mai verificato – o di non rispettare i diritti umani in Tibet e nello Xinjiang, proprio dove – al contrario – le popolazioni locali stanno in realtà godendo di progressi sociali, economici e culturali mai visti prima del 1949.

Nel 1997, il presidente Jiang Zemin ha affermato che l’ideologia dei diritti umani è diventata un’arma geopolitica usata per interferire negli affari interni dei Paesi in via di sviluppo. Non era affatto lontano dalla verità. Nonostante l’incessante manipolazione della realtà, queste forze oscure continuano ad utilizzare la loro falsa propaganda filantropica con lo scopo di destabilizzare le società, servendosi del determinante sostegno dei più importanti mezzi di comunicazione di massa. Negli anni Ottanta, il presidente Deng Xiaoping ha sottolineato che il Partito Comunista Cinese non condanna a priori alcuna forma di sviluppo nei Paesi capitalisti come negativa e che le politiche di riforma e apertura sarebbero state indirizzate all’acquisizione di tecnologia avanzata, scienza e gestione efficiente, ovverosia elementi fondamentali anche in un Paese ad orientamento socialista.

Tra questi ovviamente le applicazioni legate al mondo delle tecnologie di informazione e comunicazione assumono un’importanza estremamente significativa. Durante il 17° Congresso del Partito Comunista Cinese (2007), il presidente Hu Jintao affermò: «La cultura è diventata una risorsa via via più importante per la coesione nazionale e per la creatività, e rappresenta un fattore di crescente rilevanza nello sviluppo della forza nazionale complessiva». Durante il 18° Congresso (2012), il presidente Hu ha invece rimarcato l’importanza delle tecnologie dell’informazione e del piano di modernizzazione dei sistemi della difesa e della comunicazione.

Già nel 2011 il supercomputer Tianhe-1 è stato classificato come l’elaboratore più sofisticato del mondo ed il primato raggiunto dalla Repubblica Popolare Cinese nel campo della tecnologia informatica è apparso in tutta la sua chiarezza. Dal 2012, con la messa in attività di Sunway BlueLight, che utilizza processori nazionali, i supercomputer di livello petaflop operanti in Cina sono diventati tre: Tianhe-1 a Tianjin, Nebulae a Shenzhen e Sunway BlueLight a Jinan. L’importanza strategica di questi sistemi operativi speciali non risiede soltanto nella scontata capacità gestionale in termini strettamente computazionali ma anche nella loro applicazione ai più significativi campi dei settori ingegneristico-militari, economico-manageriali e meccanico-industriali.

Sul lato delle tecnologie della comunicazione, invece, il lancio del canale radiotelevisivo CCTV-News nel 2000 e la fondazione degli Istituti Confucio in numerosi atenei di tutto il mondo, avviata nel 2004, costituiscono primi essenziali passi nella direzione dell’aumento del soft-power. Oggi molti cittadini occidentali hanno la possibilità di conoscere la percezione politica della Cina e il punto di vista del Paese asiatico in relazione ai principali fatti internazionali, tuttavia il lavoro è solo all’inizio. I pregiudizi sono ancora forti e la maggior parte della classe dirigente e della popolazione in Europa non riescono a vedere nella Cina una potenza mondiale pienamente matura e responsabile. Sarà, invece, importante capire che la Cina non è semplicemente un mercato emergente, ma può avvantaggiarsi di un’eredità culturale e filosofica unica, seconda a nessuno e mai seriamente indebolita dal recente sviluppo economico.

 

EMIGRAZIONE DAL MAGHREB ALL’UNIONE EUROPEA. UNA VISIONE D’INSIEME ALL’INIZIO DEL SECOLO XXI

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 Riassunto

Le relazioni tra il Maghreb e l’Europa sono di lungo periodo e caratterizzate da molteplici aspetti. Vari elementi possono comprovare ciò: il Mediterraneo come spazio condiviso dove influssi culturali differenti si incontrano durante i secoli, la dominazione coloniale, gli interessi strategici ed economici europei nell’Africa del nord, l’attenzione che l’Unione europea ha nei confronti di quest’ultima regione. In ogni caso, al fine di osservare le relazioni tra Maghreb ed Unione europea nel contesto contemporaneo, è possibile identificare altri – meno “ufficiali”, ma non meno importanti – legami tra le due sponde del Mar Mediterraneo. A tal riguardo, l’emigrazione gioca un ruolo importante e lo scopo del presente articolo è quello di fornire una visione d’insieme di tale fenomeno agli inizi del secolo corrente.

 

 

 

Introduzione

«La regione mediterranea è cruciale per l’UE»[1]. La seguente chiarificazione – anno 2008 – potrà essere utile: «L’area coperta dalla Partnership Euro-Mediterranea dell’UE (Processo di Barcellona) e dalla Politica Europea di Vicinato comprende Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Autorità Palestinesi, Siria e Tunisia, con la Libia come osservatore. In quanto tale, ciò che l’UE classifica come Mediterraneo include anche molti paesi normalmente considerati come situati in Medio Oriente»[2].

Una parte essenziale della regione è composta dai paesi del Maghreb che si affacciano sul Mare Nostrum. Tra questi stati ed il continente europeo vi è, prima di tutto, un legame storico rilevante, essendo il potere coloniale stato, per decadi, elemento decisivo nella storia contemporanea dell’area geografica maghrebina. Oggi, l’Europa ha in tale regione interessi strategici ed economici. Non possiamo, ad esempio, dimenticare le risorse di idrocarburi a sud del Mediterraneo. A tal riguardo, è possibile far riferimento ad un aspetto dei rapporti tra un paese europeo come l’Italia ed alcuni stati nordafricani: «L’Italia, quarto importatore mondiale di gas naturale, ricava il 33% del suo fabbisogno dalle riserve algerine e libiche (dati ENI), e la presenza di aziende italiane operanti nel settore è particolarmente forte. I legami energetici con l’Algeria sono pluridecennali: il primo gasdotto, il Transmed, fu costruito tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, ed è gestito dall’ENI e dalla Sonatrach, la compagnia petrolifera statale algerina»[3].

Al di là delle questioni legate alle risorse naturali[4], tra il Maghreb ed i paesi europei, ci sono importanti relazioni commerciali e, certamente, l’Unione europea ha dato vita ad iniziative concernenti aspetti disparati ed indirizzate anche – ma non solo – alla parte di Africa settentrionale sulla quale concentreremo – in questa sede – la nostra attenzione. Nel 1995, viene lanciato il Processo di Barcellona, formando «la base della Partnership Euro-Mediterranea che si è ingrandita ed evoluta nell’Unione per il Mediterraneo»[5]. Le tre principali dimensioni del partenariato sono: Dialogo Politico e Sicurezza; Partnership Economica e Finanziaria; Partnership Sociale, Culturale ed Umana. In campo economico abbiamo l’attività più concreta, con l’obiettivo della «graduale creazione di un’area di libero scambio»[6]. Chiaramente, la maggior forza dell’industria europea, come i limiti alle importazioni di prodotti agricoli nell’UE, hanno portato al Vecchio Continente i benefici maggiori. Nel 2004 viene introdotta la PEV[7]. «La Politica Europea di Vicinato (PEV), istituita ufficialmente nel 2004, mira ad armonizzare le politiche di vicinato degli stati membri, facendo da complemento alle politiche nazionali con una politica dell’UE, ed iniziando una strategia completa di buon vicinato, specialmente verso l’Europa mediterranea ed orientale»[8].

Vi è, in ogni caso, un importante fenomeno che lega la sponda settentrionale e quella meridionale del Mar Mediterraneo. Un fenomeno da non dimenticare se si intende considerare seriamente le “connessioni” reali tra le due regioni. Le prossime pagine serviranno a fornire un quadro d’insieme dell’emigrazione dal Maghreb all’Unione europea all’inizio del secolo ventunesimo.

 

 

 

 

 

Unione europea, Maghreb ed emigrazione

Nel contesto del Processo di Barcellona e della PEV, dal 2005, l’emigrazione è inclusa  «come quarto pilastro chiave della Partnership»[9]. In ogni caso, I flussi migratori da paesi terzi del Mediterraneo non sembrano essere ancora oggetto di una reale politica comune europea.

Per avere un’idea sull’importanza della presenza in Europa di persone originarie del Maghreb, sul finire del secolo trascorso, possiamo dare uno sguardo alla seguente tabella:

 

 

Presenza dei Maghrebini nei principali paesi europei (in migliaia, fine 1990)[10]

 

Nazionalità

Belgio

Francia

Germania

Paesi Bassi

Italia

Spagna

Algerini

10,7

619,9

7,4

0,6

4,0

1,1

Marocchini

141,7

584,7

69,6

156,9

78,0

28,2

Tunisini

6,4

207,5

26,1

2,6

41,2

0,4

 

Fonte: Eurostat

 

 

Per quanto attiene all’immigrazione nell’UE, il Maghreb ha una doppia importanza: è un’area di transito ed una regione di emigrazione esso stesso, chiaramente con differenze tra i paesi che lo compongono. Il Marocco, ad esempio, per la sua posizione geografica e per la sua storia, appare come un «trait-d’union, un punto di equilibrio tra influenze del nord e del sud»[11]. Allo stesso modo di altri paesi mediterranei, il Marocco è percepito dall’UE come zona di origine di emigranti ed, allo stesso tempo, come area di passaggio. Si tratta di un tipo di percezione che porta l’Unione europea ad incoraggiare gli stati del Mediterraneo a sviluppare alcune politiche concernenti asilo e flussi migratori simili a quelle europee[12].

L’emigrazione nordafricana alla quale intendiamo prestare, in tal sede, attenzione non è un fenomeno recente. Osserviamo la seguente tabella, riguardante il numero di «Algériens» in Francia a partire dagli anni Venti del Novecento:

 

 

  Algé-

riens*

Total

Général**

1921 38 000 1 532 000
1926 72 000 2 505 000
1931 105 000 2 714 697
1936 87 000 2 198 236
1946 22 114 1 743 619
1954 211 675 1 765 298
1962 305 484 2 169 665
1968 471 020 2 664 060
1975 710 690 3 442 415
1982 795 920 3 680 100

 

 

* «Fino alla Seconda guerra mondiale, le cifre indicano il totale degli individui originari dell’Africa (dal 1926 al 1936, questo gruppo costituisce la quinta comunità immigrata in Francia, la quale non è però contabilizzata nel totale 1, tenuto conto della sua eterogeneità giuridica ed etnica).
Dal 1946 al 1962, si tratta dei musulmani di origine algerina, ma giuridicamente francesi».
Fonte: Gérard Noiriel, Population, immigration et identité nationale en France XIX-XX siècle, Hachette, Paris 1992, p. 70.

** Il «Total général» concerne tutti gli abitanti che non hanno la cittadinanza francese ma vivono nell’Esagono (Francia).

 

 

E’ importante considerare che l’emigrazione dal Maghreb all’Europa affonda una delle prime radici nel passato coloniale. A. Sayad lega al sistema di tal periodo l’emigrazione algerina in Francia, considerando che, prima dell’indipendenza, i flussi migratori erano gestiti da Parigi sulla base delle esigenze del mercato del lavoro francese[13]. Chiaramente, il vincolo di dipendenza creato durante le decadi precedenti, da un punto di vista culturale ed economico, non può sparire in breve tempo e continua a tradursi, anche, in flussi di emigrazione verso l’antico paese colonizzatore.

B. Hamdouch and M. Khachani spiegano che, dagli anni Sessanta del Novecento, l’emigrazione dal Maghreb assume la forma di un vero fenomeno di massa, con un’importante evoluzione e dinamiche differenti tra i paesi dell’area[14]. Secondo la linea interpretativa suggerita dai due autori e dalla prima tabella da essi proposta, la scelta di lasciare il Maghreb per l’Europa esprime disparità economiche tra le due rive del Mediterraneo.

 

 

Reddito per abitante dei  principali paesi di arrivo di  migranti nel 2000

(in migliaia di dollari)[15]

 

Gran Bretagna

Paesi Bassi

Germania

Belgio

Francia

Italia

Spagna

Algeria

Marocco

Media mondiale

23,80

23,00

22,60

22,10

21,80

18,60

14,50

1,59

1,18

5,20

 

Fonte : Rapporto della Banca Mondiale, 2002

 

 

All’inizio del Millennio, il PIL (prodotto interno lordo) pro capite di paesi come Marocco ed Algeria è nettamente più basso rispetto a quello medio di importanti paesi europei di immigrazione[16]. In Marocco, ad esempio, le province del nord costituiscono un’importante area di emigrazione a causa di una situazione economica precaria.

In ogni caso, nonostante una certa instabilità economica[17] (ed una conseguente instabilità del mercato del lavoro), la regione maghrebina continua a presentare una demografia forte. Ciò si traduce in una offerta di lavoro maggiore rispetto alle esigenze dei mercati nazionali. Il risultato è un alto tasso di disoccupazione, che colpisce principalmente le persone giovani[18].

Al di là delle carenze riguardanti lo sviluppo economico da cui un paese è normalmente colpito dopo anni di governo coloniale, le economie del Maghreb hanno conosciuto gli effetti di periodi difficili come la crisi della fine degli anni Settanta e le conseguenze economiche della crisi del Golfo. Inoltre, la progressiva liberalizzazione del commercio ha posto maggiori ostacoli alle imprese locali ed ha contribuito alla perdita di posti di lavoro.

In Maghreb, l’emigrazione è connessa ad un tasso di povertà significativo. A titolo di esempio, è possibile osservare la seguente tabella, riguardante il contesto marocchino tra la metà degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta:

 

 

Proporzione dei Marocchini che vivono al di sotto della soglia di povertà[19]

 

1984-85 1990-91 1998-99
Urbain 13,8 7,6 12,0
Rural 26,7 18,0 27,2
Total de la population 21,1 13,1 19,0

 

                                         Fonte: Direction de la statistique

 

Il 70% degli emigranti marocchini risulta andare via per ragioni economiche[20]. Queste persone decidono di partire per trovare un lavoro meglio retribuito o, semplicemente, per cercare un’occupazione e migliorare il proprio standard di vita. In tale contesto, il contributo delle rimesse acquisisce una forte importanza.

Nelle relazioni tra Europa e Maghreb, l’elemento geografico ha la sua rilevanza. La prossimità tra le due regioni spiega una parte degli interessi europei nel voler includere il Maghreb in un’efficace politica di vicinato, in particolar modo al fine di promuovere il libero mercato e la stabilità politica.

La prossimità spaziale gioca un ruolo anche nelle dinamiche migratorie. E’, infatti, usuale che delle persone che decidono di emigrare siano attratte da una regione vicina e più ricca. La distanza tra l’Europa e le coste marocchine è di circa 14 chilometri[21]. Molte sono le persone giovani che si assumono il rischio di attraversare lo Stretto di Gibilterra con imbarcazioni di fortuna ed elevato risulta essere il numero di vittime[22]. Inoltre, in un simile quadro, reti organizzative strutturate – cui gli emigranti pagano somme molto elevate – danno un forte impulso all’emigrazione illegale.

Come detto in precedenza, l’immigrazione proveniente da paesi terzi del Mediterraneo non si presenta ancora come l’oggetto di una reale politica comune europea. Esistono degli accordi bilaterali: «Come parte del processo di partenariato euro-mediterraneo, è stata fondata una nuova generazione di accordi bilaterali tra la Comunità europea ed i suoi Stati membri, da un lato, ed i paesi della partnership mediterranea dall’altro. Questi rimpiazzano la prima generazione di accordi, ad esempio gli accordi di cooperazione degli anni Settanta»[23]. Tra il 1998 ed il 2005, l’Unione europea ha concluso sette Accordi euro-mediterranei di associazione. Tra questi, c’è un accordo con la Repubblica algerina democratica e popolare, uno con il Regno del Marocco ed uno con la Repubblica tunisina. Se diamo uno sguardo agli accordi con Algeria e Marocco, notiamo che un sistema di non discriminazione (in merito a condizioni di lavoro, remunerazione, licenziamento) è previsto per le persone originarie di questi paesi e che vivono negli stati dell’UE. Si tratta di una non discriminazione reciproca[24] e che fa riferimento anche ai sistemi di welfare. Rispetto a quest’ultimo punto, ad esempio, si prevede che i lavoratori provenienti da Algeria e Marocco che vivono in uno stato membro dell’UE, come i membri – conviventi – delle loro famiglie, godano, da parte del sistema previdenziale, di un trattamento caratterizzato dall’assenza di qualsiasi discriminazione basata sulla cittadinanza[25]. Inoltre, i lavoratori algerini e marocchini stabilitisi negli stati europei membri beneficiano del libero trasferimento nel loro paese d’origine di pensione o assegno di disabilità.

In termini generali, gli accordi menzionano il dialogo sui flussi migratori e sull’immigrazione illegale; il dialogo e la cooperazione per migliorare le condizioni di vita e creare lavoro ed opportunità di formazione professionale nelle aree di provenienza degli emigranti.

In ogni caso è possibile osservare come, in merito all’emigrazione dal sud al nord del Mediterraneo, il Processo di Barcellona e gli Accordi di associazione rimangano ad un livello generale. Il fenomeno migratorio necessiterebbe di una maggiore attenzione e di un serio approccio politico, al fine di dare a coloro che arrivano nell’Unione europea concrete opportunità professionali e di integrazione e di non lasciare queste persone nei circuiti dell’emigrazione illegale. Per quanto attiene al Partenariato euro-mediterraneo, questi dovrebbe costituire, a nostro avviso, un punto di partenza per stimolare lo sviluppo economico nei paesi mediterranei non europei, dando alle persone una reale opportunità di scegliere dove vivere e lavorare (nella propria regione d’origine o altrove). Ciò contribuirebbe ad evitare che persone provenienti da aree meno ricche continuino ad alimentare una forza lavoro sfruttabile – e più vulnerabile – atta a svolgere lavori più duri e meno pagati.

 

 

 

 

Bibliografia

N. Berger, La politique européenne d’asile et d’immigration. Enjeux et perspectives, Bruylant, Bruxelles, 2000.

Hassan Bousetta, Sonia Gsir et Marco Martiniello, Les migrations marocaines vers la Belgique et l’Union européenne. Regards croisés, Actes de la journée d’étude organisée dans le cadre du Pôle d’Attraction Interuniversitaire (PAI) par le CEDEM le 17 février 2004, Hummanitariannet-CEDEM-IMISCOE, Publications de l’Université de Deusto, Bilbao 2005.

Abdellatif Fadloullah, Colonizzazione ed emigrazione in Maghreb, in  R. Cagiano de Azevedo, “Migration et coopération au développement, études démographiques n° 28″, Direction des affaires sociales et économiques, edizioni del Consiglio d’Europa, 1994, http://www.cestim.it/argomenti/11devianza/carcere/due-palazzi/studi_explorer_%201%20-%204/pagine%20web/colonizzazione_ed_emigrazione_in.htm

B. Hamdouch, M. Khachani, Les déterminants de l’émigration internationale au Maghreb, in Les migrations internationales. Observations, analyse et perspectives, Colloque international de Budapest (Hongrie, 20-24 septembre 2004), Numéro 12, Association internationale des démographes de langue française, AIDELF.

Larbi Jaidi, Statut avancé entre l’UE et le Maroc: un nouveau mode de partenariat ?, in Afkar/idées. Revue trimestrielle pour le dialogue entre le Maghreb, l’Espagne et l’Europe, http://www.afkar-ideas.com/fr

Stephan Keukeleire and Jennifer MacNaughtan, The foreign policy of the European Union, Palgrave and McMillan, 2008.

Maghreb. Altra sponda dell’Europa, ICEI Istituto Cooperazione Economica Internazionale, ong del Cocis, I fascicoli dell’Icei n. 2 – Gennaio 2002.

Maghreb: i rapporti economici con l’Italia, in Equilibri.net, 25/01/2010.

Andrew Mold (ed.), EU Development Policy in a Changing World. Challenges for the 21st Century, Amsterdam University Press, 2007.

Gérard Noiriel, Population, immigration et identité nationale en France IX-XX siècle, Hachette, Paris 1992.

Reimund Seidelmann, The EU’s neighbourhood policies, in Mario Telo (edited by) The European Union and Global Governance, Rotledge, 2009.

P.-J Thumerelle, A propos de l’immigration algérienne en France, in «Espace, population, société», II, 1983.

Euro-Mediterranean Agreement establishing an association between the European Communities and their Member States, of the one part, and the Kingdom of Morocco, of the other part (2000).

Euro-Mediterranean Agreement establishing an association between the European Communities and their Member States, of the one part, and the People’s Democratic Republic of Algeria, of the other part (entered into force in 2005).

 

 

 

* Angelo Tino. Laurea specialistica in Studi Europei presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Master complémentaire en analyse interdisciplinaire de la construction européenne presso l’Institut d’Études Européennes dell’Université Libre de Bruxelles.

 

 

 


 

[1] Andrew Mold (ed.), EU Development Policy in a Changing World. Challenges for the 21st Century, Amsterdam University Press, 2007, p. 87.

[2] Stephan Keukeleire and Jennifer MacNaughtan, The foreign policy of the European Union, Palgrave and McMillan, 2008, p. 274.

[3] Maghreb: i rapporti economici con l’Italia, in Equilibri.net, 25/01/2010.

[4] Riguardo le risorse naturali del Maghreb, è importante tenere in considerazione che «le terre del Maghreb vantano risorse minerarie significative che rappresentano per l’Algeria il 23,7% del prodotto interno lordo (PIL), l’11% per la Tunisia, e il 5% per il Marocco» (Maghreb. Altra sponda dell’Europa, ICEI Istituto Cooperazione Economica Internazionale, ong del Cocis, I fascicoli dell’Icei n. 2 – Gennaio 2002, p. 15).

[5] European Union External Action, http://eeas.europa.eu/euromed/barcelona_en.htm .

[6] Ibidem.

[7] «Con l’introduzione della Politica Europea di Vicinato (PEV) nel 2004, il Processo di Barcellona è divenuto essenzialmente il forum multilaterale di dialogo e cooperazione tra l’UE ed i suoi partner mediterranei mentre le relazioni bilaterali complementari sono gestite principalmente sotto la PEV ed attraverso gli Accordi di associazione firmati con ogni paese partner» (ibidem).

[8] Reimund Seidelmann, The EU’s neighbourhood policies, in Mario Telo (edited by) The European Union and Global Governance, Rotledge, 2009, p. 261.

[9] Ibidem. In ogni caso, se leggiamo il documento del First Euro-Mediterranean Ministerial Meeting on Migration, (Algarve – 18, 19 November 2007), http://www.eu2007.pt/NR/rdonlyres/8D86D66E-B37A-457E-9E4A-2D7AFF2643D9/0/20071119AGREEDCONCLUSIONSEuromed.pdf , non troviamo decisioni molto energiche.

[10] Abdellatif Fadloullah, Colonizzazione ed emigrazione in Maghreb, in  R. Cagiano de Azevedo, “Migration et coopération au développement, études démographiques n° 28″, Direction des affaires sociales et économiques, edizioni del Consiglio d’Europa, 1994, http://www.cestim.it/argomenti/11devianza/carcere/due-palazzi/studi_explorer_%201%20-%204/pagine%20web/colonizzazione_ed_emigrazione_in.htm

[11] Larbi Jaidi, Statut avancé entre l’UE et le Maroc : un nouveau mode de partenariat ?, in Afkar/idées. Revue trimestrielle pour le dialogue entre le Maghreb, l’Espagne et l’Europe, p. 22, http://www.afkar-ideas.com/fr

[12] Si può fare riferimento ad Hassan Bousetta, Sonia Gsir et Marco Martiniello, Les migrations marocaines vers la Belgique et l’Union européenne. Regards croisés, Actes de la journée d’étude organisée dans le cadre du Pôle d’Attraction Interuniversitaire (PAI) par le CEDEM le 17 février 2004, Hummanitariannet-CEDEM-IMISCOE, Publications de l’Université de Deusto, Bilbao 2005, p. 106. E’ possibile trovare il lavoro menzionato in rete.

[13] Cfr. P.-J Thumerelle, A propos de l’immigration algérienne en France, in «Espace, population, société», II, 1983.

[14] Cfr., B. Hamdouch, M. Khachani, Les determinants de l’émigration internationale au Maghreb, in Les migrations internationales. Observations, analyse et perspectives, Colloque international de Budapest (Hongrie, 20-24 septembre 2004), Numéro 12, Association internationale des démographes de langue française, AIDELF.

[15] Nostra fonte: ibidem, p. 210

[16] Chiaramente, in ogni paese ci sono differenze tra le varie categorie sociali e regioni.

[17] Hamdouch and Khachani osservano: «E’ il settore primario che condiziona il ritmo della crescita economica, gli idrocarburi in Algeria e l’agricoltura in Tunisia e Marocco. Le fluttuazioni del prezzo del petrolio sul mercato mondiale, da una parte, e la ricorrenza degli anni di siccità per gli ultimi due decenni, dall’altra, hanno avuto un impatto negativo sul ritmo di crescita» (B. Hamdouch, M. Khachani, Les determinants de l’émigration internationale au Maghreb, cit., p. 210).

[18] Hamdouch and Khachani riportano i seguenti dati: «Nei tre paesi del Maghreb, la proporzione di popolazione disoccupata aumenta. In un decennio, dal 1990 al 2000, i tassi sono passati dal 19,8% al 29,9% in Algeria, dal 12,1% al 13,7% in Marocco e dal 16,2% al 15,9% in Tunisia. Lo Stato, tradizionalmente creatore d’impiego, ha ridotto enormemente il proprio contributo al mercato del lavoro, e questa riduzione ha generato una diminuzione degli investimenti pubblici e, di conseguenza, degli impieghi» (ibidem, p. 210).

[19] Ibidem, p. 212.Dunque, il 12% parte per ragioni familiari (raggiungere i membri della famiglia all’estero), il 9% per motivi di studio, il 6% per ragioni “sociali” (ad esempio, la tendenza ad imitare e raggiungere amici che si trovano all’estero, oppure l’insoddisfazione nei confronti della situazione nella quale vivono in Marocco) [cfr., ibidem, pp. 216-217].

[20] Cfr., ibidem, p. 216.

[21] Cfr., ibidem, p. 213.

[22] Cfr., ibidem.

[23] Treaties Office Database of the European External Action Service, http://ec.europa.eu/world/agreements/prepareCreateTreatiesWorkspace/treatiesGeneralData.do?step=0&redirect=true&treatyId=229
N. Berger spiega come, nel 1976, la Comunità europea concluse due accordi di cooperazione con Algeria e Marocco. L’obiettivo generale era quello di promuovere una cooperazione globale al fine di contribuire allo sviluppo economico e sociale dei due paesi del Maghreb. Concretamente, la cooperazione è fornita in tre settori: settore economico, finanziario e tecnico; scambi commerciali; lavoratori. Per quanto riguarda i lavoratori interessati, gli accordi parlano di un regime «caratterizzato dall’assenza di ogni discriminazione fondata sulla cittadinanza per ciò che attiene alle condizioni di lavoro e di remunerazione» (N. Berger, La politique européenne d’asile et d’immigration. Enjeux et perspectives, Bruylant, Bruxelles, 2000, p. 78). Inoltre, vi è una “clausola di uguaglianza di trattamento” in merito al sistema previdenziale.

[24] La non discriminazione è valida anche per i lavoratori europei in questi paesi del Maghreb.

[25] Si tratta di non discriminazione rispetto ai cittadini degli stati europei membri nei quali i lavoratori provenienti da Algeria o Marocco sono impiegati.

IL VENEZUELA DOPO CHAVEZ

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Guida del Venezuela è scomparsa a 58 anni. Non ha avuto il tempo sufficiente per completare neanche la metà dei suoi piani. Un uomo d’azione che ha dato l’esempio alle forze di sinistra del continente. La sua scomparsa certamente rallenterà, forse temporaneamente, le riforme nell’emisfero occidentale associate al suo nome. Recatosi a Cuba per un nuovo intervento chirurgico nel dicembre 2012, ha invitato i sostenitori a restare uniti. Uniti, ha ripetuto la parola tre volte di proposito, perché è l’unità che può garantire la continuazione del suo percorso politico e la sconfitta storica delle forze guidate dall’impero degli Stati Uniti d’America. E’ stato spesso chiamato il libertador del XXI.mo secolo, in riferimento a Simon Bolivar, che combatté contro il giogo coloniale spagnolo. Ha fatto molto per liberare il Venezuela dalla dipendenza economica e politica dagli Stati Uniti: l’industria petrolifera è stata nazionalizzata, il processo d’integrazione dell’America Latina è stato accelerato. Il significato storico di Chavez sarà sempre più distinto col passare del tempo…

Il fatto che il presidente Obama abbia offerto le condoglianze al Venezuela per la morte di Chavez ed espresso la speranza per la costruzione di un rapporto costruttivo bilaterale, è stato percepito da molti come un segnale ai leader bolivariani. Una volta che Obama parla di cooperazione, non è interessato al confronto, in modo che Caracas non dovrebbe rifiutare una stretta di mano. E’ tempo per il dialogo, l’interazione e la riduzione della tensione. Ma la tranquillità ostentata di Obama va di pari passo con l’euforia vendicativa sorta a Washington. I sentimenti prevalenti nei circoli del regime statunitense sono evidenti: finalmente l’odiato caudillo è morto! La causa della sua morte deve essere ancora precisata, ma apre la strada a nuove azioni sovversive in Venezuela, per esempio, sviluppando contatti con gli avversari di Nicolas Maduro, l’uomo che Chavez ha nominato come suo successore. L’obiettivo principale dei servizi speciali degli Stati Uniti è inserire un cuneo di discordie tra i leader venezuelani, destabilizzare la situazione, rafforzare l’opposizione, in particolare l’ala radicale, e farle cercare vendetta. Le note di pacificazione nelle parole di cordoglio di Washington non sono altro che una cortina di fumo per un’operazione multifase volta a tenere lontano dal potere i “successori di Chavez”… Tutto il resto non sono altro che parole vuote.

La punizione pubblica di un Paese governato da un “regime populista” è da lungo tempo un’idea fissa di alcuni ambienti al vertice della leadership degli Stati Uniti. Pensano che sia il momento giusto per un attacco esplorativo, per verificare la stabilità del regime bolivariano. L’elezione imminente apre promettenti prospettive. L’opposizione ha la possibilità di prendere l’iniziativa. Tutti i sondaggi dicono che Nicolas Maduro è avanti a Capriles Radonsky del 15-20%. Capriles ha perso con Chavez nell’ottobre 2012, ma coloro che tirano i fili da Washington non rispettano le regole. E sarà una dura lotta. Sabotaggi, provocazioni, sovversioni, omicidi politici, tutto è lecito in amore e in guerra, tutto andrebbe fatto per raggiungere l’obiettivo. Se Maduro sarà un chiaro vincitore nelle elezioni, istigheranno disordini nelle città, bloccando le vie di trasporto, accendendo il confronto e poi alzando i toni e il pianto sulle “vittime della repressione del governo”. L’uso della forza per arrivare al potere non è escluso, ma si può tentare con l’aiuto di mercenari e unità per operazioni speciali straniere. Tali scenari hanno già avuto luogo nella storia contemporanea del Venezuela. L’altra opzione è agire mentre i voti vengono contati. I media e gli attivisti pro-USA diffonderanno informazioni su “falsificazioni di massa”, per colpire Maduro. Tali accuse hanno accompagnato tutte le campagne elettorali che Chavez ha vinto, ma sempre con un ampio margine. Ma ora, riguardo Maduro?

Naturalmente, la leadership bolivariana conta sul sostegno di amici e alleati. E’ già stata riconosciuta dall’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América, o ALBA), dalla Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños, CELAC), dall’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unión de Naciones Suramericanas, UNASUR) e altri. Nicolas Maduro ha un disperato bisogno del sostegno di Cina, Brasile e Russia, Paesi su cui contava Chavez durante l’assunzione di decisioni in politica estera. Igor Sechin, il presidente esecutivo di Rosneft, guiderà la delegazione russa al funerale. Ha fatto molto per promuovere le relazioni Russia-Venezuela. La squadra russa comprende anche Denis Manturov, ministro del Commercio e dell’Industria della Federazione Russa, e Sergej Chemezov, direttore generale della Russian Technologies State Corporation. La composizione della delegazione mostra chiaramente che la visita non sarà limitata  solo a funzioni rappresentative. La delegazione ha l’obiettivo di impedire lo svolgersi degli eventi secondo il piano di destabilizzazione di Washington, e dare ogni possibile aiuto a Nicolas Maduro.

I liberali già prevedono che la Russia soffrirebbe grandi perdite finanziarie e materiali in Venezuela. Dando alle previsioni una tinta artificialmente drammatica: gli Stati Uniti raggiungeranno il loro obiettivo, gli investimenti della Russia nel bacino dell’Orinoco e in altre zone del Venezuela andranno persi, e l’enorme prestito per l’acquisizione di armi russe svanirà nel nulla. L’opposizione al potere spazzerebbe via tutti coloro che non hanno il favore di Washington, come cinesi, russi,  brasiliani… Queste prospettive oscure sono viste da coloro che credono in un solo modello di politica: chi offrirà più soldi ai successori di Chavez sarà il vincitore. Ma Chavez ha costituito una squadra vera e propria. Quindi, non importa quanto duri potranno essere i tempi, non ci saranno disertori nelle file di coloro che lottano per la vittoria della rivoluzione bolivariana.

 

 

La ripubblicazione è gradita in riferimento alla rivista on-line della Strategic Culture Foundation.


Traduzione di Alessandro Lattanzio

UN NUEVO NOMOS MULTIPOLAR QUE LIBERE AL MUNDO DE LA PREPOTENCIA GLOBAL DE LA TALASOCRACIA ESTADOUNIDENSE

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El director de “Eurasia”, Claudio Mutti, ha concedido a Natella Speranskaja una breve entrevista que ha sido publicada en algunos portales rusos. Ofrecemos aquí la traducción castellana.

 

 

D-¿Cómo ha llegado a tener conocimiento de la cuarta teoría política?¿Cómo valora la posibilidad de que ésta llegue a convertirse en una importante ideología del siglo XXI?

R-Habiendo prestado una constante atención a la actividad desarrollada en los últimos 20 años de Aleksandr Dugin, considero que la Cuarta Teoría Política, que él trata de elaborar representa un éxito coherente de su pensamiento. Por lo que respecta a las posibilidades de afirmarla quería recordarles las palabras de Maquiavelo: “Todos los profetas armados vencen, y los desarmados fracasan” (Il Príncipe, VI, 5)

 

D-Comentando la obra fundamental de Carl Schmitt “El concepto de lo político”, Leo Strauss observa que, por más radical que sea la crítica del liberalismo que ésta contiene, Schmitt permanece dentro del horizonte liberal, que no resulta superado; esto, según el propio Schmitt, a pesar de todos sus defectos no puede ser sustituido por algún otro sistema en la Europa actual. ¿Cuál es la solución al problema de la superación del discurso liberal?¿Se puede considerar que la solución de tal problema sea representada por la Cuarta Teoría de Dugin, que se encuentra más allá de las tres principales ideologías del siglo XX (liberalismo, comunismo y fascismo) y se opone al liberalismo?

R-La crítica de Leo Strauss muestra como el pensamiento de la Revolución Conservadora, que alcanza sus logros más elevados también gracias a Carl Schmitt, debe ser aplazado en función de las actuales circunstancias históricas. Por ello la Cuarta Teoría Política de Dugin constituye una preciosa tentativa de dar vida a una doctrina antiliberal que, después de la derrota de los “enemigos de la sociedad abierta” en el pasado siglo, puede oponerse eficazmente al individualismo y la idolatría del mercado, así como a los “derechos humanos” y el unipolarismo.

 

D-¿Está de acuerdo con el hecho de que hoy existen dos Europas? Una es aquella liberal, que comprende la idea de la “sociedad abierta”, los derechos humanos, el registro de “matrimonios” homosexuales etc; la otra Europa (una “Europa diferente”) es aquella políticamente comprometida, intelectual, espiritual, que considera que el status quo y la hegemonía del discurso liberal como un verdadero y justo desastre, y como una traición a la tradición europea ¿Cómo evalúa las posibilidades de victoria de la “Europa diferente” sobre la anterior?

R-El encuentro entre las “dos Europas” (aunque yo diría más bien entre Europa y Occidente) es una lucha por la vida y por la muerte, porque la instauración definitiva del totalitarismo liberal, con los monstruos creados por su antropología atea, con su culto a la ganancia, con su concepto prometaico de la tecnología, equivaldría a la caída en una barbarie subhumana nunca vista en la historia de la humanidad. No sé si Europa encontrará en sí las energías necesarias para invertir la tendencia liberal, ni si ve la intervención de Oriente hipotetizado en su día por René Guénon, de modo que estaría intentando repetir que “solo un dios nos puede salvar”. En cada caso, los “buenos europeos” deben cumplir su deber y continuar luchando independientemente de las posibilidades de victoria.

 

D-“No hay nada más trágico – dice Alain de Benoist – que el error de comprensión del momento histórico que estamos atravesando actualmente, este es el momento de la globalización postmoderna”. El filósofo francés pone de relieve la importancia del nacimiento de un nuevo Nomos de la tierra, de un nuevo modo de instituir las relaciones internacionales. ¿A qué cree que será parecido el cuarto Nomos?¿Está de acuerdo con el hecho de que el nuevo Nomos será euroasiático y multipolar (transición deluniversum al pluriversum)?

R-Un nuevo Nomos der Erde multipolar, que libere al mundo de la prepotencia global de la talasocracia estadounidense, puede ser instituido por un solo Estado o por un frente de Estados en posesión de los mismos requisitos que han permitido a los Estados Unidos instaurar su hegemonía mundial: dimensiones continentales, peso demográfico, armamento atómico, desarrollo tecnológico, prestigio cultural, ordenamiento político fuerte, voluntad de potencia. En tal caso se podría prever el nacimiento de un unpluriversum, constituido por seis o siete “grandes espacios”: Asia Oriental, la India, Irán, Rusia, Europa, América latina y Norteamérica.

 

D-¿Está de acuerdo con el hecho de que la época de la raza blanca europea ha terminado y que el futuro será determinado por las culturas y sociedades asiáticas?

R-Después de la segunda guerra mundial, la noción de “raza blanca” ha sido sustituida por otras categorías, más antirracistas y políticamente correctas: “el Mundo Libre”, “Occidente”. Ahora, dado que Occidente ha hegemonizado a algunos pueblos pertenecientes a la raza amarilla y está tratando de someter al mundo árabe, la idea del “ocaso de Occidente”, parece archivada, tal es así que cualquiera ha podido hablar de “occidentalización del mundo”. Sin embargo, la realización de esta perspectiva es obstaculizada por la persistencia de culturas no occidentales, inspiradas en valores de autoridad, orden, jerarquía y supremacía de la comunidad sobre el individuo. He aquí porque el ideólogo norteamericano del “choque de civilizaciones” ha imaginado un futuro “eje islámico-confuciano” como el máximo obstáculo al triunfo final de la hegemonía occidental.

 

D-¿Piensa que Rusia forme parte de Europa o acepta la concepción según la cual Rusia y Europa representan dos civilizaciones distintas?

R-El susodicho teórico del “choque de civilizaciones” considera que Rusia es un “país en equilibrio” hasta la época de Pedro el Grande, porque entre los rusos algunos piensan que su país forma parte de Europa, mientras que según otros ellos serían el fruto de una peculiar civilización euroasiática. En efecto, nadie puede negar que, después del fin del dominio tártaro, instituciones civiles y militares rusas han mantenido su naturaleza mongolo-tártara, de modo que la civilización rusa puede ser considerada una síntesis de elementos eslavos, romanos (bizantinos) y turco-mongoloides.

 

D-Las ideologías contemporáneas se fundan sobre el principio del secularismo. ¿Usted deja entrever el retorno de la religión, el retorno de lo sagrado? Siendo así, ¿bajo que forma? Considera que esto pueda sobrevenir bajo formas islámicas, cristianas, paganas o bajo otras formas religiosas?

R-En lo que concierne a las ideologías modernas, se necesita considerar que tras el carácter aparentemente secular, a veces se ocultan elementos de origen religioso degenerados, desviados y falsificados, como por ejemplo sucede en el caso americano, donde se puede descubrir fácilmente un mesianismo secularizado, fundado sobre un pretendida investidura divina. En el mundo moderno las religiones son expuestas bajo un análogo riesgo de profanación, de modo que el “retorno de lo sagrado” puede tener lugar bajo formas espurias y de parodias: el sionismo, el fundamentalismo cristiano estadounidense y la heterodoxia wahabita-salafita pertenecen a una fenomenología de profanación de este tipo.

 

Traducido del italiano por Ángel Fernández para TdE

http://www.tribunadeeuropa.com/?p=15527

ALLE ORIGINI DELLA PRASSI GEOPOLITICA DI CHAVEZ: IL PENSIERO GEOPOLITICO DI NORBERTO CERESOLE

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Tra i limiti e le debolezze più gravi del pensiero iberoamericano vi è stata la scarsa importanza attribuita allo studio della geopolitica, e questo atteggiamento ci ha fatto perdere di vista le vere origini dei nostri problemi culturali, sociopolitici ed economici; in altre parole, volendo occultare il fatto che il problema che principalmente ci assilla è un problema di natura geopolitica, si sono volute consapevolmente escludere una prognosi veridica e un’autentica via di liberazione.

Questa strategia è stata abilmente patrocinata e diretta dalla talassocrazia nordamericana, la quale, all’epoca del conflitto con l’Asse, diffuse un’immagine della geopolitica quale “scienza nazista”, scienza dell’aggressione, sicché gli Stati iberoamericani devono opporsi ad ogni progetto che miri a favorirne gl’insegnamenti. E’ chiaro che questa tattica si fonda sulla conoscenza di ciò che Carlo Terracciano ha messo in evidenza riguardo a questa scienza umana, difendendola come “l’avvio per una presa di coscienza che porti alla liberazione dei popoli sottomessi”, in quanto la pratica della geopolitica metterebbe a rischio l’egemonia statunitense su tutto il continente americano. Ciò si inscrisse nella propaganda yankee promossa in quella medesima congiuntura bellica, quando su tutti i governi latinoamericani vennero esercitate forti pressioni affinché dichiarassero guerra all’Asse; in tal modo si voleva “dar forma all’integrazione politica dell’emisfero” (Spykman), ossia controllare direttamente tutta quanta la regione iberoamericana, ma anche questo tentativo terminò con un fallimento.

Mentre gli USA sviluppano inizialmente la loro geostrategia da una prospettiva emisferica per poi passare ad una fase globale, la maggior parte dei governi latinoamericani finora non ha capito che la tattica applicata dai rispettivi circoli militari e politici, fondata su una geopolitica frammentaria che non vede oltre i ristretti limiti di ciascun paese, non condurrà a nessun tipo di indipendenza e sovranità le nazioni sudamericane; si tratta di una grave miopia, nonostante in questa materia esistano precursori illustri nella Prima Guerra d’Indipendenza (1), nel cosiddetto Patto de ABC (2) ispirato da Peròn e, per venire all’attualità, nella Rivoluzione Bolivariana guidata da Chàvez, uomini che, con limiti più o meno grandi, non hanno mai cessato di “pensare in termini di geocontinenti” (Von Lohausen).

C’è un fatto poco conosciuto specialmente in Europa, che riguarda gl’inizi della lotta politica di Chàvez. Nel 1995, nel corso di una visita fatta in Argentina allo scopo di stringere rapporti coi militari ribelli noti come carapintadas, Chàvez conosce il sociologo argentino Norberto Ceresole e lo invita ad unirsi al suo gruppo ristretto di consiglieri. A partire da questo momento e fino alla sua seconda espulsione, Ceresole accompagnerà Chàvez in quei viaggi e in quelle campagne all’interno del Venezuela che sfoceranno nel trionfo elettorale del 1998. Amici ed avversari riconoscono che fu Ceresole colui che riuscì ad accumulare e dirigere il carisma e la capacità di guida del capo venezuelano, destando quell’intima relazione tra Caudillo e Pueblo (3) che lo ha mantenuto alla guida del Venezuela.

Militante peronista, legato al gruppo dirigente della linea radicale montonera, l’Argentino fu uno scrittore prolifico, docente universitario e conferenziere internazionale; ha al suo attivo più di trenta opere che riguardano soprattutto la geopolitica e la geostrategia latinoamericana, ma anche, negli ultimi anni della sua attività, la questione del Vicino Oriente e il problema ebraico.

Ceresole fu anche consigliere del governo nazionale rivoluzionario peruviano del generale Velasco Alvarado; fu interlocutore di Peròn a Madrid; entrò in contatto con Salvador Allende e con alcuni capi della rivoluzione cubana. Alla fine degli anni Settanta venne eletto membro dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, dipartimento di studi latinoamericani. Sul piano culturale, instaurò relazioni di amicizia e di scambio d’idee con Garaudy (4), Faurisson e Nolte.

In seguito all’implosione dell’impero sovietico e al successivo riordinamento globale, il suo pensiero strategico si riorienta ed egli si sente stimolato ad approfondire lo studio dei pensatori geopolitici classici, specialmente di Haushofer; così nella sua analisi viene ad occupare un posto di rilievo il concetto di un blocco continentale eurasiatico: egli considera l’unità del continente asiatico e della sua penisola europea come un fattore determinante per la nascita di un mondo multipolare. A suo parere, i poli di questa unità dovranno essere la Germania e la Russia, ma è a quest’ultima che egli attribuisce un peso determinante, poiché alla caduta del neoliberalismo in Russia è legata la fine inesorabile del Nuovo Ordine Mondiale.

Nel quadro di questo generale cambiamento di prospettiva, devono essere presi in grande considerazione due nuovi fattori di grande importanza nelle relazioni internazionali. Il primo fattore è la rifondazione ideologica dell’entità sionista, che consiste nella sostituzione del sionismo laico col messianesimo fondamentalista biblico (“nazionalgiudaismo”); ciò ha avuto come risultato il consolidarsi – nel cuore stesso della Comunità Islamica – di una grande capacità strategica, dovuta all’alleanza coi progetti globali dell’ideologia puritana messianica che ispira la prassi imperialista degli USA. Il secondo fattore, che esercita un peso determinante sullo scacchiere globale ed ha uno stretto rapporto col primo, corrisponde alla vastissima zona dell’Asia Centrale, che mostra in maniera evidente i segni considerevoli della crescita e della vitalità dell’Islam e sta creando un contrappeso all’influenza mondiale della talassocrazia nordamericana (5).

Il suo interesse geopolitico rivoluzionario si focalizzò sulla branca islamica sciita. Ciò lo indusse a recarsi nella zona “calda” del Vicino Oriente e a stringere relazioni con i dirigenti di Hezbollah e coi capi della rivoluzione iraniana, i più grandi baluardi attuali nella lotta per l’indipendenza dei popoli, che incarnano lo spirito di resistenza contro la dialettica mondialista tra i paesi “arroganti”e i popoli “umiliati” (Mohammed Hussein Fadlallah), tra la civiltà del denaro e la civiltà della Fede.

Non dimentichiamo che Ceresole proviene dalla “periferia occidentale” del mondo, cioè dall’America Latina, punto nevralgico della sua cosmovisione e delle sue azioni rivoluzionarie; per questo le sue avventure, i suoi viaggi e il suo esilio obbligato in Europa, in Russia, nel Vicino e nel Medio Oriente gli consentono di constatare quale sia la vita religiosa, culturale, politica e storica che accomuna questa grande area continentale e di verificare la validità dell’idea eurasiatica (6). L’aspetto rivoluzionario delle sue tesi consiste nel fattoche egli è il primo a prospettare la necessità di “stabilire connessioni e complementarità fra Eurasia e America Latina, ossia progettare meccanismi che facciano crescere le rispettive potenze” (7); infatti è imprescindibile articolare i due fronti per erigere una “barriera invalicabile” continentale ed oceanica, allo scopo di ottenere in tal modo la grande vittoria finale sulle potenze talassocratiche. A tale conclusione, paradossalmente, egli giunge attraverso l’analisi delle raccomandazioni esposte da Mackinder al termine del suo celebre studio The Geographical Pivot of History (1904), dove il geografo inglese indica il pericolo che correrebbero gli USA qualora, in seguito ad un accordo tra Sudamerica e Germania, si presentasse al blocco eurasiatico tutta una serie di possibilità marittime (8).

Per cominciare a progettare questa coalizione, Ceresole deve respingere quella visione della geopolitica classica e “accademica” che suddivide il mondo in zone “verticali” (centro/periferia); egli propone un deciso cambiamento di prospettiva per gettare le fondamenta di una “geopolitica di liberazione” che si configuri attraverso allineamenti “orizzontali” (periferia/periferia), cosa che, in termini ideologici, equivale al rifiuto totale dell’eurocentrismo, matrice di ogni pratica colonialista. Riteniamo che sia il caso di evidenziare l’esatta concordanza di questo ragionamento con quanto sostenuto da una delle grandi figure del neoeurasiatismo italiano, il già menzionato Carlo Terracciano (9).

Se riepiloghiamo a grandi linee le direttrici della politica estera di Chàvez, possiamo affermare che – in generale – egli ha seguito le indicazioni del suo amico e compagno di lotta Ceresole. La rifondazione dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio, preconizzata dal presidente venezuelano, è una delle strategie chiave propugnate dal geopolitico argentino; l’obiettivo è quello di dar forma ad una nuova organizzazione del mercato internazionale del petrolio, non solo per estendere la rete degli accordi economici, ma anche per instaurare nuove intese, nuove vie di scambio culturale, attraverso le quali si potrà pervenire ad una modifica radicale del “centro di gravità della totalità del sistema internazionale” (10).

Un’altra strategia di ispirazione chiaramente ceresoliana consiste nell’instaurazione di stretti rapporti politici, militari ed energetici con la Russia, con la Cina, con l’Iran in particolare (11) e, in misura minore, coi paesi arabi, al fine di far nascere un mondo multipolare. C’è convergenza anche nella posizione antisionista, nella denuncia dei crimini commessi dall’entità sionista contro il popolo palestinese, cosa che ha portato all’espulsione dal Venezuela dell’ambasciatore israeliano. Per comprendere ed affrontare le sfide e i comportamenti che comportano la completa assunzione di consapevolezza di questo nuovo riordinamento globale, Ceresole raccomandò la creazione di un Centro de Inteligencia Estratégica, che sorse in Venezuela un anno dopo la sua espulsione.

Quanto all’America Latina, l’unico pensiero strategico valido preso in considerazione dal nostro autore per una vera opposizione ai predoni nordamericani è il pensiero continentalista di Bolìvar e Perón, chiaramente ispirato alla tradizione classica.  Perché questa opposizione sia efficace, secondo il sociologo argentino è imprescindibile che l’unità di tutte le nazioni che formano la Patria Grande sia non solo politica ed economica, ma anche militare; in quest’ambito la cooperazione deve procedere di pari passo con lo sviluppo economico, poiché il potenziamento delle forze armate sudamericane è l’unico modo per rendere vitale il Continente nel quadro del futuro mondo multipolare.  Questa idea, che Chávez cominciò a formulare nell’anno 2000, si è poi affermata in seno alla UNASUR.

Analogamente, è interessante notare che tra i vettori politici primordiali di Ceresole vi è l’obiettivo del consolidamento di uno spazio di potenza equilibrato nell’emisfero occidentale, che potrà concretarsi soltanto con l’integrazione dell’America Centrale (il “mediterraneo americano”) e dell’America Meridionale. Questa strategia si è manifestata con la creazione della CELAC e non è un caso che uno dei principali promotori di questa iniziativa è stato il governo bolivariano del Venezuela per il tramite dei membri dell’ALBA, senza trascurare l’azione diplomatica del Brasile. Fin dagli anni Novanta il Brasile considera questa zona come di interesse strategico, il che per esso comporta la necessità di riannodare le relazioni diplomatiche   con l’Avana.

Concludendo la presente analisi, sarebbe illogico sostenere ad oltranza la tesi secondo cui tutte le decisioni di Chávez che sono state menzionate sarebbero state ispirate unicamente dall’influenza esercitata in un certo periodo da Ceresole. Esistono coincidenze o concordanze nel processo in questione; però, per citare un esempio, il geopolitico argentino si oppose sempre all’influenza di Castro su Chávez, il che ci dimostra l’esistenza di altre fonti d’ispirazione, le quali in nessun modo hanno indebolito la capacità strategica e la proiezione continentale del Comandante Chávez.

Occorre prestare attenzione alle direttrici che emergeranno in questo nuovo ciclo della rivoluzione bolivariana e cercare di individuarne la reale capacità di manovra perché siano superate le sfide non risolte da Chávez.  Le elezioni dell’ottobre dell’anno scorso sono state un avvertimento circa il fatto che la rivoluzione bolivariana non è invincibile, a maggior ragione adesso, dopo la scomparsa della sua guida carismatica, sicché le prossime elezioni saranno la prova del fuoco non solo per il popolo venezuelano, ma anche per le sorti di tutto il Sudamerica.

 

 

 

Tumbaco, Ecuador, Marzo 2013

 

 

1. Specialmente nel pensiero geopolitico e geostrategico di Bolivar.

2. Si trattò di un compromesso realizzato intorno alla metà degli anni Cinquanta tra il presidente argentino Peròn, il brasiliano Getulio Vargas e il cileno Ibanez, al fine di creare un’unione politica ed economica dei rispettivi paesi che li sottraesse all’influenza nordamericana, vale a dire un potente polo bioceanico indipendente che, data la sua grandezza, sarebbe stato in grado di attrarre a sé le altre nazioni del continente sudamericano.

3. Norberto Ceresole, Caudillo, Ejército, Pueblo, Ediciones Al-Andalus, Madrid 2000. Versione in rete: http://www.analitica.com/bitBlioteca/ceresole/caudillo.asp

4. Il filosofo francese gli dedicò il suo libro El Nacional Judaismo. Un mesianismo pos-sionista, Ediciones Libertarias / Prodhufi, Madrid 1997.

5. “Adattando ancora una volta i concetti della geopolitica tedesca alla situazione attuale, potremmo affermare, in modo seriamente fondato, che fin dal 1924 il generale Haushofer previde che il mondo arabo-musulmano sarebbe stato la grande ‘falla’ del globalismo nordamericano attuale (…) L’Asia Centrale, come unità geopolitica sempre più differenziata, rappresenta un’alterazione profonda delle vecchie tendenze geopolitiche delle potenze bianche ed europee di una volta. L’Asia Centrale, intesa come lo spazio fisico e politico compreso tra il Vicino Oriente e la Cina e come regione potenzialmente indipendente, si adatta molto bene alla logica della geopolitica tedesca classica. Si tratta di una regione che è stata esaminata in maniera molto concreta nel pensiero del generale Haushofer” Norberto Ceresole, La Conquista del Imperio Americano (El poder judìo en Occidente y Oriente), Seconda parte: La opciòn estratégica. http://www.vho.org/aaargh/fran/livres/NCpoderju.pdf

6. Le fonti principale che consentrono a Ceresole di giungere a questa conclusione sono leopere di Haushofer. Non abbiamo la certezza che egli abbia avuto accesso al pensiero neoeurasiatista; la sola cosa che sappiamo, è che ebbe buone relazioni col generale Lebed e altri militari russi di alto grado.

7. El Nacional Judaismo. Un mesianismo pos-sionista, p. 140.

8. “The development of vast potentialities of South America might have a decisive influence upon the system. They might strengthen the United States, or, on the other hand, if Germany were to challenge the Monroe Doctrine successfully, they might detach Berlin from what I may perhaps describe as a pivot policy” (Democratic Ideals and Reality, “National Defense University Press”, Washington D.C., Annessi, p. 192).

9. Cfr. Europa-Russia-Eurasia: una “geopolitica orizzontale”, “Eurasia”, 2/2005.

10. Norberto Ceresole, op. cit.,p. 142.

11. Uno di coloro che svolsero il ruolo di principali interlocutori con la Repubblica Islamica dell’Iran fu proprio Ceresole.

L’AFRICOM IN MALI: OBIETTIVO CINA

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L’operazione in Mali è solo la punta dell’immenso iceberg africano. AFRICOM, il comando africano del Pentagono, fu creato dal Presidente George W. Bush sul finire del 2007. Il suo compito principale era quello di contenere la dilagante influenza economica e politica della Cina in Africa. Il campanello d’allarme risuonò a Washington quando il Presidente cinese ospitò uno summit storico a Pechino, il Forum per la cooperazione sino-africana (FOCAC), che riunì nella capitale inglese quasi cinquanta capi di stato e ministri dei governi africani. Nel 2008, completando un tour in Africa che toccò otto nazioni in dodici giorni – la terza visita simile da quando iniziò il suo incarico- il Presidente cinese Hu Jintao annunciò un programma triennale da tre miliardi di dollari di prestiti ed altri aiuti umanitari per l’Africa. Questi fondi si aggiunsero ai 3 miliardi di dollari di prestiti e 2 miliardi di dollari in crediti da esportazione che Hu Jintao aveva già precedentemente annunciato.

Nei quattro anni seguenti, il commercio tra Cina e nazioni africane aumentò vertiginosamente nella misura in cui l’influenza francese e statunitense sul “continente nero” diminuiva. Secondo le statistiche cinesi il volume degli scambi tra Pechino e l’Africa raggiunse i 166 miliardi di dollari nel 2011 e le esportazioni africane verso la Cina – in particolar modo materie prime necessarie all’industria cinese – salirono a 93 miliardi dai 5,6 miliardi del decennio precedente. Nel luglio 2012 la Cina offrì alle nazioni africane 20 miliardi in prestiti per il triennio successivo, un ammontare doppio rispetto ai prestiti concessi nel triennio precedente (1).

Per Washington rendere operativo l’AFRICOM il prima possibile era una priorità geopolitica. Le operazioni cominciarono l’1 ottobre 2008 dal centro di comando di Stoccarda, Germania. Da quando l’amministrazione Bush-Cheney firmò la direttiva creando AFRICOM nel febbraio 2007, questa è stata la risposta diretta alla riuscita diplomazia economica della Cina in Africa.

La missione di AFRICOM è definita nel modo seguente “Il Comando Africano ha il compito di coordinare il supporto militare statunitense alla politica del governo USA in Africa, inclusi i rapporti con i comandi militari delle 53 nazioni africane”. Viene ammessa la collaborazione con le ambasciate statunitensi ed il Dipartimento di Stato in Africa, un’ammissione inusuale che include anche l’USAID: ” Il comando Africano statunitense fornisce anche uomini e mezzi per le attività finanziate dal Dipartimento di Stato americano. Il personale del Comando lavora in stretto contatto con le ambasciate statunitensi in Africa per coordinare programmi di addestramento per migliorare l’apparato di sicurezza delle nazioni africane” (2).

Parlando all’International Peace Operations Association a Washington il 27 ottobre 2008, il Generale Kip Ward, Comandante dell’AFRICOM, definì la sua missione, “in accordo con le agenzie governative statunitensi e gl’interlocutori internazionali, (per condurre) azioni a favore della sicurezza attraverso programmi militari e altre operazioni simili, dirette a favorire un ambiente stabile e sicuro in Africa, di supporto alla politica estera statunitense” (3).

Differenti fonti a Washington lo dichiarano apertamente. L’AFRICOM fu creato per contrastare la crescente presenza della Cina in Africa, e il suo crescente successo, al fine di assicurarsi accordi economici a lungo termine per ricevere materie prime dall’Africa in cambio di aiuti cinesi sotto forma di contratti di produzione e relative royalties. Secondo i rapporti, i cinesi sono stati molto scaltri.  Invece di offrire pesanti imposizioni da parte dell’FMI implicanti pesanti riforme economiche ed austerity  come hanno fatto gli occidentali, la Cina sta offrendo crediti e generosi prestiti per costruire strade e scuole, con l’obbiettivo di stabilire un buon rapporto fra le parti.

J. Peter Pham, un esperto di Washington e consulente del Dipartimento della Difesa statunitense, afferma esplicitamente che tra le intenzioni del nuovo AFRICOM, c’è l’obiettivo di “proteggere l’accesso agli idrocarburi e alle altre risorse strategiche di cui l’Africa dispone in abbondanza”, un compito che include la protezione delle vulnerabili ricchezze naturali e che altre parti terze, come Cina, Giappone, o Russia, ottengano il monopolio di queste o trattamenti di favore.

Nella testimonianza che supportò la creazione dell’AFRICOM prima del congresso USA nel 2007, Pham, che è strettamente legato al Think Tank neo conservatore, Foundation for Defense of Democracies, affermò:

Questa abbondanza di risorse fa dell’Africa un bersaglio invitante all’attenzione della Repubblica Popolare Cinese, la cui dinamicità economica, con una media del 9 per cento di crescita annuo nel corso degli ultimi due decenni, ha una quasi irresistibile sete di petrolio come di altre ricchezze per sostenere tale ritmo di crescita. La Cina attualmente importa circa 2,6 milioni di barili di greggio al giorno, quasi la metà del suo fabbisogno; approssimativamente un terzo delle importazioni provengono dai giacimenti africani… probabilmente nessun’altra regione straniera eguaglia l’Africa negli interessi strategici di lungo periodo di Pechino negli ultimi anni… molti analisti si aspettano che l’Africa – specialmente la regione che comprende gli stati ricchi di petrolio lungo la costa occidentale – diventerà sempre più un teatro strategico nella competizione tra gli Stati Uniti e il loro solo concorrente quasi alla pari a livello globale, la  Cina, dato che entrambe le nazioni cercano di espandere la loro influenza e di avere accesso alle risorse (4).

Per contrastare la crescente influenza cinese in Africa, Washington ha assicurato il suo appoggio a una Francia economicamente indebolita e politicamente disperata, per ridare vigore all’impero coloniale francese, in una forma o nell’altra. La strategia, che si è rivelata nel tentativo franco-statunitense di usare il gruppo terroristico di Al Qaeda per abbattere prima Gheddafi in Libia e ora per causare distruzione dal Sahara al Mali, è di incoraggiare i combattimenti fra etnie e gruppi differenti come Berberi, Arabi e altri in Nord Africa. Divide et Impera.

Sembra che essi abbiano anche già optato per una vecchia “formula francese” per il controllo diretto. In un’analisi pionieristica, l’analista geopolitico e sociologo canadese, Mahdi Darius Nazemroaya scrive, “la mappa usata da Washington per combattere il terrorismo nell’area del Pan-Sahel è molto esplicativa. L’ampiezza dell’area di azione dei terroristi, che include i confini dell’Algeria, Libia, Niger, Chad, Mali e la Mauritania secondo ciò che è stato delineato da Washington, è molto simile ai confini dell’entità territoriale coloniale che la Francia cercò di controllare nel 1957.  Parigi pensò di promuovere quest’entità africana nel Sahara occidentale come dipartimento francese legato direttamente alla Francia, assieme all’Algeria costiera” (5).

I francesi la chiamarono Organisation commune des régions sahariennes (OCRS). Comprendeva i confini interni del Sahel e delle nazioni sahariane del Mali, Niger, Chad e Algeria. Parigi la usò per controllare i paesi ricchi di risorse, per favorire lo sfruttamento francese di materie prime come petrolio, gas e uranio.

Egli aggiunge anche che Washington aveva chiaramente pensato a quest’area ricca di risorse quando designò le aree dell’Africa che dovevano essere “ripulite” dalle cellule terroristiche e gruppi criminali. Perlomeno ora AFRICOM aveva un piano per la sua nuova strategia africana. L’istituto francese delle relazioni internazionali (Institut français des relations internationals, IFRI) discusse chiaramente questo legame fra i terroristi e le aree ricche di materie prime nel rapporto di Marzo 2011 (6).

La mappa usata da Washington per combattere il terrorismo secondo l’iniziativa del Pentagono per il Pan-Sahel mostra un’area di attività dei terroristi all’interno di Algeria, Libia, Niger, Chad, Mali e Mauritania secondo il disegno di Washington. La Trans-Saharian Conterterrorism Initiative (TSCTI) fu creata dal Pentagono nel 2005. Al Mali, Chad, Mauritania e Niger si aggiungevano ora Algeria, Mauritania, Marocco, Senegal e Nigeria e Tunisia in un teatro di cooperazione militare con il Pentagono. La Trans-Saharian Counterterrorism Initiative fu trasferita sotto il comando dell’AFRICOM il 1 ottobre 2008 (7),

I piani francesi furono frustrati durante la guerra fredda dalla guerra d’indipendenza dell’Algeria e delle altre nazioni africane, il “Vietnam” francese. La Francia fu costretta a sciogliere l’OCRS nel 1962, a causa dell’l’indipendenza algerina e del sentimento anticoloniale in Africa (8). Nonostante ciò, le ambizioni neocoloniali di Parigi non sono scomparse.

I francesi non nascondono certo la loro preoccupazione riguardo la crescente influenza cinese in quella che fu l’Africa francese. Il Primo ministro francese Pierre Moscovici affermò nel dicembre scorso a Abidjan che le imprese francesi devono andare all’attacco e scatenare un’offensiva contro l’influenza della rivale Cina scommettendo su mercati africani sempre più competitivi. ” È evidente che la Cina è sempre più presente in Africa… le imprese (francesi) che hanno i mezzi devono perseguire questa offensiva. Esse devono essere più presenti sul territorio. Esse devono combattere” affermò Moscovici durante un suo viaggio in Costa d’Avorio. (9)

Chiaramente Parigi aveva in mente un’offensiva militare per sostenere l’offensiva economica che egli aveva previsto per le compagnie francesi in Africa.

 

 

Tratto da: http://www.globalresearch.ca/the-war-in-mali-and-africoms-african-agenda-target-china/5322517

 


*Traduzione di Andrea Rosso
 

(1) Joe Bavier, French firms must fight China for stake in Africa—Moscovici,, Reuters, December 1, 2012.

(2) AFRICOM, US Africa Command Fact Sheet, September 2, 2010.

(3) Ibid.

(4) F. William Engdahl, NATO’s War on Libya is Directed against China: AFRICOM and the Threat to China’s National Energy Security, September 26, 2011.

(5) Mahdi Darius Nazemroaya and Julien Teil, America’s Conquest of Africa: The Roles of France and Israel, GlobalResearch, October 06, 2011.

(6) Ibid.

(7) Ibid.

(8) Ibid.

(9) Joe Bavier, Op. cit.


“SULL’ORLO DEL PRECIPIZIO”

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“Sull’orlo del precipizio: cause, conseguenze e possibili soluzioni della crisi economica in Italia ed Europa”.

Venerdì 15 marzo, in via del Quirinale 26, Roma, alle ore 16.30.
 
Introduce e modera: Stefano Vernole (Cesem, Eurasia)

Intervengono:

  • Bruno Amoroso (economista, docente presso l’Università di Roskilde in Danimarca)
  • Nino Galloni (economista, ex funzionario del Ministero del Tesoro)
  • Giacomo Gabellini (Cesem, Eurasia, autore del libro “La Parabola. Geopolitica dell’unipolarismo statunitense”)

 

Organizza il Centro Studi Eurasia Mediterraneo

Ingresso Libero

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I RAPPORTI TRA IRAN E PAKISTAN

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Martedì 5 marzo scorso il nostro redattore Andrea Fais è stato contattato dalla redazione di Radio IRIB Italia per partecipare all’ultima puntata della trasmissione “Tavola rotonda”, che è andata in onda martedì 12 marzo. La trasmissione, dedicata ai rapporti tra Iran e Pakistan soprattutto alla luce dell’inaugurazione di un nuovo gasdotto che rifornirà Islamabad a partire dal prossimo anno, ha riguardato le dinamiche nella regione dell’Asia Meridionale, il ruolo che il Pakistan potrebbe svolgere nel contesto regionale ed internazionale, nonché le implicazioni geoeconomiche dell’inserimento cinese nella Regione dell’Oceano Indiano.
 
Al seguente link è disponibile la registrazione audio della “Tavola rotonda”:

http://italian.irib.ir/analisi/tavola-rotonda/item/122548

 

 

 

IMPERIALISMO E IMPERO

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Sommario del numero XXIX (1-2013)

 

L’imperialismo, “fase suprema del capitalismo”

Imperialismo è un lemma del vocabolario moderno; neologismi di conio relativamente recente sono per lo più le voci formate mediante il suffisso -ismo, che nella fattispecie viene ad aggiungersi all’elemento radicale dell’aggettivo imperiale specializzandone il valore semantico, per indicare la tendenza di uno Stato ad espandersi su un’area geografica più vasta e ad esercitarvi il suo predominio politico, militare ed economico.

Non è infatti trascorso un secolo dal 1920, quando Lenin notava come da un paio di decenni, per qualificare un’epoca di relazioni internazionali inaugurata dalla guerra ispano-americana (1898) e dalla guerra anglo-boera (1899-1902), “nella pubblicistica tanto economica quanto politica del vecchio e del nuovo mondo ricorre[sse] sempre più di frequente il termine di imperialismo1 e citava come esemplare un’opera intitolata appunto Imperialism, che l’economista inglese J. A. Hobson aveva pubblicata nel 1902 a Londra ed a New York. Volendo quindi indicare la connessione del fenomeno imperialista con le sue caratteristiche economiche fondamentali, Lenin formulava la celebre definizione dell’imperialismo quale “era del capitale finanziario e poi dei monopoli”2. “Uno stadio specifico dello sviluppo dell’economia mondiale capitalista”3, ribadirà Paul M. Sweezy.

Non appare sostanzialmente diversa da quella del capo bolscevico la diagnosi del fenomeno imperialistico fatta nel medesimo periodo da un esponente del pensiero controrivoluzionario, il conte Emmanuel Malynski, che definiva gl’imperialismi come “megalomanie nazionalistiche valorizzate ingegnosamente dalla rapacità capitalista”4. Convinto difensore dell’idea imperiale e appassionato apologeta degli edifici geopolitici usciti distrutti dalla guerra mondiale e dalla rivoluzione bolscevica, l’aristocratico polacco scriveva infatti: “Nella storia contemporanea, così come nei due decenni che immediatamente la precedono, noi vedremo i nazionalismi delle grandi potenze orientarsi decisamente nel senso del capitalismo e degenerare rapidamente in imperialismo economico. Essi si troveranno così su di un piano inclinato e verranno trascinati da una concatenazione di cause e di effetti verso l’imperialismo politico. In questo modo, alla fine, il capitalismo internazionale avrà condotto le nazioni alla più gigantesca guerra mai esistita”5. Sulla stessa linea del Malynski si colloca Julius Evola, allorché denuncia “la contraffazione imperialistica dell’idea imperiale”6 come il prodotto di ideologie “di tipo nazionalistico, materialistico e militaristico”7 o di interessi economici.

Considerato da una prospettiva puramente storica, l’imperialismo può essere oggi definito come la “politica delle grandi potenze europee che tendeva a costituire degli imperi coloniali dominando territori extraeuropei da cui trarre materie prime, forza lavoro e in cui far pervenire le produzioni industriali nazionali”8, sicché la sua età “si può grosso modo delimitare temporalmente tra il 1870 e lo scoppio del primo conflitto mondiale, quando la spartizione coloniale si era sostanzialmente conclusa”9.

Tuttavia la categoria di “imperialismo” è stata usata anche in relazione alla politica esercitata dagli Stati Uniti d’America nei periodi storici successivi alla prima ed alla seconda guerra mondiale; la qual cosa non fa che confermare che l’imperialismo è un fenomeno tipico dell’età contemporanea, corrispondente ad “uno stadio specifico dell’economia mondiale capitalista”10 ed assimilabile a quella internazionalizzazione del capitalismo che è culminata nella globalizzazione.

 

 

Fenomenologia dell’Impero

Per quanto riguarda la categoria di Impero, non è facile definirla, data la grande varietà delle realtà storiche che ad essa vengono ascritte. Limitandoci a considerare quelle che hanno preso forma nell’area del Mediterraneo e del Vicino Oriente, sembra di poter constatare che a creare il modello originario dell’ordinamento imperiale sia stata la civiltà dell’antico Iran, la quale probabilmente attinse dal mondo assiro e babilonese la concezione della monarchia universale. Se entro i confini della Persia il fondamento di tale concezione è la dottrina dell’onnipotenza di Ahura-Mazda, il dio creatore del cielo e della terra che ha assegnato al “Re dei re” la signoria su popoli diversi, in Babilonia e in Egitto i sovrani achemenidi fanno riferimento alle forme religiose locali e in tal modo “assumono il carattere di re nazionali dei diversi paesi, mantenendo in ciascuno di quelli la tradizionale figura di monarca di diritto divino”11.

Il progetto di monarchia sovranazionale ispirato ad Alessandro dal modello persiano si realizza, attraverso i regni ellenistici, nell’Impero romano, che per oltre quattro secoli garantisce la convivenza pacifica e la cooperazione di una vasta comunità di popoli. I suoi fondamenti concreti sono il comune ordinamento legale (che convive con una molteplicità di fonti giuridiche)12, la diffusione della lingua latina (accanto al greco ed alle lingue locali), la difesa militare delle frontiere, l’istituzione di colonie destinate a diventare centri di irradiamento dell’influsso romano nelle province confinarie, una moneta imperiale comune (accanto alle monete provinciali e municipali), un’articolata rete stradale, i trasferimenti di popolazione.

In seguito alla deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente ed alla restituzione delle insegne imperiali a Costantinopoli, l’Impero romano continua ad esistere per altri mille anni nella parte orientale. “Struttura statale romana, cultura greca e religione cristiana sono le fonti principali dello sviluppo dell’impero bizantino. (…) L’impero, eterogeneo dal punto di vista etnico, fu tenuto unito dal concetto romano di stato e la sua posizione nel mondo fu determinata dall’idea romana di universalità. (…) Si forma tutta una complessa gerarchia di stati, al cui vertice è l’imperatore di Bisanzio, imperatore romano e capo dell’ecumene cristiana”13.

Ma due secoli e mezzo dopo che Giustiniano ha cercato di ristabilire la signoria universale riconquistando l’Occidente, un re dei Franchi cinge in Roma la corona imperiale. La solidarietà delle varie parti del Sacro Romano Impero – abitate da popoli gelosi delle loro identità etniche e culturali – si basa sui vincoli di sangue che uniscono l’imperatore ai sovrani a lui subordinati, nonché al giuramento di fedeltà con cui questi sovrani si legano all’imperatore. L’Impero carolingio non sopravvive più di un trentennio al suo fondatore; perché rinasca a nuova vita, occorre attendere l’intervento di una nuova dinastia, quella degli Ottoni, e il trasferimento della capitale da Aquisgrana a Roma.

Con Federico II di Svevia, l’Impero sembra recuperare la dimensione mediterranea. Se il Regno di Germania è un’immagine dell’Impero in quanto offre lo spettacolo di una comunità di stirpi diverse (Sassoni, Franchi, Svevi), il versante mediterraneo dell’Impero federiciano presenta un quadro di differenze ancor più profonde: il trilinguismo latino-greco-arabo della cancelleria imperiale ben rappresenta un mosaico di popolazioni d’origine latina, greca, longobarda, araba e berbera, normanna, sveva, ebraica, le quali per di più appartengono a confessioni religiose diverse. Perciò Federico, dice un suo biografo, “riuniva in sé i caratteri dei diversi sovrani della terra; era il più grande principe tedesco, l’imperatore latino, il re normanno, il basileus, il sultano”14. Ed è quest’ultimo titolo a far risaltare quanto vi è di specifico nella sua idea imperiale: l’aspirazione a ricomporre l’unità di autorità spirituale e potere politico.

In seguito alla conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani, l’eredità dell’Impero romano viene rivendicata da due nuove e distinte formazioni imperiali: mentre “l’Impero Romano greco e cristiano cade per risorgere nella forma di un Impero Romano turco e musulmano”15, generando così “l’ultima ipostasi di Roma”16, Mosca si prepara a diventare la “terza Roma”, poiché, come scrive Benedetto XVI, “fonda un proprio patriarcato sulla base dell’idea di una seconda translatio imperii e si presenta dunque come una nuova metamorfosi del Sacrum Imperium17.

Nell’Europa centrale e occidentale, il Sacro Romano Impero della Nazione Germanica risente l’effetto della nascita dei primi Stati nazionali; ma il corso degli eventi sembra mutare con Carlo V, “campione di quella vecchia idea europea che appare oggi modernissima”18, quando l’impero fondato da Carlo Magno si libera dell’aspetto strettamente germanico che lo ha connotato dal XIV al XV secolo e tende a recuperare l’originario carattere sovranazionale per mantenerlo anche nei secoli successivi, fino al tramonto della Monarchia asburgica. Per tutto il Cinquecento e buona parte del Seicento l’Impero “fu la manifestazione storica di una forza centripeta che tese a unificare i vari regni nei quali la cristianità si era divisa nel corso del medioevo; la sua capacità di aggregazione, d’affermazione e poi di tenuta lascia ipotizzare l’esistenza di possibilità per la storia europea diverse rispetto a quelle che si sono concretizzate”19.

Con la pace di Presburgo, Francesco II rinuncia alla dignità di Sacro Romano Imperatore, che le conquiste napoleoniche hanno svuotata della corrispondente sostanza territoriale; al tempo stesso, si offre a Napoleone la possibilità di raccogliere l’eredità carolingia in un Impero di nuovo conio, un insieme continentale di territori tenuti insieme dalla potenza militare francese e guidati dai diretti fiduciari dell’Empereur. Così, perfino esponenti della vecchia aristocrazia europea sono disposti a vedere in lui “un imperatore romano – un imperatore romano francese, se si vuole, come prima era stato tedesco, ma pur tuttavia un imperatore, di cui il Papa sarebbe stato l’elemosiniere, i re i grandi vassalli e i principi i vassalli di questi vassalli. Un sistema feudale, insomma, col vertice della piramide che era mancato alla pienezza del Medioevo”20.

 

 

Ripensare l’Impero

Da questa sia pur limitata e sintetica rassegna storica, che dall’Europa potrebbe benissimo essere estesa ad altre aree della terra, risulta che l’Impero non è semplicemente una grande potenza politico-militare la quale esercita il proprio controllo su un’ampia estensione territoriale. In maniera più adeguata, l’Impero può essere definito come “un tipo di unità politica che associa delle etnie, dei popoli e delle nazioni diverse ma imparentate e riunite da un principio spirituale. Rispettoso delle identità, è animato da una sovranità fondata sulla fedeltà più che sul controllo territoriale diretto”21. Ogni manifestazione storica del modello imperiale si è infatti configurata, al di là della sua dimensione geografica e della varietà etnica e confessionale della popolazione corrispondente, come un ordinamento unitario determinato da un principio superiore.

Per quanto riguarda l’Europa, l’Impero ne ha sempre costituito il cuore ideale e politico, il centro di gravità, finché, con la decadenza e poi con la definitiva scomparsa delle più recenti forme imperiali, la stessa Europa si è identificata sempre più con l’Occidente, fino a diventare un’appendice della superpotenza transatlantica e una sua testa di ponte per la conquista dell’Eurasia.

Ma l’unipolarismo a guida statunitense non è eterno; la transizione ad un nuovo “nomos della terra” articolato in un pluriversum di “grandi spazi” rientra ormai in una prospettiva realistica, sicché l’Europa dovrà, prima o poi, ripensare il modello dell’Impero, l’unico modello politico di unità sovranazionale che essa abbia sviluppato nel corso della sua storia.

 

 

 

NOTE:

1. Vladimir I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Milano 2002, p. 33.

2. Vladimir I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, cit., p. 140.

3. Paul M. Sweezy, The Theory of Capitalist Development, New York 1968, p. 307.

4. Emmanuel Malynski, Les Eléments de l’Histoire Contemporaine, cap. V, Paris 1928; trad. it. Fedeltà feudale e dignità umana, Padova 1976, p. 85. Dello stesso autore: L’Erreur du Prédestiné, 2 voll., Paris 1925; Le Réveil du Maudit, 2 voll., Paris 1926; Le Triomphe du Réprouvé, 2 voll., Paris 1926; L’Empreinte d’Israël, Paris 1926 (trad. it. Il proletarismo, fase suprema del capitalismo, Padova 1979); La Grande Conspiration Mondiale, Paris 1928; John Bull et l’Oncle Sam, Paris 1928; Le Colosse aux Pieds d’Argile, Paris 1928. La Guerre Occulte, apparsa a Parigi sotto i nomi di Emmanuel Malynski e di Léon de Poncins nel 1936 (due anni prima della morte del Malynski), fu edita varie volte in italiano tra il 1939 (Ulrico Hoepli, Milano) e il 2009 (Edizioni di Ar, Padova).

5. Emmanuel Malynski, op. cit., ibidem.

6. Julius Evola, L’Inghilterra e la degradazione dell’idea di Impero, “Lo Stato”, a. IX, 7 luglio 1940.

7. Julius Evola, Universalità imperiale e particolarismo nazionalistico, “La Vita italiana”, a. XIX, n. 217, aprile 1931.

8. Enrico Squarcina, Glossario di geografia politica e geopolitica, Milano 1997, pp. 81-82.

9. Enrico Squarcina, Glossario di geografia politica e geopolitica, cit., p. 82.

10. Paul M. Sweezy, The Theory of Capitalist Development, New York 1968, p. 307.

11. Pietro de Francisci, Arcana imperii, vol. I, Roma 1970, p. 168.

12. “I diritti indigeni sopravvissero e continuarono ad essere applicati nelle diverse comunità che costituivano l’Impero: diritto ‘greco’ (in realtà diritto indigeno spolverato di diritto greco) in Egitto, diritto delle città greche nel Mediterraneo orientale, diritto di tale o talaltra tribù in Mauritania o in Arabia, diritto ebraico (Torah) per gli ebrei” (Maurice Sartre, L’empire romain comme modèle, “Commentaire”, primavera 1992, p. 29).

13. Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino 1993, pp. 25-26.

14. Giulio Cattaneo, Lo specchio del mondo, Milano 1974, p. 137.

15. Arnold Toynbee, A Study of History, vol. XII, 2a ed., London – New York – Toronto 1948, p. 158.

16. Nicolae Iorga, The Background of Romanian History, cit. in: Ioan Buga, Calea Regelui, Bucarest 1998, p. 138. Cfr. C. Mutti, Roma ottomana, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. I, n. 1, ott.-dic. 2004, pp. 95-108.

17. Josef Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, Milano 2004, p. 15.

18. D. B. Wyndham Lewis, Carlo Quinto, Milano 1964, p. 18.

19. Franco Cardini – Sergio Valzania, Le radici perdute dell’Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali, Milano 2006, p. 16.

20. Emmanuel Malynski, La guerra occulta, Padova 1989, pp. 48.

21. Louis Sorel, Ordine o disordine mondiale?,in L. Sorel – R. Steuckers – G. Maschke, Idee per una geopolitica europea, Milano 1998, p. 39.

 

 

IMPERIALISMO E IMPERO

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È uscito il numero XXIX (1-2013) della rivista di studi geopolitici “Eurasia”, un volume di 272 pagine intitolato:

 

IMPERIALISMO E IMPERO

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi.

 

 

IMPERIALISMO E IMPERO di Claudio Mutti

 

 

L’IDEALE POSIZIONE GEOGRAFICA DI ROMA  di Marco Tullio Cicerone

Cicerone pone in risalto la straordinaria idoneità del luogo in cui venne fondata Roma. Egli ritiene che nel caso di Roma agli aspetti vantaggiosi della distanza dal mare si aggiungano quelli, altrettanto positivi, della navigabilità del Tevere. Una città collocata in un punto tanto favorevole, conclude Cicerone, “avrebbe offerto sede e dimora ad un immenso impero. Infatti nessuna città situata in un’altra parte dell’Italia avrebbe forse potuto mantenere più facilmente questa così grande potenza”.

 

 
L’UNITÁ DELL’EURASIA IN UNA PROSPETTIVA GEOFILOSOFICA  di Fabio Falchi

Se è vero che il compito della geofilosofia consiste principalmente nella comprensione del nostro essere del mondo, è palese che la questione dell’essere sia decisiva per capire quell’apertura alla spazialità che, secondo Heidegger, caratterizza l’essere dell’uomo. D’altra parte, anche se  non si  può non  tener conto della critica heideggeriana alla metafisica occidentale in quanto “ontoteologia”, il modo in cui Colli o certi filosofi iraniani intendono il significato dell’ “esistenza ” sembra mostrare il senso autentico del fondamento ontologico del nostro abitare su questa terra; tanto da giustificare una definizione della dimensione metafisica e metapolitica dell’unità del continente eurasiatico come “eu-topia”. Vale a dire come una terra in cui si possa ancora abitare e costruire, in base ad una prospettiva radicalmente differente dalla “utopia” di una terra priva di “luoghi”.

 

 
L’IDEA DI IMPERO NEL DIRITTO INTERNAZIONALE di Carl Schmitt

In alternativa alla concezione interstatale ereditata dal XIX secolo ed all’aspirazione universalistica delle democrazie occidentali, il compito della scienza giuridica tedesca consiste nell’elaborare la concezione di un nuovo ordinamento. Tale concezione può consistere soltanto nell’idea giuridica di un Impero inteso come ordinamento di “grandi spazi”, che interdica alle potenze estranee l’intervento in questi spazi stessi.

 

 
L’IMPERO SECONDO SCHMITT E LA QUARTA TEORIA POLITICA di Aleksandr Dugin

L’ordine internazionale è in corso di cambiamento: dal sistema moderno fondato sugli Stati-nazione si sta passando ad un sistema postmoderno di mondializzazione. È il momento propizio per ripensare, con Carl Schmitt, alcune nozioni soggiacenti al cambiamento in atto. Si tratta soprattutto della nozione di Grossraum, “grande spazio”, che si trova alla base dell’idea di Impero, ma che può anche applicarsi ai blocchi d’integrazione come l’Unione Europea o l’Unione Eurasiatica.

 

 
IL PROGETTO “IMPERO” di Aleksandr Dugin

L’idea di Impero può essere concepita in maniera diversa sia da un punto di vista storico sia da un punto di vista formale. Nel secondo caso, si tratta del concetto di un’organizzazione dello spazio politico che comporti la centralizzazione degli affari strategici e una certa decentralizzazione in termini di autonomie regionali.

 

 
L’IMPERO COME GRANDE SPAZIO di Fabio Falchi

A Michael Hardt e Antonio Negri, apologeti dell’”Impero globale” in quanto sistema di potere deterritorializzato che favorisce una visione del mondo universalista e cosmopolita, non è difficile obiettare che non è casuale che tale potere sia territorialmente e culturalmente insediato negli Stati Uniti. Inoltre, se è indubbio che “Impero” non significa imperialismo, il principio ispiratore del vero Impero è del tutto diverso dall’universalismo “astratto” difeso da Hard e Negri. Si tratta del principio che fonda lo schmittiano “grande spazio” e che è essenziale comprendere per opporsi alla “pre-potenza” degli Stati Uniti e del mercato globale.

 

 
L’IDEA DI IMPERO di Alain de Benoist 

Tramontata l’epoca degli Stati nazionali, l’Europa, per esistere, ha bisogno di unità politica. Ma la sua unità politica non può essere costruita secondo il modello giacobino, che ne metterebbe a rischio la ricchezza e la diversità, né può risultare dalla semplice sopranazionalità economica sognata dai tecnocrati di Bruxelles. Come non interrogarsi allora sull’idea di Impero? L’Impero si ricollega all’idea di un ordine equo che mira, all’interno di una data area di civiltà, a federare i popoli sulla base di un’organizzazione politica concreta, al di fuori di ogni prospettiva di conversione o di livellamento. Da questo punto di vista, l’Impero si distingue nettamente da un ipotetico Stato mondiale o dall’idea secondo cui esisterebbero princìpi giuridico-politici validi universalmente, in ogni tempo e in ogni luogo.

 

 
PERCHÉ GLI USA NON SONO UN IMPERO di Massimo Janigro

L’articolo esamina la genesi e la prassi della superpotenza statunitense, nonché il rapporto che essa ha con il mondo. Questi elementi vengono sinteticamente confrontati con l’idea di struttura imperiale, per capire se gli Stati Uniti possano essere considerati o meno un impero e perché.

 

 
LA VOCAZIONE IMPERIALE DEI TURCHI di Aldo Braccio

L’affascinante percorso storico dei Turchi – spesso trascurato e  oggetto di pregiudizi nelle società occidentali – comprende la costituzione e la partecipazione a svariate formazioni imperiali. Popolo nomade e guerriero per eccellenza, quello turco, che ha saputo interagire con mondi diversi imponendosi ma generalmente rispettando la molteplicità delle forme religiose, etniche e culturali con cui si è confrontato. L’esperienza selgiuchide e quella ottomana – ma anche quelle che portano il sigillo di Gengis Khan e di Tamerlano – rientrano in questo ambito, così come altre esperienze storiche più lontane nel tempo.

 

 
IL PARTITO COMUNISTA CINESE ALLA RISCOPERTA DEL CELESTE IMPERO di Andrea Fais

Durante la fase di avviamento delle politiche di riforma e apertura stabilite dal presidente Deng Xiaoping nel 1980, la Repubblica Popolare Cinese ha intrapreso la strada della cosiddetta economia socialista di mercato. Se da un lato le quattro modernizzazioni (agricoltura, industria, tecnologia e difesa) hanno consentito la crescita della potenza asiatica, dall’altro lato il gruppo politico dirigente ha inteso recuperare alcuni fra i più importanti principi del pensiero tradizionale cinese. Fra questi, il contributo del confucianesimo è senz’altro quello che anima maggiormente la discussione relativa all’assetto politico e strategico della nazione, ma non vanno sottovalutati i tanti altri spunti che rendono il dibattito interno al Paese molto più vivo e dinamico di quanto si sia soliti pensare in Occidente, dove il potere politico cinese viene percepito come un monolitico blocco di potere spesso impropriamente paragonato alle vecchie nomenklature dell’Europa dell’Est.

 

 
IL MITO DELL’IMPERO NELL’AMERICA INDIOLATINA di Francisco de la Torre Freire

Benché il principio universale dell’Impero sia stato comune a tutte le culture dell’America precolombiana, questo articolo si  occupa soltanto di quelle meglio conosciute: le civiltà azteca ed inca, nelle quali il principio solare si manifestò nel modo più evidente. In seguito all’aggressione e all’occupazione spagnola, nell’America indiolatina ebbe luogo l’evento della translatio Imperii.

 

 
L’IMPERO ISLAMICO di Enrico Galoppini

Le direttrici principali seguite dall’espansione islamica, sin dalle origini, delineano una chiara consapevolezza dal punto di vista geopolitico da parte dei califfi che si sono avvicendati alla guida della “comunità dei credenti”. La capitale dello Stato islamico si è così spostata in ragione delle differenti esigenze strategiche individuate dalle dinastie di turno. In questo modo, inoltre,  la tradizione islamica ha potuto diffondersi ed adattarsi tra popolazioni non arabe, dalle quali ha ricevuto contributi essenziali nei differenti domini della civiltà.

 

 
LA GUERRA CIVILE IN YEMEN (1962-1970) di Alessandro Lattanzio

La guerra civile nello Yemen, esplosa negli anni ’60 fra le locali forze monarchiche e quelle nazionaliste, assunse ben presto il carattere di uno scontro fra il panarabismo socialista rappresentato dall’Egitto di Nasser e il campo del conservatorismo arabo alleato dell’Occidente.Arabia Saudita e Giordania si erano infatti alleate con il colonialismo britannico e con l’imperialismo statunitense, al fine di impedire il processo di rinnovamento socio-economico del Vicino Oriente e il suo corrispondente ricollocamento geopolitico e geostrategico. Sebbene appaia un episodio minore, la battaglia per lo Yemen fornì un’anticipazione dello scontro ideologico-culturale cui si assiste oggi nel Vicino Oriente.

 

 
INTEGRALISMO E DISINTEGRAZIONE di Paolo Sampaoli

La civiltà islamica, nonostante la sua vocazione universalistica e la multiforme fioritura di scuole che hanno offerto contributi decisivi in ogni ambito dell’umana versatilità – dalle arti, alle scienze, alla filosofia, alla metafisica – ha generato anche un numero importante di “correnti spirituali” che spesso sono state rigettate, riconosciute incompatibili con i princìpi stessi della rivelazione coranica e guardate piuttosto quali manifestazioni di natura settaria. Alcune di queste, per essere il paradigma di una speciale mentalità che si è ripresentata più volte nella storia, sembrano quasi tracciare i secoli con un sottile, e talvolta “carsico”, filo rosso, il quale arriva sino ai nostri giorni segnando l’attualità con una presenza tanto ingombrante quanto temibile. Per strano che possa sembrare, le espressioni odierne di simili tendenze, apparentemente incompatibili e contrastanti fra di loro, affondano le radici in antiche visioni del mondo, le quali hanno ricevuto dalla mentalità moderna il terreno più fertile per la loro riproposizione.

 

 
IL PETROLIO E LA SUPREMAZIA GEOSTRATEGICA USA di Giacomo Gabellini

Negli Stati Uniti, a partire dalle soglie del XX secolo, la figura del cercatore di petrolio andò gradualmente sostituendosi a quella, mitica, del cercatore d’oro. Ciò rispecchiava un mutamento culturale, politico ed economico determinato e indotto dalla prorompente affermazione degli Stati Uniti sul vasto scenario internazionale; un’ascesa fondata sul petrolio, risorsa fonddamentale che ancora oggi sorregge la declinante egemonia geopolitica statunitense.

 

 
LA SPAGNA FRANCHISTA E CUBA di Haruko Hosoda

Questo studio intende indagare perché il regime spagnolo sotto Francisco Franco (1939-1975) e il regime cubano sotto Fidel Castro (1959-2008) mantenessero relazioni diplomatiche date le loro opposte ideologie; questo è significativo, dal momento che il regime di Franco era isolato internazionalmente dopo la Seconda Guerra Mondiale, e tuttavia poteva sopravvivere grazie alla sua posizione anticomunista, grazie alla quale riceveva assistenza economica e militare statunitense. Lo studio si concentra sulla politica estera spagnola verso Cuba, prendendo in considerazione come la Spagna sia stata in grado di “utilizzare” questa posizione contraddittoria. In primo luogo, Franco prestò grande attenzione a mantenere relazioni con Cuba. Nello specifico, sentiva che l’onore della Spagna, danneggiato dalla Guerra Ispano-Americana, era stato indirettamente recuperato da Cuba. In aggiunta, Franco e Castro condividevano valori comuni in termini di morale e patriottismo. In secondo luogo, le élite spagnole ritenevano che la Spagna richiedesse una politica “peculiare” che avrebbe stabilito il suo status di “media potenza e di Stato influente” in una particolare regione e le avrebbe permesso di distanziarsi dalla Guerra Fredda. In aggiunta, si pensava che la Spagna, sebbene tagliata fuori da gran parte della diplomazia europea, a causa di un regime non-democratico e anticomunista, potesse ancora giocare un ruolo come “intermediario” tra il mondo occidentale e l’America Latina, specialmente tra gli Stati Uniti e Cuba, senza richiedere cambiamenti al regime spagnolo.

 

 
NEOLIBERISMO E PENSIERO UNICO di Cristiano Procentese

Dopo il crollo del muro di Berlino e la conseguente caduta del sistema comunista, l’Occidente si è trovato improvvisamente privo di un’alternativa ideologica in grado di contrastare un capitalismo che, attraverso il fenomeno della globalizzazione, si è diffuso su scala planetaria. A partire dagli anni Ottanta è avanzata rapidamente l’ideologia neoliberista, fortemente orientata al cosiddetto laissez-faire, al mercato e alla finanza. Le conseguenze più evidenti sono: un eccessivo rafforzamento del mercato a spese di funzioni chiave dello stato, la crisi dei modelli tradizionali di stato sociale e di produzione, un crescente aumento delle diseguaglianze, della precarietà e un modello di società basato sui consumi. Appare evidente che l’attuale sistema politico non è in grado di governare i processi socio-economici della globalizzazione in atto. Bisogna pertanto decostruire l’immaginario collettivo basato sul “mantra” del mercato, sull’irreversibilità del modello di sviluppo economico attuale e ripensare criticamente un sistema sociale ed economico a misura d’uomo.

 

 
IBERISMO E ARABISMO IN FERNANDO PESSOA di F. Boscaglia e P.J. Pérez López

Oggetto d’indagine di questo breve articolo è il corpus di scritti nei quali Fernando Pessoa sostenne la tesi dell’unità culturale, più e prima che politica, dei popoli iberici. Pessoa analizzò le caratteristiche di tali popoli e, tra queste, la presenza di un elemento culturale arabo-islamico nell’Iberia. Gli obiettivi principali di questo studio sono di fornire una sintetica introduzione al pensiero iberista di Pessoa e di illustrare in particolare la presenza arabo-islamica in tale pensiero. Cenni di natura biobibliografica e storico-culturale corredano il testo con l’obiettivo di contestualizzarne i contenuti, oltre che nell’area degli studi pessoani, nel campo delle riflessioni sulla presenza arabo-islamica nella letteratura e nel pensiero europei.

 

 
LEGGI DELL’IMPERO AUSTRO-UNGARICO

Legge costituzionale sui diritti generali dei cittadini per i regni e paesi rappresentati al Reichsrath del 21 dicembre 1867.

Legge cisleitana sugli affari comuni a tutti i paesi della Monarchia au­striaca e sul modo di trattarli; del 21 dicembre 1867.

 

 
INTERVISTA A S.E. DING WEI, AMBASCIATORE DELLA CINA IN ITALIA a cura di Stefano Vernole

 

 

Imperialismo e Impero

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EURASIA 1/2013 (gennaio-marzo 2013), 272 pagine

 

Editoriale 

Claudio Mutti, Imperialismo e Impero

Geofilosofia

Marco Tullio Cicerone, L’ideale posizione geografica di Roma
Fabio Falchi, L’unità dell’Eurasia in una prospettiva geofilosofica

Dossario

Carl Schmitt, L’idea di Impero nel diritto internazionale
Aleksandr Dugin, L’Impero secondo Schmitt e la quarta teoria politica
Aleksandr Dugin, Progetto “Impero”
Fabio Falchi, L’Impero come grande spazio
Alain de Benoist, L’idea di Impero
Massimo Janigro, Perché gli USA non sono un Impero
Aldo Braccio, La vocazione imperiale dei Turchi
Andrea Fais, Il Partito Comunista Cinese alla riscoperta del Celeste Impero 
Francisco de la Torre Freire, Il mito dell’Impero nell’America indiolatina
Enrico Galoppini, L’Impero islamico

Continenti

Alessandro Lattanzio, La guerra civile in Yemen (1962-1970)
Paolo Sampaoli, Integralismo e disintegrazione
Giacomo Gabellini, Il petrolio e la supremazia geostrategica USA
Haruko Hosoda, La Spagna franchista e Cuba
Cristiano Procentese, Neoliberismo e pensiero unico
F. Boscaglia – P. J. Pérez López, Iberismo e arabismo in Fernando Pessoa

Documenti

Leggi dell’Impero austro-ungarico

Interviste

Intervista a S. E. Ding Wei, Ambasciatore della Cina in Italia

 

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto per ciascuno di essi. 
 

 

LA CONTROVERSA RIFORMA COSTITUZIONALE IN UNGHERIA

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Il parlamento ungherese ha adottato una serie di emendamenti alla Costituzione, proposta dal partito conservatore Fidesz del primo ministro Viktor Orban. Nonostante il voto sia stato boicottato dalle opposizioni, la larga maggioranza su cui Fidesz può contare in parlamento, circa i due terzi dei seggi, ha fatto sì che gli emendamenti venissero approvati. Le novità introdotte, che riguardano tra le altre cose la limitazione del potere della Corte Costituzionale nell’esercizio del controllo sulle leggi approvate dal parlamento, sono state duramente criticate dall’Unione Europea e dagli USA, che le hanno definite “antidemocratiche” (1). In realtà questo processo di riforme costituzionali è in corso da qualche anno, e soprattutto dal biennio 2010-2011, da quando cioè fu approvata la nuova Carta costituzionale ungherese, nel 2011. Il 29 giugno 2010, con la risoluzione 47/2010 il parlamento ungherese aveva istituito una commissione ad hoc per la redazione del testo costituzionale, composta da 45 membri, 30 dei quali delegati dalla coalizione di governo. Un’altra risoluzione, la 9/2011, ammetteva al dibattito in aula ogni proposta di emendamento che ottenesse almeno la metà dei consensi di almeno un gruppo parlamentare. Tuttavia, la bozza presentata il 14 marzo, discussa all’Assemblea Nazionale in soli nove giorni, era il frutto del lavoro di un comitato composto da soli tre membri, tutti di nomina governativa. Fra i dubbi e le critiche espressi in merito al processo costituente, spicca il giudizio formulato a marzo dalla Commissione di Venezia, un organo consultivo del Consiglio d’Europa che ufficialmente porta il nome di “Commissione europea per la Democrazia attraverso il Diritto”, interpellata dal governo ungherese con alcuni quesiti specifici, come ad esempio l’opportunità dell’incorporazione nella nuova Costituzione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La Commissione, adita dalle autorità magiare senza presentare una versione del testo, non ha potuto che dare il proprio parere “a scatola chiusa”. Ciò non ha impedito, però, che essa si esprimesse in maniera critica sui lavori preparatori della Costituzione, giudicati scarsamente trasparenti e dai tempi talmente serrati da non consentire un sufficiente dibattito pubblico. La commissione ha giudicato inoltre preoccupante l’esclusione delle forze di opposizione, dopo che queste ultime hanno ritirato i propri rappresentanti dalla commissione ad hoc in segno di protesta contro le forti limitazioni imposte dalla maggioranza alle competenze della Corte costituzionale. Il governo di Budapest si è inoltre rifiutato di sottoporre a referendum il testo approvato dal parlamento, preferendo un’insolita consultazione popolare in forma di “questionario” spedito a ogni cittadino ungherese prima che fosse stata resa nota la bozza della costituzione, dove si chiedeva di rispondere a dodici domande di questo tipo: “Deve la nuova Costituzione assumersi la responsabilità per le generazioni future?” (2). Gli emendamenti che limiterebbero le libertà politiche e civili sono diversi: è stata ridotta la possibilità per i partiti politici di fare campagna elettorale attraverso i media nazionali; gli studenti potranno ottenere delle sovvenzioni statali solo se si impegnano a lavorare in Ungheria dopo la laurea (che norma liberticida!); sono state introdotte multe e pene detentive per stroncare il fenomeno del vagabondaggio; è stata definita la categoria di “famiglia”, che non includerà più le coppie non sposate, quelle senza figli e quelle formate da persone dello stesso sesso (un’altra norma controcorrente in un’Europa dove i valori religiosi e tradizionali sono insignificanti!).

Sabato 9 marzo i partiti di opposizione e le organizzazioni che si occupano della difesa dei diritti civili in Ungheria avevano organizzato una manifestazione di protesta contro gli emendamenti proposti da Fidesz di fronte all’edificio del parlamento di Budapest. Diversi costituzionalisti ungheresi si erano uniti alle critiche, definendo le riforme come un’abolizione sistematica dell’ordine costituzionale del paese. Viktor Orban è primo ministro ungherese dall’aprile 2010. Già durante il suo primo anno di governo, Orban aveva fatto approvare dal parlamento alcune leggi che regolamentavano la libertà di espressione in Ungheria: per esempio, una legge del dicembre 2010 sottoponeva i media nazionali a un rigido controllo da parte di un’autorità nominata dal parlamento, dominato dal Fidesz. I più colpiti erano stati le testate giornalistiche, le reti televisive e i siti internet, che, se ritenuti responsabili di “compromettere la dignità umana”, potevano essere puniti con multe salatissime.

Lo scontro con l’Unione Europea, di cui l’Ungheria è Stato membro, sulla questione della riforma della Costituzione era già iniziato nel gennaio 2012: la Commissione europea aveva avviato tre procedure d’infrazione, più volte annunciate, contro l’Ungheria, a causa di alcune modifiche costituzionali entrate in vigore il primo gennaio che erano state ritenute incompatibili con il diritto europeo. La scorsa settimana l’Unione Europea e il Dipartimento di Stato americano avevano chiesto a Orban di rimandare il voto, valutando di nuovo le modifiche costituzionali non compatibili con gli impegni che l’Ungheria si è presa aderendo all’UE. Il Fidesz si era però rifiutato. Inoltre la Commissione europea e il Consiglio d’Europa hanno fatto sapere che gli emendamenti «suscitano preoccupazione in relazione al rispetto dello Stato di diritto, delle leggi europee e degli standard del Consiglio d’Europa». Tra i provvedimenti incriminati, a sentire i critici, compresa la costituzionalista di Princeton Kim Lane Scheppele, figurano la limitazione dei poteri della magistratura, della libertà di stampa e dell’autonomia finanziaria delle università. Il pacchetto comporta anche la potenziale “criminalizzazione” dei senzatetto, prevede che le chiese debbano collaborare con lo Stato, ribadisce la natura eterosessuale del matrimonio e impone – sempre in via potenziale – ai laureati che hanno ottenuto borse di studio di lavorare in Ungheria per un determinato periodo di tempo. La stampa estera denuncia quasi all’unisono queste misure, mentre il ministro degli esteri Janos Martonyi, che ha appena inviato una lettera a tutti gli omologhi europei, tende a rassicurare e sottolinea l’eccessivo baccano mediatico.

A Budapest c’è chi è sceso o scenderà in piazza contro Orban e prenderà invece le sue difese (3). Bianco e nero, buoni e cattivi. L’Ungheria continua a dividere e a dividersi. Al di là dei giudizi di merito, è il caso di chiedersi perché mai Orban abbia deciso di rilanciare in blocco tutti questi temi e di dare ad essi rilevanza costituzionale, facendoli confluire nella legge fondamentale entrata in vigore tra mille polemiche il primo gennaio 2012. Il fatto è che il testo varato dal parlamento mette insieme molte leggi ordinarie già approvate dalla maggioranza, ma bocciate dalla Corte costituzionale nel corso del tempo. Gli alti togati hanno dichiarato l’incostituzionalità delle norme sui senzatetto, dell’obbligo dei riceventi borse di studio pubbliche di restare a lavorare in Ungheria dopo la laurea e di alcune misure che interferivano con l’indipendenza dei giudici. Allora, perché il primo ministro si prende il rischio di aumentare la tensione della “guerra civile fredda” in corso in Ungheria, nonché quello di aprire un fronte con Bruxelles? Ci sono diverse letture. La prima è di carattere ideologico. Viktor Orban crede che lui e solo lui può e deve cambiare l’Ungheria, reduce da una transizione “spuria” che ha impoverito il paese economicamente e lasciato agli eredi del comunismo, che tanti danni fece, il diritto di calpestare l’arena pubblica e politica. La miscela di patriottismo, conservatorismo, voglia di resa dei conti con l’establishment post-comunista è la cifra dell’azione di Orban. La nuova Costituzione – atto di per sé legittimo perché la vecchia fu approvata al tempo del socialismo reale – è lo strumento con cui intende riformare l’Ungheria. Ci sono anche altre variabili. Scheppele, il giurista di Princeton, fa notare che entro l’aprile del 2014 il parlamento avrà nominato nove dei quindici membri della Corte costituzionale. È molto probabile che i nuovi esponenti del supremo organo giudiziario siano in quota Fidesz. Ne consegue, se le cose andassero così, che sarà difficile che sconfessino il pacchetto di leggi fresco di approvazione. Orban guarda anche alla prossima scadenza elettorale. Nel 2014 l’Ungheria andrà al voto e i sondaggi dicono che può giocarsela ancora. Il consenso del Fidesz è calato rispetto all’abbuffata di voti alle politiche del 2010 (52,73 per cento), anche pesantemente. Un recente rilevamento della società Median dice che il partito gode dell’appoggio di ventisei ungheresi su cento. Ma dall’altra parte c’è un’opposizione che non prende quota (socialisti al dodici e transfughi centristi dei socialisti all’otto). E bisogna contare gli indecisi: sono intorno al quaranta per cento. Due i ragionamenti che Orban potrebbe aver fatto. Il primo: blindare la Costituzione adesso evitando di portare le proteste a ridosso del voto. Il secondo: conquistare il voto degli indecisi, molti dei quali hanno votato Fidesz nel 2010. Come farlo? Attraverso la leva economica. L’Ungheria viene da anni molto duri. La produzione industriale è scesa dell’1,7% nel 2012. I consumi e gli investimenti dall’estero, rispetto al periodo pre-crisi, del dieci e del ventisette rispettivamente. Orban ha rifiutato le ricette austere del Fondo Monetario, realizzando una politica “non ortodossa”: più tasse sui grossi investimenti dall’estero, controllo sulla Banca centrale (il nuovo governatore è l’ex ministro dell’economia Janos Matolcsy) e tassi al minimo storico. Finora la ricetta non sembra avere prodotto risultati confortanti. Ma nel 2013 – così dice il governo – dovrebbe arrivare un minimo di ripresa e Orban potrebbe “distribuire” un po’ in vista della tornata del 2014, spingendo su il consenso. Eppure c’è un ostacolo. L’Ungheria è tenuta a riportare il deficit (pari al 3,4 per cento) sotto l’asticella del tre, come previsto dalle regole europee. Se non lo dovesse fare entro metà 2013, la Commissione potrebbe aprire una procedura d’infrazione e rovinare i piani del governo di Budapest.

Secondo alcuni intellettuali e giuristi, gli emendamenti, voluti dal premier populista, nazionalista ed euroscettico Viktor Orban allontanano ulteriormente Budapest dall’Europa democratica. Sono stati toccati in totale 22 articoli della Costituzione magiara, entrata in vigore nel 2012 e sponsorizzata, tra l’altro, dallo stesso Orban e dal Fidesz. A sottolineare il sentimento di alcuni movimenti politici del paese poi c’è stato il vero e proprio “Aventino” dei deputati socialisti, che hanno abbandonato l’aula parlamentare in segno di protesta contro le riforme costituzionali del governo conservatore. Inoltre, alcuni politici ungheresi pensano che l’obiettivo finale di Orban sia quello di eliminare ogni opposizione al governo. Proprio queste novità hanno indotto alcuni commentatori a parlare di un “golpe bianco” da parte di Orban e del Fidesz.

La reazione da parte dell’Europa non si è fatta attendere. In una dura e inusuale nota congiunta il Presidente della Commissione europea Barroso e il segretario generale del Consiglio europeo Jagland hanno dichiarato che gli emendamenti “destano preoccupazione per il rispetto dello Stato di diritto, delle leggi Ue e degli standard del Consiglio d’Europa” e hanno chiesto all’Ungheria di avviare “contatti bilaterali con le istituzioni europee per venire incontro a ogni preoccupazione”. Non sono mancate, naturalmente, reazioni anche all’interno del paese. L’ex Presidente della Repubblica Solyom ha lanciato un appello affinché l’attuale Presidente, Janos Ader, ponga il proprio veto sulle modifiche. È però improbabile che Ader, politicamente vicino a Orban, ostacoli gli emendamenti. Una prima risposta è stata data da Gergely Gulas, uno dei membri più in vista del Fidesz. “Nonostante il chiasso internazionale e interno è naturale che la maggioranza di governo usi il mandato ricevuto con elezioni democratiche”, ha dichiarato. “La gente si preoccupa delle bollette, non della Costituzione” ha annunciato Viktor Orban (4). Tutta questa situazione però ci spinge ad una breve riflessione: il modello della democrazia liberale, che da circa 70 anni coinvolge il continente europeo, sembra risentire fortemente della crisi economica. Non è strano quindi che alcuni dirigenti politici cerchino soluzioni alternative, per evitare alle proprie nazioni il tracollo generale. La Grecia è un esempio per tutti; bisogna aspettare una situazione del genere per avviare delle riforme serie?

Viktor Orban, a prescindere da giudizi eccessivamente ideologici, sta cercando di trovare una soluzione ragionevole, per evitare dei drammi alla propria nazione; per fare ciò, bisogna capire che non bastano provvedimenti economici, ma bisogna istruire e riformare la mentalità di un popolo, anche con azioni e norme “forti”, in quanto, da diversi decenni, i politici europei hanno parlato solo ed esclusivamente di diritti, ma nessuno osava più parlare di doveri: a scuola però mi avevano insegnato che diritti e doveri vanno di pari passo, ma la società borghese sembra interessarsi solo ai primi. Una nazione europea non può trovare una soluzione ragionevole all’attuale crisi economica senza dei valori forti, che pongano la base di una resurrezione sociale, altrimenti l’Europa rischia un declino lento, ma inesorabile. Se in Ungheria il governo decide di attuare delle riforme, che secondo certi canoni fossilizzati vengono bollate come “antidemocratiche”, se il partito di maggioranza relativa in Italia è un movimento che ha nel proprio programma la proposta di un referendum per l’uscita dell’Italia dall’Euro, e se altrove crescono i movimenti euroscettici, la colpa di certo non è dei popoli, ma dei dirigenti europei che hanno trascinato un continente dalle enormi possibilità in un baratro culturale, sociale ed economico, dal quale si può uscire solo con scelte coraggiose, che non necessariamente devono avere il consenso dei burocrati di Bruxelles e dell’amministrazione nordamericana.

 

 

 

1- http://www.ilpost.it/2013/03/11/la-riforma-della-costituzione-in-ungheria/

2- http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/telescopio/0029_desimone.pdf

3- http://www.europaquotidiano.it/2013/03/12/orban-ungheria/

4- http://ilreferendum.it/2013/03/12/ungheria-una-svolta-che-preoccupa-leuropa/

 

INTERVISTA ALL’ON. VITTORIO CRAXI

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EurasiaLa visita da Lei effettuata il 6 marzo all’Ambasciata del Venezuela per rendere omaggio al Presidente Chavez deve essere interpretata come un gesto di cortesia diplomatica o come un atto ispirato da solidarietà politica nei confronti del “socialismo del XXI secolo”?

On. CraxiHugo Chavez è stato un protagonista indiscutibile della storia recente del Sud America, i sentimenti da cui ero mosso per il mio omaggio nascono innanzitutto dalla vicinanza stretta che lega l’Italia al popolo venezuelano e dalla sincera ammirazione per la determinazione con la quale Egli ha cercato di riequilibrare le diseguaglianze sociali del suo popolo non facendosi condizionare dal peso e dalla forza del vicino Americano. Naturalmente luci ed ombre gravano su questa esperienza a cavallo fra il castrismo e l’epopea bolivariana in chiave moderna, nulla di più distante dal modello socialdemocratico a cui io mi ispiro e tuttavia non per questo non meritevole di attenzione e di rispetto politico.

 

 

EurasiaNel numero 3/2010 di “Eurasia” abbiamo rievocato la battaglia del PSI contro l’adesione al Patto Atlantico, ripubblicando fra l’altro il testo della dichiarazione di voto di Pietro Nenni del 18 marzo 1949, ma ricordando anche che dieci anni più tardi Arthur Schlesinger rassicurò la Casa Bianca circa l’accettazione de facto della NATO da parte dello stesso Nenni. Trascorso un quarto di secolo dal crollo di quell’assetto bipolare che aveva fornito agli Stati Uniti la giustificazione ufficiale per mantenere l’occupazione militare dell’Europa occidentale, a quale delle due distinte posizioni assunte dal capo socialista ritiene che l’attuale Partito Socialista debba ricollegarsi? 

On. Craxi -   È passato più di mezzo secolo dalle vicende politiche che si svolsero a ridosso del dopoguerra e quelle posizioni socialiste furono superate a suo tempo, giustamente, dallo stesso Nenni. E’ chiaro ed evidente che l’Alleanza Atlantica col passare degli anni ha smarrito la sua ragione difensiva e si è via via andata trasformando progressivamente anche “associando” nuovi paesi e nuove realtà politiche e militari. In assenza di un equilibrio nuovo è evidente che ci si trova di fronte ad un’eredità del passato che non ha fatto ancora i conti con una situazione radicalmente in via di trasformazione. Penso che la prospettiva di una difesa Europea potrebbe superarne la ragione d’essere, fermo restando un rapporto di collegamento con la potenza atlantica. Il sistema, lo ripeto, dovrebbe agire solo in chiave difensiva, scongiurando eventuali attacchi esterni; negli anni novanta, rilevo, si è assunta altre funzioni probabilmente contravvenendo ai principi fondativi.

 

 

EurasiaDati il Suo particolare rapporto con la Tunisia e la Sua funzione nell’ambito dell’associazione “Amici della Tunisia”, Lei potrebbe sicuramente fornire un’interpretazione fondata degli avvenimenti che hanno scosso il Paese nordafricano. Qual è la Sua opinione circa il fenomeno delle cosiddette “primavere arabe”? Dobbiamo davvero credere che esso abbia avuto esclusivamente origine da fattori endogeni? 

On. CraxiChe vi sia stata nella vicina Tunisia una sommossa di popolo scaturita dalle gravi condizioni sociali, che non sono ancora sopite, che hanno colpito la parte del paese più derelitta è un fatto reale. È altresì comprovato che nella crisi temporanea del regime Ben Ali si è introdotta un’accelerazione così rapida che non è affatto scontato attribuirla alla mera spontaneità. Elementi di implosione interna, dettati dall’inevitabile logorio di un’autocrazia che durava da oltre un ventennio, sono stati certamente accompagnati da potenze esterne interessate al “regime change”. Si è spesso equivocato sul significato di Primavera Araba così come su quella della cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini. Alle speranze di progresso democratico e di libertà civili presto si sono sostituiti i presagi cupi di altre involuzioni autoritarie sotto il segno del fanatismo religioso, accompagnati da un furore giustizialista iconoclasta che ha reso ingovernabile il paese per oltre due anni ed ha fatto conoscere alla vicina ed amica Tunisia il periodo forse  più drammatico dall’indipendenza sino ad oggi. Ci sono tuttavia nel paese risorse umane, intelligenze e spiriti forti che possono spingere il paese verso una prospettiva di reale libertà politica e religiosa costruendo un modello di convivenza civile e di progresso economico per buona parte del mondo arabo. Non bisogna smarrire la speranza,  un’evoluzione positiva è importante anche per noi.

 

 

EurasiaQuali saranno, nella legislatura parlamentare che si apre adesso, le linee di politica estera del PSI davanti alla prospettiva di un mondo in cui emergono potenze statali che rivendicano una loro funzione sullo scenario mondiale?

On. CraxiÈ evidente che ci troviamo dinnanzi ad uno scenario internazionale profondamente in trasformazione, segnato dalla crisi recessiva che spinge molte nazioni a reclinarsi su se stesse. Del modello globale è necessario cogliere soltanto le opportunità positive rigettando e respingendo il falso mito del nuovo ordine politico mondiale e l’idea di un pensiero economico unico che oggi ha messo in ginocchio l’Europa ed ha allargato vieppiù le differenze fra Nord e Sud del mondo.
L’Italia ha il dovere di promuovere più Europa e nell’Europa essere alla testa delle medio-potenze che dialogano e si intersecano con il Mediterraneo e l’Africa.
Non mancano e non mancheranno i dossier sui quali l’azione parlamentare potrà essere di stimolo, di proposta, di controllo sull’attività del governo, qualora si formi, che mi auguro sia meno anchilosato dell’ultima esperienza del governo tecnico.

 

 

EurasiaQuali sono, a Suo giudizio, le forze politiche italiane più svincolate dalla politica di allineamento atlantico e quindi le più propense a seguire una linea d’azione adeguata al mondo multipolare che si va configurando ? 

On. Craxi – Non ragionerei esclusivamente in termini di posizionamento ostile alla Nato,  ma piuttosto del superamento delle forme tradizionali legate al precedente blocco di divisione mondiale. Nuovi protagonismi in questo senso ancora non sembrano affiorare se non su scala regionale. Gli Usa sembrano determinati a mantenere la propria funzione di leadership mondiale e, nei propositi di Obama, rovesciando l’impostazione della precedente amministrazione. Le forze politiche attuali, quelle uscite dalle ultime elezioni, mi appaiono assai deboli e distratte sul terreno dell’iniziativa internazionale. Questo ha reso possibile l’evidente sostegno di ampi settori della finanza internazionale ad esponenti e movimenti politici che apparivano destinati alla vittoria od alla affermazione elettorale. Forze politiche svincolate, come dice lei, ne vedo proprio poche. Anzi, non ne vedo affatto.

 

 

EurasiaNon ritiene che la proposta di un approccio multipolare nelle nostre relazioni internazionali possa rappresentare una scelta vantaggiosa per l’Italia anche sotto il profilo economico? Pensiamo soprattutto alle grandi economie emergenti dei cosiddetti Paesi del BRICS, che offrono buone possibilità sia per le esportazioni sia per gli investimenti delle nostre imprese, strangolate dalla crisi economica dell’eurozona.

On. Craxi – Non c’è dubbio che esistano opportunità di rilievo per la nostra economia; i fattori che frenano questo aumento delle nostre capacità sono sicuramente da trovare nella farraginosità dei vincoli che regolano il mondo del lavoro e della scarsa propensione delle nostre imprese all’internazionalizzazione ed all’innovazione. Un sistema sovente protetto che ora si è trovato di fronte una competizione globale verso la quale è assai difficile fare fronte. Nonostante questo resta in campo tutta la forza evocativa del cosiddetto Made in Italy, la nostra superiorità culturale in molti campi, la nostra creatività e genialità che sovente sopperisce alle nostre arretratezze.

 


LE RIVOLTE GATTOPARDIANE. ANALISI E PROSPETTIVE DEL BACINO DEL MEDITERRANEO

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Questo saggio di William Bavone costituisce una dettagliata riflessione sulle prospettive di sviluppo politico ed economico che scaturirebbero da un incontro proficuo e paritario tra l’Europa e la “sponda Sud” del Mar Mediterraneo, culla delle antiche civiltà che hanno forgiato la cultura europea.

L’approccio dell’autore è quello dell’economista, che si cimenta nel tentativo di individuare le potenzialità intrinseche (demografiche, economiche, geografiche, geopolitiche, ecc.) della regione mediterranea, ponendo sotto la lente d’ingrandimento lo stato dell’agricoltura e del settore industriale, e allo stesso tempo sottolineando l’importanza di ammodernare e potenziare le infrastrutture, necessarie per garantire lo sviluppo areale.

Bavone si mostra decisamente critico nei confronti dell’Unione Europea, costituita in gran parte da contabili legati a doppio filo agli Stati Uniti, capaci unicamente di accodarsi alle direttive di Washington anche se ciò – come accade quasi sempre – equivale ad andare contro gli interessi dell’Europa stessa. Per dimostrare questa tesi, l’autore si sofferma abbondantemente sulle cosiddette “primavere arabe” e sull’atteggiamento (a dir poco) inadeguato tenuto da tutti i Paesi europei, i quali, intravedendo una presunta “pulsione democratica” alla base di tutte le rivolte, hanno finito per allinearsi sulle posizioni francesi e britanniche appoggiando l’aggressione alla Libia, che ha prodotto il caos in tutto il nord-Africa (e anche nel Sahel) e determinato il netto ridimensionamento della presenza italiana nell’ex colonia.

Mostrando una notevole dose di disincanto, Bavone è giunto a proporre un paragone tra le rivolte che hanno scosso il mondo arabo e le dinamiche che portarono all’unità d’Italia descritte all’interno de “Il Gattopardo”; in entrambi i casi si sarebbe trattato di cambiamenti di facciata promossi per garantire la permanenza dello status  quo.  «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», afferma il Principe di Salina nel capolavoro di Giuseppe Tomasi da Lampedusa. Il lettore , che stabilirà se la diagnosi di Bavone sia più o meno corretta, non potrà esimersi dall’apprezzare il carattere multidisciplinare (imprescindibile per chiunque intenda approcciare a questioni di rilevanza geopolitica) del lavoro di analisi e di approfondimento offerto dall’autore, corredato da tre interessantissimi saggi introduttivi a firma di Bruno Amoroso, Vincenzo Mungo e Alberto Hutschenreuter.

 

 

*Le rivolte gattopardiane. Analisi e prospettive del bacino del Mediterraneo, Anteo Edizioni, Cavriago (RE) 2012. 

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L’ISLAM E L’EUROPA: DUE PUNTI DI VISTA OPPOSTI

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L’editore Armando ha appena pubblicato un saggio di Nilüfer Göle intitolato L’Islam e l’Europa. Interpenetrazioni. L’autrice, che attualmente dirige l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, è nata in Turchia ed ha insegnato a Istanbul, all’Università del Bosforo, per cui può considerarsi qualificata per affrontare da una duplice prospettiva il rapporto tra l’Islam e l’Europa. D’altronde essa ritiene che il suo Paese d’origine, esempio di quotidiana coesistenza di tradizione e modernità nell’ambito privato e in quello sociale, svolga “un ruolo importante in questa conversazione tra civiltà, perché sin dall’abolizione del califfato e dalla svolta laicista di Atatürk (…) ha rappresentato un’importante posta in gioco, non solo per l’Europa, ma anche per il mondo arabo e musulmano” (p. 33).

La relazione tra l’Islam e l’Europa, a parere di Nilüfer Göle, richiede una necessaria ridefinizione del rapporto con la modernità. Da parte dei musulmani si tratta di “identificarsi con la modernità senza rinunciare all’Islam, come fanno i laici in Turchia”, mentre l’Europa deve “riflettere criticamente sulla sua definizione di modernità”, basandosi sulla propria capacità di “creare una relazione con l’Altro, lo straniero, una capacità che a sua volta è sinonimo di democrazia” (p. 172).

Ci sia consentito di dire che una proposta di questo genere evidenzia la sua fondamentale debolezza proprio per via del richiamo a due principi che vengono ritenuti obbligatori ed irrinunciabili: nella fattispecie, la laicità e la democrazia.

Per quanto riguarda la laicità, non sarà fuor di luogo ricordare che in origine il termine “laico” (dal greco laikós, “volgare”, “profano”) si contrappone propriamente a “chierico” (col significato di “dotto”) e designa perciò l’individuo ignorante, sicché risulta più che fondata questa osservazione di Guénon: “certa gente, che nella nostra epoca si vanta di essere ‘laica’, insieme con quella che si compiace di dirsi ‘agnostica’ (e spesso si tratta delle stesse persone), non fa altro che gloriarsi della propria ignoranza; e questa ignoranza deve essere in effetti molto grande e veramente irrimediabile, se non si accorge che tale è il significato delle etichette di cui si fregia”. Tuttavia, anche se intesa nel significato corrente di separazione della politica dalla religione e di estraneità dello Stato rispetto alle questioni religiose, la nozione di laicità risulta del tutto incompatibile con la cultura islamica, in quanto secondo quest’ultima la legge dello Stato deve fondarsi sulla giurisprudenza sciaraitica, che a sua volta procede dai principi insiti nel Corano e nella Sunna profetica. A questo proposito sarebbe il caso di osservare che uno Stato musulmano comunemente considerato “laico”, ossia la Siria, smentisce in maniera incontestabile tale qualifica laddove proclama, nel suo stesso dettato costituzionale, che fonte principale della legislazione è il diritto islamico e che il presidente deve essere di religione musulmana.

Quanto poi alla democrazia, la sua incompatibilità con l’Islam appare evidente non solo dalla storia del mondo musulmano, ma dallo stesso testo coranico, che della democrazia nega esplicitamente il fondamento individualistico ed egualitario: “Sono forse ritenuti uguali il cieco e colui che vede, o sono forse ritenute uguali le tenebre e la luce?” (Cor., XIII, 17).

Logiche quindi le conclusioni che vengono tratte da Luciano Pellicani (Jihad: le radici, Roma 2004, pp. 66-67) in ordine alla questione del rapporto tra Islam e democrazia: “La stessa idea – così tipica della moderna democrazia liberale -, secondo la quale la legge è cosa fatta dagli uomini, non può non risultare blasfema per chi, come i musulmani ortodossi, considerano il ‘potere legislativo riservato a Dio’ (Khomeini, Il governo islamico) e, conseguentemente, vedono nel diritto la Parola Divina (Kalam Allah), di fronte alla quale è concepibile un solo atteggiamento: l’obbedienza senza riserve – l’islam, per l’appunto. Donde il rifiuto dell’individualismo (…) valore fondamentale della civiltà occidentale”.

Proporre come condizione del rapporto tra l’Europa e l’Islam l’assimilazione di quest’ultimo alla modernità equivale perciò a proporre la deislamizzazione dell’Islam; così come identificare l’Europa con l’Occidente, secondo una sinonimia che nel libro di Nilüfer Göle viene data per scontata, significa alterare l’identità dell’Europa. Un risultato, questo, di cui l’autrice sembra d’altronde ben consapevole, poiché in maniera esplicita e brutale essa sostiene che sia l’Europa sia l’Islam devono superare “le loro fissazioni sull’identità culturale” (p. 34).

In che modo dunque l’Europa e l’Islam potrebbero impostare una relazione benefica per entrambi, capace di preservare la loro specificità senza annullarla nel tritatutto della modernità occidentale?

Come alternativa alla ricetta eutanasica sintetizzata più sopra, vogliamo ricordare la proposta formulata trentacinque anni or sono in un saggio che reca lo stesso titolo di quello scritto da Nilüfer Göle: Islam ed Europa di Antonio Medrano (Quaderni del Veltro, 1978). L’autore spagnolo puntava ad un’intesa euroislamica fondata su principi diametralmente opposti a quelli contenuti nell’omonimo libro della Göle, illustrando il suo progetto con una chiarezza che non è oscurata dal pathos e dalla retorica dell’esposizione:

“Non occidentalizzazione e modernizzazione dell’esistenza, – scriveva Medrano – non ripudio della propria tradizione celeste; ma islamizzazione, rivoluzione spirituale islamica, ritorno alle origini (…) Questo chiediamo noi oggi al mondo dell’Islam: fedeltà alla propria tradizione, esempio spirituale per l’Europa” (pp. 108-111). “Il mondo musulmano – secondo l’autore – deve preservare e difendere con fermezza il suo ricco ed elevato patrimonio tradizionale, riscoprire e ravvivare questa poderosa luce spirituale di cui è portatore; luce e patrimonio che, nell’attuale mondo materialista, rappresentano una speranza di libertà, anche per la nostra Europa” (p. 110); alla quale l’Islam può presentarsi “come un faro che ci illumina e ci aiuta a ritrovare la nostra propria via (…) Esso potrà diventare per noi (…) una via che ci conduce a ritrovare la nostra propria luce, la luce dei nostri antenati” (p. 105). Infatti “il nucleo della tradizione islamica contiene un retaggio spirituale affine al nostro, racchiude qualcosa che ci appartiene e possiamo considerare come nostro” (p. 13).

 

 

 

 

 

ERNESTO MASSI TRA GEOGRAFIA E POLITICA

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Giornata di studio in occasione dell’acquisizione delle Carte Massi presso la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.
 

Lunedì 25 marzo 2013

Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice

Via Genova, 24 – Roma

Il rapporto tra geografia e politica ha costituito il tema dominante a partire dalla fine dell’Ottocento, per poi divenire preponderante nel periodo compreso tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Una relazione molto stretta che costituisce, in termini generali, l’ambito in cui si muove la geopolitica, ovvero lo studio dell’interazione tra l’ambiente fisico dell’essere umano e le sue forme di vita politica. La relazione tra i due concetti, dopo l’oblio in cui finì nel secondo dopoguerra, è tornata alla ribalta a partire dagli anni Ottanta e soprattutto negli anni Novanta con la fine della Guerra Fredda e il crollo del muro di Berlino poiché, pur venendo meno la contrapposizione ideologica, permangono e anzi si ripropongono i conflitti per il controllo e il dominio del territorio.

In Italia uno dei maggiori interpreti del rapporto fra geografia e politica è stato Ernesto Massi (Trieste 1909 – Roma 1998), già docente di Geografia Economica all’Università di Roma “La Sapienza”, considerato dagli studiosi il corifeo della geopolitica italiana assieme a Giorgio Roletto, con cui diede vita alla fine degli anni Trenta all’esperienza della rivista Geopolitica. La Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice – che di recente ha acquisito l’Archivio Massi – in collaborazione con la Società Geografica Italiana, di cui Massi fu Presidente negli anni 1978-1987, si propone di ricordare l’attività dello studioso e del politico in un convegno che ripercorre le tappe più importanti della sua biografia.

Il convegno è suddiviso in due sessioni che si terranno presso la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.

La prima, al mattino, avrà come tema portante gli studi di Ernesto Massi, gli anni della formazione, la partecipazione all’attività politica e culturale del nostro Paese fino al termine della Seconda guerra mondiale. Ad aprire la serie di interventi sarà una relazione sulle origini della geopolitica italiana. Seguiranno contributi sull’attività scientifica di Massi, con l’obiettivo di collocare storicamente il suo percorso formativo. Una relazione approfondirà il periodo in cui lo studioso insegnò presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, mentre gli interventi successivi saranno dedicati ai rapporti tra geopolitica italiana e geopolitica tedesca e alla scuola romana di geografia economica cui Massi diede un contributo significativo.

La seconda parte del convegno si svolgerà nel pomeriggio e sarà dedicata all’impegno politico-culturale e all’attività universitaria svolta da Massi a partire dal fascismo e poi nel secondo dopoguerra, quando si impegnò per la nascita del Movimento Sociale Italiano e per la fondazione del Partito Nazionale del Lavoro. La sessione si concluderà ricordando l’adesione dello studioso all’Istituto di Studi corporativi e l’attività che svolse in questo ambito.

 

 

PROGRAMMA

I sessione  – ore 10.30-13.00

Il pensiero scientifico

 

Moderatore

Franco Salvatori

Presidente della Società Geografica Italiana

Università di Roma “Tor Vergata”

 

Relazioni:

 

Lidia Scarpelli

“Sapienza” – Università di Roma

Ernesto Massi e la scuola romana di geografia economica

 

Alessandro Ricci

Università di Roma “Tor Vergata”

Ernesto Massi e la geopolitica italiana

 

Matteo Marconi

“Sapienza” - Università di Roma

Ernesto Massi di fronte alla geopolitica tedesca di Karl Haushofer

 

Proiezione del DVD

Intervista a Ernesto Massi: sulle tracce della geografia coloniale

a cura di Emanuela Casti, Società Geografica Italiana 2007

 

A seguire verranno proiettati una serie di documenti inediti

sulla biografia umana, politica e scientifica di Ernesto Massi

 
 

II sessione – ore 15,00-17,00

Il pensiero e l’attività politica

 

Moderatore

Giuseppe Parlato

Presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice

Università Luspio

 

Relazioni

 

Domenico Caccamo

“Sapienza” - Università di Roma

Ricordo di Ernesto Massi

 

Andrea Perrone

Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice

Tra Mistica fascista, attività scientifica e Seconda guerra mondiale

 

Gianni Scipione Rossi

Vicepresidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice

Massi tra Msi e Pnl

 

Gaetano Rasi

Presidente Emerito della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice

Massi e l’Istituto di Studi corporativi

 

IL CASO ISLANDA E I LIMITI DEL COMPLOTTISMO

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Molti lettori ricorderanno il caso dell’Islanda, la piccola isola che nell’estate del 2011 salì alla ribalta delle cronache internazionali per aver ridiscusso le sue trattative con il Fondo Monetario Internazionale. Proprio a metà settembre di due anni fa, la primo ministro islandese Jóhanna Sigurðardóttir annunciò, nel corso di una conferenza stampa, la partenza dei funzionari del FMI dal Paese. In Europa, e soprattutto in Italia, si scatenò un tripudio mediatico quasi senza precedenti che indicò nella rinegoziazione concordata tra il governo islandese e il FMI un atto rivoluzionario presumibilmente indotto dal referendum con cui la maggior parte dei cittadini della nazione insulare si erano espressi. In realtà quel referendum riguardava un solo aspetto all’interno degli adempimenti nei confronti della principale istituzione finanziaria internazionale del pianeta, ovvero la restituzione aggiuntiva dei debiti contratti da una compagnia bancaria privata islandese, la Icesave, con gli investitori stranieri. Il popolo islandese giustamente si oppose al riconoscimento di questa voce debitoria, che avrebbe chiaramente seguito il percorso del classico rimedio cui un certo sistema bancario irresponsabile ed un certo sistema industriale decotto amano ricorrere: privatizzare gli utili e socializzare le perdite. Nella prima decade del XXI secolo, però, era stata proprio la Banca Centrale Islandese a gonfiare illusoriamente il volume finanziario nazionale, fissando tassi d’interesse altissimi per gli investitori stranieri e drogando un’economia ormai ben lontana dalle attività ittiche ed agricole cui l’immaginario collettivo era abituato a pensare di fronte alla piccola isola atlantica. Il crollo finanziario della Lehman Brothers innescò così un processo incontrovertibile che portò l’Islanda sull’orlo dell’autoimplosione economica.

Eppure negli accordi conclusi tra il governo islandese e il FMI durante il quadriennio 2008-2011 non c’è traccia di alcun “gran rifiuto” del sistema finanziario internazionale. A preoccupare la popolazione in quella fase era la perdita delle garanzie sociali di un Welfare contraddistinto da parametri di sviluppo e di benessere tra i più elevati al mondo. Il ministro dell’Economia e del Commercio Árni Páll Árnason aveva fatto riferimento proprio al rischio di una deflagrazione sociale del Paese nel caso in cui il FMI avesse imposto parametri di restituzione analoghi a quelli che aveva già messo in evidenza nel passato intervenendo sulle economie meno avanzate del Sud Est Asiatico o dell’America Latina(1). L’Islanda, spaventata, cercò così con decisione ed ostinazione una rinegoziazione degli accordi che convinse il FMI a garantire prestiti più accomodanti ad un Paese che oggi sta cercando di ristrutturare la sua economia attraverso una nuova fase di transizione concordata(2). Il clima politico nel Paese ad un anno e mezzo da quella momentanea “crisi diplomatica” è dunque ben lontano dai presunti scenari rivoluzionari che venivano contemporaneamente tratteggiati su alcuni giornali, siti e blog italiani. Eppure tutti cavalcarono quella notizia distorta e gonfiata: dalle fazioni radicali antagoniste a “Il Fatto Quotidiano”, fino agli immancabili Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio che, proprio dalle colonne del giornale diretto da Antonio Padellaro e Marco Travaglio, scrissero: «L’Islanda è l’unica nazione che si è rifiutata di salvare le banche. In un primo momento, nel 2008, il suo governo nazionalizzò le banche fallite. Il debito creato da istituti privati sarebbe quindi finito sulle spalle dei cittadini, che si opposero. Venne allora indetto un referendum che bloccò la nazionalizzazione, riproposta però alcuni mesi più tardi dal ministro dell’Economia Steingrimur Sigfusson. Gli islandesi non salvarono le banche, pur sapendo di dover affrontare pesanti ritorsioni da parte dei paesi Ue che avrebbero perso i loro depositi, ma evitarono di svendere il loro paese e di metterlo sotto tutela del Fmi»(3).

Un tema fondamentale, come quello della sovranità politica dello Stato, fu per l’ennesima volta manipolato da slanci estremistici, pronti a distorcerne strumentalmente la portata per soddisfare le smanie complottiste dei più gretti sentimenti politici sciovinisti, micro-nazionalisti, malthusiani, ambientalisti o semplicemente qualunquisti. In realtà, ad una prima analisi di queste presunte e deficitarie ricostruzioni cronachistiche risultava evidente l’assenza di una benché minima disamina del contesto geopolitico, geoeconomico e geostrategico nel quale l’Islanda si muoveva e si muove. Inserita per oltre cinque secoli nel dominio del Regno di Danimarca, ancor prima della fine del Secondo Conflitto Mondiale, la nuova Repubblica islandese dichiarò la sua indipendenza dalla Corona di Copenaghen, ottenendo ben presto il riconoscimento dell’ONU nel 1946 e l’adesione alla NATO nel 1949, della quale l’Islanda è Paese membro fondatore, esattamente come Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia o Italia. L’Islanda dal 1960 è inoltre membro dell’AELS (Associazione Europea di Libero Scambio), il gruppo che riunisce i Paesi europei esterni alla Comunità Economica Europea prima e all’Unione Europea poi, e dal 1994 ha aderito allo Spazio Economico Europeo. Proprio a partire dal 2009, la primo ministro Jóhanna Sigurðardóttir, espressione dell’Alleanza Socialdemocratica, ha voluto imprimere una sostanziale accelerazione al processo di adesione dell’Islanda all’Unione Europea facendo leva sulle difficili condizioni economiche in cui si trovava il Paese. Il 24 febbraio 2010 la Commissione Europea ha definitivamente accolto la richiesta di avvio dei negoziati affermando in una nota ufficiale: «L’Islanda condivide tanti valori dell’UE, come una democrazia solida e il rispetto dei diritti umani. In quanto Paese dello Spazio Economico Europeo, è anche già integrata nel mercato europeo e ha recepito gran parte della legislazione dell’UE»(4).

Proprio il 27 giugno 2011, cioè durante l’estate in cui – secondo il complottismo internauta – sarebbe cominciata la fantomatica rivoluzione islandese, hanno preso il via le discussioni nel quadro dell’acquis comunitario, ossia gli atti giurisprudenziali di verifica comparata dei requisiti politici, economici, amministrativi e giudiziari ai quali ogni singolo Paese che richieda l’integrazione nell’Unione Europea deve ottemperare(5). I lavori prevedono una fase di “screening”, cioè di prima verifica, e una fase di studio. Dei 33 capitoli complessivi sottoposti ad analisi, ben 27 hanno già passato la fase di prima verifica (tra i quali quello relativo al “Libero movimento delle merci”, quello al “Libero movimento dei lavoratori”, quello ai “Servizi finanziari”, quello all’“Impresa e politica industriale”, quello al “Controllo finanziario” e quello alle “Reti trans-europee”) e già 11 sono stati definitivamente chiusi tra il 2011 e il 2012. Soltanto nel gennaio di quest’anno, l’Islanda, in attesa del risultato delle prossime elezioni politiche previste ad aprile, ha deciso di congelare i negoziati di adesione per consentire al prossimo governo di riprendere pienamente in mano la situazione senza modifiche dell’ultimo momento.

Per quanto riguarda il sistema difensivo, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale l’Islanda ha definitivamente sposato una linea non-militarista, simile a quella adottata dalla Confederazione Elvetica, ma ha contestualmente preso parte alla fondazione della NATO, cedendo agli Stati Uniti – in base agli accordi di cooperazione del 1951 – la base militare di Keflavik, nella penisola sud-occidentale di Reykjanes, che durante la Guerra Fredda svolse un ruolo di elevata importanza nell’ambito del controllo e del monitoraggio marittimo dello spazio transatlantico. Basti pensare che alla fine degli anni Ottanta questa installazione militare ospitava 18 aerei intercettori F-15, 9 aerei per la sorveglianza marittima P-3, 2 aerei radar E-3 (AWACS), 1 aereo cisterna KC-135, più altri mezzi di supporto, oltre al personale di terra, le postazioni radar e gli scali a disposizione della Marina degli Stati Uniti(6). Non è casuale dunque che la Gran Bretagna decise di rinunciare alle sue pretese durante la cosiddetta “terza guerra del merluzzo” (1975) assecondando le richieste islandesi in materia di pesca, dinnanzi ad un governo locale che per ritorsione minacciava di chiudere la base di Keflavik e, dunque, di depotenziare notevolmente le capacità nordatlantiche di contenimento della flotta sottomarina sovietica(7). La base è stata chiusa soltanto nel 2006. Tuttavia l’Islanda, priva di un vero e proprio esercito e dotata solo di una guardia costiera composta da 130 uomini, tre unità per il pattugliamento munite di elicotteri, alcuni velivoli di supporto ed una base presso Reykjavik(8), resta saldamente un Paese membro dell’Alleanza Atlantica con prospettive di sviluppo militare non secondarie. La costruzione di uno strumento di difesa moderno rappresenta infatti un obiettivo di lungo termine molto dibattuto in patria, soprattutto alla luce dell’iter intrapreso dopo il 2006. Nel 2007, l’Islanda ha concluso un accordo con la Norvegia nel quadro della cooperazione contro il terrorismo internazionale, che consente ai velivoli militari di Oslo un occasionale utilizzo della base di Keflavik, mentre a partire dal 2006 il Ministero della Difesa islandese ha assunto un ruolo di direzione condiviso con US EUCOM in occasione della serie di esercitazioni denominate “Northern Viking”(9), finalizzate al miglioramento delle capacità aeronavali della NATO nella regione del Mare Artico, dove sempre più tese si fanno le dispute “petrolifere” tra Stati Uniti, Canada, Russia, Norvegia e una Groenlandia sempre più prossima alla completa indipendenza dalla Danimarca. Inoltre, nell’ambito del cosiddetto peacekeeping, diversi ufficiali di polizia, medici, ingegneri ed esperti civili islandesi hanno preso parte, tra gli anni Novanta e gli anni Duemila, alle missioni SFOR (in Bosnia-Erzegovina e Macedonia), KFOR (Kosovo) e ISAF (Afghanistan).

In conclusione è chiaramente comprensibile come l’Islanda resti solidamente integrata nel sistema economico e difensivo euro-atlantico, quasi totalmente priva di veri e propri margini di autonomia a causa di una collocazione geografica e di una situazione interna evidentemente svantaggiose: l’isolamento nel cuore della regione settentrionale dell’Oceano Atlantico, la scarsa presenza di risorse naturali nel sottosuolo e le difficoltà economiche provocate dalla crisi finanziaria del 2008 hanno creato condizioni storico-politiche tali da rafforzare, e non certo scalfire, la tradizionale collocazione geopolitica e geoeconomica del Paese. Nessuno può certo prevedere cosa avverrà in futuro ma nel 2011 non vi fu alcuna rivoluzione. Questo possiamo dirlo.

 

 

 

NOTE:

1. ASI, Islanda: il Fondo Monetario Internazionale se ne va. Dopo circa tre anni, il Fondo Monetario Internazionale e l’Islanda prenderanno strade diverse, 28 agosto 2011.

2. Ibidem.

3. B. Grillo – G. Casaleggio, Raccontare l’economia per difendere i cittadini, da “Il Fatto Quotidiano” del 18 novembre 2011.

4. Commissione Europea, Islanda: OK!, nota ufficiale del 24 febbraio 2010.

5. Council of the European Union, Second meeting of the Accession Conference with Iceland at Ministerial level, Brussels, June 27th 2011.

6. (cfr.) Iceland, Nato and the Keflavik Base, a cura della Commissione Islandese di Sicurezza (Öryggismálanefnd), 1989.

7. “Now, the Cod Peace,” Time, June 14, 1976, p. 37.

8. G. Sardellone, Un’originale politica di sicurezza: il caso dell’Islanda, da “Informazioni della Difesa online”, a cura dello Stato Maggiore del Ministero della Difesa della Repubblica Italiana, 10 luglio 2012.

9. Ibidem.

VERSO UN NUOVO COLPO DI STATO OCCIDENTALE IN ALGERIA?

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Ci hanno già provato nel mese di gennaio e nel mese di agosto-settembre 2011. La crisi libica, l’attacco contro la Siria e le operazioni della NATO nel Sahel hanno semplicemente rimandato le loro operazioni in vista di un colpo di stato filo-occidentale. Queste reti di destabilizzazione non devono essere confuse con le reti jihadiste incaricate, in seguito, di trasformare la rivolta in una guerra civile.

Dietro queste reti si ritrovano gli attivisti arabi addestrati a Belgrado e negli Stati Uniti da OTPOR e CANVAS, la scuola di sovversione finanziata dalla CIA. OTPOR, direttamente finanziata e sostenuta dalla CIA e dalle reti di Soros, sta dietro allo scatenarsi delle cosiddette “rivoluzioni arabe”, attraverso colpi di stato improvvisi che sono un segno distintivo dei mercenari degli Stati Uniti e della NATO. Si tratta puramente e semplicemente, come affermiamo dal primo giorno, di colpi di stato, ben orchestrati e preparati dai servizi speciali della NATO. Con l’aiuto di mercenari dell’Occidente, i professionisti della destabilizzazione Made in NATO, “OTPOR & Co”.

Srdja Popovic, che ora dirige il Center for Applied Nonviolent Action and Strategies (CANVAS), con sede a Belgrado (Serbia), ha confermato tutto ciò a marzo 2011 in un’intervista con la Associated Press. I veterani del movimento OTPOR – che hanno sconfitto Milosevic a Belgrado nell’ottobre 2000 – hanno continuato a creare un’organizzazione che forma in Serbia e negli Stati Uniti dei mercenari filoccidentali esperti nell’arte della sovversione, con il pretesto della “rivoluzione pacifica” (sic). Hanno formato uno dei principali gruppi di giovani al centro della rivoluzione in Egitto, e precisano di aver “influenzato la ribellione libica.” “È probabile che alcuni gruppi di giovani libici abbiano avuto un’idea su come rovesciare il leader libico Muammar Gheddafi da attivisti egiziani che si sono formati con noi”, ha detto l’ex capo di OTPOR Popovic. OTPOR ha anche organizzato gruppi in Tunisia, Yemen, Bahrein, Marocco. E in Algeria.

 

 

Verso un nuovo assalto contro l’Algeria: “Blogger addestrati dalla CIA in Tunisia”

Ed ecco che, a quanto pare, questi mercenari della turbolenza politica s’interessano nuovamente all’Algeria.

La dirigente del Partito dei lavoratori algerini, Louisa Hanoune, ha rivelato che durante una recente manifestazione ad Annaba, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, “una società privata americana ha assunto più di 200 giovani algerini che vivono in Tunisia per utilizzarli nel prossimo episodio della primavera araba atteso a breve in Algeria”. Il numero di blogger algerini coinvolti in questo programma di lavoro è di 200, e lavorano “a determinare le restrizioni alle libertà in Algeria e definire i bisogni sociali della popolazione”. Alcuni hanno la missione di “documentare gli eventi del ‘decennio nero’ in Algeria e gli abusi di potere durante gli anni 90”.

In seguito Louisa Hanoune ha confermato la presenza di altre organizzazioni non-governative appartenenti allo spionaggio americano che stanno lavorando per destabilizzare l’Algeria, approfittando delle difficili condizioni socio-economiche delle regioni meridionali, sensibili alla secessione.

Secondo il quotidiano algerino “al-Fajr”, “sembra che il Movimento della Rinascita operi in coordinamento con la società americana Freedom House per reclutare 200 giovani blogger algerini e per renderli attivi nei social network o nell’organizzare forum che denuncino una pretesa crisi in Algeria per una contrazione delle libertà nel paese”. Il tutto incorniciato in un programma chiamato “Nuova Generazione di Attivisti per la Democrazia in Algeria”.

 

 

Scenario di tipo libico in Algeria

Esiste un programma che mira a destabilizzare l’Algeria, ed è sotto la supervisione del Ministro algerino dei Diritti dell’uomo, nonché membro del Movimento della Rinascita, Samir Dilo. Il cavallo di Troia filoccidentale è quindi già al suo posto all’interno del regime algerino, che s’è aperto a formazioni islamiste cosiddette “moderate”.

Uno scenario che ricorda la Libia di Gheddafi, dove l’ala liberale filoccidentale, apparsa nel 2003, ha destabilizzato la Jamahiriyya e ha preparato il colpo di stato del CNT. Liberali, ancora una volta, alleati a settari islamisti come Mustapha Abdel Jalil, a capo del CNT.

Anche La Libia, dal 2003, ha avuto un’ala liberale, opposta a quella dei socialisti patrioti, raccolta dietro a Saif al-Islam Gheddafi, che ha portato i liberali e gli islamisti (come il presidente dello pseudo CNT Abdel Jalil) al potere. Bisogna leggere le pagine rivelatrici di Bernard-Henry Lévy su Saif al-Islam, nel suo ultimo libro di autopropaganda personale La guerra ma senza amarla, in cui si pone la questione: “Come è stato possibile che lui, che era dei nostri, sia potuto ritornare dalla parte di suo padre?”.

Il regime libico è stato destabilizzato e attaccato dal di dentro, dal 2003, prima che le bombe, gli eserciti e i mercenari della NATO e degli Stati Uniti venissero a finire il lavoro. Ho vissuto dall’interno questa presa della Libia, a fianco dei nostri compagni socialisti dell’MCR. Ho visto come le illusioni di Tripoli in materia di coesistenza pacifica e di economia globale, ma anche il dialogo con gli “islamisti moderati”, abbiano in realtà permesso ai liberali di fungere da cavallo di Troia libico e di preparare l’assalto esterno. Tutti questi liberali, con l’eccezione del figlio di Gheddafi, che alla fine ha scelto la fedeltà al padre e al suo paese, si sono ritrovati nella Giunta di Bengasi, e poi oggi nelle istituzioni-fantoccio della Libia ricolonizzata.

 

 

Ancora e sempre i Fratelli Musulmani

Il quotidiano “al-Fajr” rivela “che ha avuto luogo una sessione di formazione sulla disobbedienza civile, promossa dal Movimento della Rinascita in collaborazione con la Freedom House”. Ora, il ramo di questa organizzazione in Algeria è guidata da Abdul Razzaq, vicepresidente del Movimento della Società per la Pace, un movimento che è la rappresentanza algerina dei Fratelli Musulmani.

Washington non ha mai rinunciato a imporre la sua cosiddetta “primavera araba” in Algeria. E come dappertutto, la punta di diamante della sua politica imperialista sono i suoi vecchi protetti – dal 1947 (poiché prima i “Fratelli” erano aiutati dal Terzo Reich) – i Fratelli Musulmani!

 

 

Uso del secessionismo dei Cabili per destabilizzare l’Algeria

Per uno scenario di tipo libico, è necessaria anche una “Bengasi algerina”. Questo è precisamente il ruolo assegnato alla riattivazione del secessionismo dei Cabili, argomento tabù in Algeria, dove si preferisce parlare di generici “problemi del Sud”.

La Segretaria Generale del Partito dei Lavoratori (PT), Louisa Hanoune, mette in guardia contro una possibile rivolta nel sud dell’Algeria, dove le autorità ufficiali non agiscono velocemente come servirebbe per contenere la situazione e soddisfare le esigenze dei giovani di questa regione. Sempre intervenendo alla riunione pubblica tenutasi ad Annaba, il segretario generale del PT ha rivelato “l’esistenza di alcune segnalazioni da parte di organizzazioni occidentali, che trattano questioni relative al rispetto dei diritti umani, citando la crescita debole nell’area della Cabilia e del sud del paese, e si sorprendono del fatto che non vi sia un legame reale con le velleità separatiste di Ferhat M’henni”.

Il giornale telematico “Echorouk” riferisce che, secondo Louisa Hanoune, “le ONG che dipendono dal servizio spionistico degli Stati Uniti mirano a destabilizzare il paese, approfittando delle situazioni difficili vissute dalle sue regioni meridionali, dove si sono sollevate recentemente alcune voci che spingevano alla separazione dal resto del paese”. Nonostante Louisa Hanoune abbia elogiato la posizione eroica e lo spirito nazionalista della popolazione del sud, che si aggrappa saldamente all’integrità territoriale del paese, si è tuttavia soffermata sulle anomalie significative che è necessario colmare, portando l’attenzione generale sui problemi sociali della popolazione del Sud”. Essa ha poi concluso, giustamente, sul “pericolo che incombe sul paese, se Bouteflika non decide urgentemente su tali questioni, al fine di evitare al paese gli orrori della guerra in Mali e un possibile intervento straniero nel paese, intervento che alcuni stati e alcune organizzazioni stanno già preparando”.

Il 2013 sarà un anno molto pericoloso per l’Algeria. Un’Algeria isolata, con governi islamisti in Tunisia, Libia ed Egitto; col Marocco, suo nemico tradizionale, in cui gli islamisti sono allo stesso modo al lavoro, e con, infine, un Sahel dove la NATO e l’AFRICOM sono ora molto presenti, grazie all’intervento in Mali.

 

 

Fonte: “La Voix De La Libye”, 15 marzo 2013

(traduzione di Europeanphoenix.it ©)

 

 

 

 

 

 

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